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Non esiste un diritto a non nascere se non sano. La Cassazione si pronuncia sulla richiesta di risarcimento dei genitori di una bambina down

Non si puo' parlare di un diritto a non nascere; tale e' l'alternativa; e non certo quella di nascere sani, una volta esclusa alcuna responsabilita', commissiva o anche omissiva, del medico nel danneggiamento del feto. L'ordinamento non riconosce il diritto alla non vita: cosa diversa dal c.d. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volonta' ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie e' fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali. Ne' vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011, n. 9700). La formula, concettualmente fluida ed inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facolta' che e' concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni - progressivamente piu' restrittive nel tempo - posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto gia' esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negativita'.

Corte di Cassazione, Sezione U civile, Sentenza 22 dicembre 2015, n. 25767



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio - Primo Presidente f.f.

Dott. FINOCCHIARO Mario - Presidente di Sez.

Dott. AMOROSO Giovanni - Presidente di Sez.

Dott. BERNABAI Renato - est. Consigliere

Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere

Dott. MAMMONE Giovanni - Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo - rel. Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria - Consigliere

Dott. GRECO Antonio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:
 

SENTENZA

sul ricorso 29913/2008 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), in proprio e nella qualita' di genitori esercenti la potesta' sulla figlia minore (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall'avvocato (OMISSIS), per delega a margine del ricorso;

- ricorrenti -

contro

AZIENDA USL (OMISSIS) LUCCA, in persona del Direttore Generale pro tempore, (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), per delega in calce al controricorso;

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato (OMISSIS), per delega in calce alla copia notificata del ricorso;

- controricorrenti -

e contro

(OMISSIS) S.P.A.;

- intimata -

avverso la sentenza n. 774/2008 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 15/05/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/09/2015 dal Consigliere Dott. ANGELO SPIRITO;

uditi gli avvocati (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS)

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 15 maggio 1997 i sigg. (OMISSIS) e (OMISSIS) convenivano dinanzi al Tribunale di Lucca il Prof. (OMISSIS), primario di ginecologia presso l'ospedale (OMISSIS), nonche' la direzione generale dell'Azienda Usl n. (OMISSIS) ed il Dott. (OMISSIS), primario del laboratorio delle analisi chimiche microbiologiche del predetto ospedale, esponendo:

- che la signora (OMISSIS) aveva partorito in data (OMISSIS) la figlia (OMISSIS), risultata affetta da sindrome di Down;

- che in precedenza, in data (OMISSIS), aveva eseguito esami ematochimici a scopo di indagine diagnostica prenatale, proprio al fine di identificare tale eventuale patologia;

- che il primario, prof. (OMISSIS) inviava la paziente al parto, omettendo, colposamente, ulteriori approfondimenti, resi necessari dai valori non corretti risultanti dagli esami.

Costituitosi ritualmente, il prof. (OMISSIS) negava la propria responsabilita', assumendo che i risultati degli esami non erano tali da indurre al sospetto della sindrome di Down nel feto e chiedeva di essere autorizzato a chiamare in causa la compagnia (OMISSIS) s.p.a., presso la quale era assicurato nell'esercizio della professione.

Dopo il conforme provvedimento del giudice istruttore si costituivano l'Azienda Usl n. (OMISSIS) il Dr. (OMISSIS), nonche' le (OMISSIS) s.p.a., che contestavano la domanda sia nell'an che nel quantum debeatur.

Dopo lo scambio di memorie ex articoli 183 e 184 c.p.c., la causa, senza ulteriore istruttoria, veniva decisa con sentenza 13 ottobre 2003, di rigetto della domanda, con compensazione delle spese.

Il successivo gravame era respinto dalla Corte d'appello di Firenze con sentenza 15 maggio 2008.

La corte territoriale motivava:

- che il risarcimento del danno non conseguiva automaticamente all'inadempimento dell'obbligo di esatta informazione a carico del sanitario su possibili malformazioni del nascituro, bensi' era soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni previste dalla Legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza) per ricorrere all'interruzione della gravidanza;

- che questa, nello spirito della legge, era consentita per evitare un pericolo per la salute della gestante e subordinata a requisiti specifici, in assenza dei quali l'aborto costituiva reato;

- che in particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, occorreva che la presenza di rilevanti anomalie nel feto determinasse un grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, su cui incombeva il relativo onere della prova (Legge n. 194 del 1978, articolo 6);

- che, sul punto, gli attori non avevano fornito neppure delle specifiche allegazioni, limitandosi ad affermare che corrispondeva a regolarita' causale il rifiuto della gestante, se correttamente informata, a portare a termine la gravidanza; ne' era ammissibile supplire al difetto di prova mediante la richiesta consulenza tecnica d'ufficio;

- che si doveva pure negare la legittimazione attiva della figlia minore, sulla base della prospettazione di un diritto a non nascere privo di riconoscimento nell'ordinamento giuridico; come pure l'ammissibilita' del c.d. aborto eugenetico, in assenza di alcun pericolo per la salute della madre, una volta esclusa ogni responsabilita' del medico nella causazione della malformazione del feto.

