Articolo 18 della legge, sulla reintegrazione nel posto di lavoro.

Legge 20 maggio 1970, n. 300

Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.
Pubblicata nella Gazz. Uff. 27 maggio 1970, n. 131.

(giurisprudenza di legittimità)
Art. 18. Reintegrazione nel posto di lavoro.

Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro (3/c).

Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale (3/d).

Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie (3/e).

Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto (3/f).

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti (3/g) (1/cost). La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile. L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.

Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore (8/cost).

(3/c) I primi cinque commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell'art. 1, L. 11 maggio 1990, n. 108, riportata al n. L/IV. Successivamente, la Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio-6 febbraio 2003, n. 41 (Gazz. Uff. 11 febbraio 2003, ediz. straord. - Prima serie speciale), ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate nella stessa sentenza: dell'art. 18, commi primo, secondo e terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108; degli artt. 2, comma 1, e 4, comma 1, secondo periodo, della legge n. 108 del 1990; dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604; nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990; richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 9 dicembre 1992, dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione. Il referendum popolare per l'abrogazione delle suddette norme è stato indetto con D.P.R. 9 aprile 2003 (Gazz. Uff. 11 aprile 2003, n. 85), corretto con Comunicato 9 maggio 2003 (Gazz. Uff. 9 maggio 2003, n. 106). Con Comunicato 14 luglio 2003 (Gazz. Uff. 14 luglio 2003, n. 161) la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha reso noto che l'ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, con verbale chiuso in data 10 luglio 2003, ha accertato che alla votazione per il referendum popolare indetto con il suddetto D.P.R. 9 aprile 2003 non ha partecipato la maggioranza degli aventi diritto, come richiesto dall'art. 75, quarto comma, della Costituzione.

(3/d) I primi cinque commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell'art. 1, L. 11 maggio 1990, n. 108, riportata al n. L/IV. Successivamente, la Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio-6 febbraio 2003, n. 41 (Gazz. Uff. 11 febbraio 2003, ediz. straord. - Prima serie speciale), ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate nella stessa sentenza: dell'art. 18, commi primo, secondo e terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108; degli artt. 2, comma 1, e 4, comma 1, secondo periodo, della legge n. 108 del 1990; dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604; nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990; richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 9 dicembre 1992, dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione. Il referendum popolare per l'abrogazione delle suddette norme è stato indetto con D.P.R. 9 aprile 2003 (Gazz. Uff. 11 aprile 2003, n. 85), corretto con Comunicato 9 maggio 2003 (Gazz. Uff. 9 maggio 2003, n. 106). Con Comunicato 14 luglio 2003 (Gazz. Uff. 14 luglio 2003, n. 161) la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha reso noto che l'ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, con verbale chiuso in data 10 luglio 2003, ha accertato che alla votazione per il referendum popolare indetto con il suddetto D.P.R. 9 aprile 2003 non ha partecipato la maggioranza degli aventi diritto, come richiesto dall'art. 75, quarto comma, della Costituzione.

(3/e) I primi cinque commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell'art. 1, L. 11 maggio 1990, n. 108, riportata al n. L/IV. Successivamente, la Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio-6 febbraio 2003, n. 41 (Gazz. Uff. 11 febbraio 2003, ediz. straord. - Prima serie speciale), ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate nella stessa sentenza: dell'art. 18, commi primo, secondo e terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108; degli artt. 2, comma 1, e 4, comma 1, secondo periodo, della legge n. 108 del 1990; dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604; nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990; richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 9 dicembre 1992, dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione. Il referendum popolare per l'abrogazione delle suddette norme è stato indetto con D.P.R. 9 aprile 2003 (Gazz. Uff. 11 aprile 2003, n. 85), corretto con Comunicato 9 maggio 2003 (Gazz. Uff. 9 maggio 2003, n. 106). Con Comunicato 14 luglio 2003 (Gazz. Uff. 14 luglio 2003, n. 161) la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha reso noto che l'ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, con verbale chiuso in data 10 luglio 2003, ha accertato che alla votazione per il referendum popolare indetto con il suddetto D.P.R. 9 aprile 2003 non ha partecipato la maggioranza degli aventi diritto, come richiesto dall'art. 75, quarto comma, della Costituzione.

(3/f) I primi cinque commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell'art. 1, L. 11 maggio 1990, n. 108, riportata al n. L/IV.

(3/g) I primi cinque commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell'art. 1, L. 11 maggio 1990, n. 108, riportata al n. L/IV.

(1/cost) La Corte costituzionale, con ordinanza 7-15 marzo 1996, n. 77 (Gazz. Uff. 20 marzo 1996, n. 12, Serie speciale) e con ordinanza 11-22 luglio 1996, n. 291 (Gazz. Uff. 14 agosto 1996, n. 33, Serie speciale), ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, quinto comma, sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Analoga questione era già stata esaminata dalla stessa Corte e dichiarata non fondata con sentenza n. 81 del 1982, seguita da due ordinanze di manifesta infodatezza, nn. 160 e 427 del 1962. Le ragioni addotte nell'attuale ordinanza di rimessione non hanno indotto la Corte a mutare giurisprudenza.

(8/cost) La Corte costituzionale, con sentenza 14-23 dicembre 1998, n. 420 (Gazz. Uff. 30 dicembre 1998, n. 52, Serie speciale), ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27 (recte: 24) della Costituzione.

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