Avverso la sentenza, notificata il 6 ottobre 2008, i sigg. (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali genitori esercenti la potesta' sulla figlia minore (OMISSIS), proponevano ricorso per cassazione, articolato in due motivi, notificato il 5 dicembre 2008.

Deducevano:

1) la violazione degli articoli 1176 e 2236 c.c. e della Legge 22 maggio 1978, n. 194, articolo 6, nel riversare sulla gestante l'onere della prova del grave pericolo per la sua salute fisica o psichica dipendente dalle malformazioni del nascituro: laddove l'impedimento all'esercizio del diritto di interrompere la gravidanza era di per se' sufficiente a integrare la responsabilita' del medico con il conseguente suo obbligo al risarcimento;

2) la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 Cost. e della Legge 29 luglio 1975, n. 405, nella negazione, alla figlia minore, del diritto ad un'esistenza sana e dignitosa: nella specie, compromessa dai pregiudizi correlati alla presenza di malformazioni genetiche.

Resistevano congiuntamente l'Azienda Usl (OMISSIS) di Lucca, il Dr. (OMISSIS), nonche', con distinto controricorso, il prof. (OMISSIS).

I ricorrenti ed il prof. (OMISSIS) depositavano memoria illustrativa ex articolo 378 c.p.c..

La terza sezione civile, cui era stato assegnato il ricorso, ravvisando un contrasto di giurisprudenza nei precedenti arresti di legittimita', rimetteva la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite.

In particolare, il collegio poneva in evidenza che la tematica della c.d. nascita indesiderata aveva dato luogo, in ordine alla questione dell'onere probatorio ad un primo e piu' risalente orientamento, secondo cui corrisponde a regolarita' causale che la gestante interrompa la gravidanza, se informata di gravi malformazioni del feto (Cass. numero 6735/2002; Cass., sez. 3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., sez. 3, 4 gennaio 2010 n. 13; Cass., sez. 3, 10 novembre 2010 n. 22837; Cass., sez. 3, 13 luglio 2011 n. 15386; cui si era contrapposta una giurisprudenza piu' recente, che aveva escluso tale presunzione semplice, ponendo a carico della parte attrice di allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza (Cass., sez. 3, 2 ottobre 2012 n. 16754; Cass., sez. 3, 22 marzo 2013 n. 7269; Cass., sez. 3, 10 dicembre 2013 n. 27.528; Cass., sez. 3, 30 maggio 2014 n. 12264).

In ordine al secondo motivo di ricorso, rilevava un contrasto ancora piu' marcato sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico e della struttura sanitaria: alla tesi negativa sostenuta da Cass., sez. 3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., sez. 3, 14 luglio 2006 n. 16123, Cass., sez. 3, 11 maggio 2009 n. 10741 faceva riscontro la contraria opinione che escludeva il requisito della soggettivita' giuridica del concepito e la sua legittimazione, dopo la nascita, a far valere la violazione del diritto all'autodeterminazione della madre, causa del proprio stato di infermita', che sarebbe mancato se egli non fosse nato (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011 n. 9700; Cass., sez. 3 2 ottobre 2012 n. 16754).

Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all'udienza del 22 settembre 2015 sulle conclusioni del Procuratore generale e dei difensori in epigrafe riportate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione di legge nel riparto dell'onere della prova del grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente da rilevanti malformazioni del nascituro.

Punto di partenza della relativa disamina e' l'interpretazione della Legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilita' legale di ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza.

Il diniego, in linea di principio, dell'interruzione di gravidanza come strumento di programmazione familiare, o mezzo di controllo delle nascite, e "a fortiori" in funzione eugenica, emerge, infatti, inequivoco gia' dall'articolo 1, contenente l'enunciazione solenne della gerarchia dei valori presupposta dal legislatore, rivelatrice della natura eccezionale delle ipotesi permissive; fuori delle quali l'aborto resta un delitto ("Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternita' e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non e' mezzo per il controllo delle nascite").

In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni ivi rigorosamente tipizzate ha non solo efficacia esimente da responsabilita' penale, ma genera un vero e proprio diritto all'autodeterminazione della gestante di optare per l'interruzione della gravidanza (articolo 6: "L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, puo' essere praticata:

a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna").

Il dettato normativo trova rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, gia' persona, e quella dell'embrione, che persona deve ancora diventare (Corte Cost. 18 febbraio 1975 n. 20).

In questa cornice normativa, la censura dei ricorrente qui in scrutinio ripropone l'annoso problema del riparto dell'onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata (wrongful birth lawsuit. Con l'espressionewrongful life si indica, invece, la causa petendi dell'azione esercitata in proprio dal figlio: sintagmi, inaugurati - sembra - dalla Appellate Cort dell'Illinois nella sentenza 3 Aprile 1963, Zepeda v. Zepeda, in un caso in cui l'attore aveva convenuto, per danni, il padre, responsabile di averlo condannato ad una vita infelice, quale figlio illegittimo).

L'impossibilita' della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all'articolo 6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, e' fonte di responsabilita' civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grave l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l'intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto.

Occorre pero' che l'interruzione sia legalmente consentita - e dunque, con riferimento al caso in esame, che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna - giacche', senza il concorso di tali presupposti, l'aborto integrerebbe un reato; con la conseguente esclusione della stessa antigiuridicita' del danno, dovuto non piu' a colpa professionale, bensi' a precetto imperativo di legge.

Oltre a cio', dev'essere altresi' provata la volonta' della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti.

Sotto questo profilo, il thema probandum e' costituito da un fatto complesso; e cioe', da un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia del nascituro, l'omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest'ultima.

In tale evenienza, puo' essere impossibile fornire la dimostrazione analitica di tutti gli eventi o comportamenti che concorrano a comporre la fattispecie: onde, il problema si risolve ponendo ad oggetto della prova alcuni elementi che si ritengano rappresentativi dell'insieme e dai quali sia percio' possibile derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell'intero fatto complesso.

Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato - ove il convenuto non dia per pacifiche le componenti di fatto essenziali della fattispecie - e' costituito dalla circostanza che la prova verte anche su un fatto psichico: e cioe', su uno stato psicologico, un'intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti.

L'ovvio problema che ne scaturisce e' che del fatto psichico non si puo' fornire rappresentazione immediata e diretta; sicche' non si puo' dire che esso sia oggetto di prova in senso stretto. In tal caso, l'onere probatorio - senza dubbio gravoso, vertendo su un'ipotesi, e non su un fatto storico - puo' essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare.

Il passo successivo consiste nell'applicare la concezione quantitativa o statistica della probabilita', intesa come frequenza di un evento in una serie di possibilita' date: espressa dall'ormai consolidato parametro del "piu' probabile, che no".

Nel caso in esame, la Corte d'appello di Firenze, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto che l'onere della prova di tutti presupposti della fattispecie di cui all'articolo 6 ricadesse sulla gestante; inclusa quindi, la prova che ella avrebbe positivamente esercitato la scelta abortiva: cio' che implica un impervio accertamento induttivo anche delle convinzioni di ordine umano, etico ed eventualmente religioso, oltre che delle condizioni di salute psico-fisica esistenti all'epoca, che avrebbero concorso a determinare l'incoercibile decisione di interrompere, o no, la gravidanza.

Ne ha poi tratto la conclusione che, in difetto di tale prova positiva, neppure la consulenza tecnica d'ufficio fosse ammissibile; e la domanda dovesse essere quindi respinta in limine.

Al riguardo, si osserva che se la premessa astratta appare esatta, dal momento che i presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna, ex articolo 2697 c.c. (onus incumbit ei qui dicit) - con un riparto che appare del resto rispettoso del canone della vicinanza della prova - si palesa manchevole, invece, l'omessa valutazione - che sembra adombrare un'esclusione aprioristica - della possibilita' di assolvere il relativo onere in via presuntiva.

E' bene chiarire che non si verte in tema di presunzione legale, sia pure juris tantum: la cui consacrazione in via generale ed astratta appartiene al legislatore e che si risolve in una semplificazione della fattispecie legale, esimendo la parte dall'onere di provarne uno o piu' elementi integrativi, ulteriori rispetto alla premessa fattuale (non diversamente che in caso di non contestazione del fatto, che pure comporta la relevatio ab onere probandi; pur se di quest'ultima sia dubbia l'irreversibilita': articolo 345 c.p.c., comma 2). Nulla del genere e' infatti riscontrabile nella presente fattispecie, in cui il legislatore non esime in alcun modo la madre dall'onere della prova della malattia grave, fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all'interruzione della gravidanza, nonche' della sua conforme volonta' di ricorrervi.

Ci si riferisce, invece, alla praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all'articolo 2729 c.c., che consiste nell'inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l'id quod plerumque accidit - che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d'ufficio, se non rientrino nella sfera del notorio (articolo 115 c.p.c., comma 2) - ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche - emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d'ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all'opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc..

In questa direzione il tema d'indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarita' causale: restando sui professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all'aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale.

E' da escludere, peraltro, che tale indagine debba approdare ad un'elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all'aborto; che, proprio per il suo carattere generale e astratto, ma dissimulerebbe l'inammissibile prefigurazione giudiziale di una presunzione juris tantum.

In conclusione, la statuizione della Corte d'appello di Firenze si e' arrestata a livello enunciativo del principio generale, pur esatto, del riparto dell'onere probatorio: e risulta dunque manchevole nella parte in cui omette di prendere in considerazione la possibilita' di una prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati.

La sentenza dev'essere quindi cassata sul punto; restando impregiudicato l'accertamento susseguente dell'effettivo evento di danno conseguito al mancato esercizio del diritto di scelta, per eventuale negligenza del medico curante, parimenti oggetto di prova. Esclusa, infatti, la configurabilita' di un danno in re ipsa - quale espressamente prospettato dai ricorrenti - occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, Legge n. 194 del 1978, ex articolo 6, lettera b), (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d'ufficio.

Esula, altresi', dal thema decidendum di questa fase di legittimita' il problema dell'identificazione dell'eventuale pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto, al fatto colposo dei sanitari (articoli 1223 e 2056 c.c.): se limitato allo stesso danno alla salute prefigurato ex ante quale causa permissiva dell'interruzione di gravidanza - restando cioe' interno alla fattispecie di cui all'articolo 6, in considerazione della natura eccezionale della norma - o se sia esteso a tutti danni-conseguenza riconducibili, in tesi generale, all'ordinaria responsabilita' aquiliana.

Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 Cost. e della Legge 29 luglio 1975, n. 405, nella negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, al risarcimento del danno per l'impossibilita' di un'esistenza sana e dignitosa.

E' questo il problema, senza dubbio, piu' delicato e controverso della fattispecie legale in esame, che ha visto contrapposti due indirizzi di pensiero, di ispirazione anche metagiuridica, contesta di riflessioni financo filosofiche ed etico-religiose, di irriducibile antinomia: segnati spesso da accese intonazioni polemiche in una pubblicistica ideologicamente schierata, in favore o contro la presunzione juris et de jure di preferibilita' della vita, per quanto malata (problematica, che investe anche temi diversi, come quello della morte pietosa).

Anche se debba escludersi un approccio di carattere eminentemente giuspolitico - che appartiene al legislatore: spettando, per contro, al giudice l'interpretazione della disciplina vigente, sia pure nel piu' completo approfondimento delle potenzialita' evolutive in essa insite - non e' seriamente contestabile che sulla giurisprudenza pregressa, anche straniera, abbiano influito, ben oltre l'ordinario, considerazioni antropologiche e soprattutto di equita', intesa come ragionevole attenuazione e modificazione apportata alla legge in virtu' di speciali circostanze.

Nucleo centrale della disamina e' quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all'articolo 1 c.c. ("La capacita' giuridica si acquista dal momento della nascita"), conforme ad un pensiero giuridico plurisecolare.

Natura eccezionale, a questa stregua, rivestirebbero le norme che riconoscono diritti in favore del nascituro, concepito o non concepito, subordinati all'evento della nascita (ibidem, secondo comma): quale deroga al principio generale secondo cui non puo' reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora esistente (articoli 254, 320, 462, 784), o non era piu' (arg. ex articolo 4 c.c.).

Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto adespota, la cui configurazione riuscirebbe, "prima facie" in contrasto con il principio generale sopra richiamato.

L'argomento, apparentemente preclusivo in limine, non si palesa, peraltro, insuperabile; e di fatto e' stato superato da quella giurisprudenza di legittimita' che ha opposto che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventa attuale ed azionabile dopo la nascita del soggetto.

E' vero, in tesi generale, che l'attribuzione di soggettivita' giuridica e' appannaggio del solo legislatore, e che la c.d. giurisprudenza normativa, talvolta evocata quale fonte concorrente di diritto, violerebbe il principio costituzionale di separazione dei poteri ove non si contenesse all'interno dei limiti ben definiti di clausole generali previste nella stessa legge, espressive di valori dell'ordinamento (buona fede, solidarieta', ecc.): eventualmente riesumando la dicotomia storica tra giurisprudenza degli interessi (Interessenjurisprudenz), di ispirazione evolutiva, e giurisprudenza dei concetti (Begriffsjurisprudenz), di natura statica: entrambe, peraltro, storicamente ancorate ad una concezione positivistica del diritto.

Ma in realta' non e' punto indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato di capacita' giuridica - contro il chiaro dettato dell'articolo 1 c.c. - per confermare l'astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Al fondo di tale ricostruzione dogmatica vi e', infatti, il convincimento tradizionale, da tempo sottoposto a revisione critica, che per proteggere una certa entita' occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto.

Questa Corte ha gia' da tempo negato, pur se in ipotesi di danno provocato al feto durante il parto, che l'esclusione del diritto ai risarcimento possa affermarsi su solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita: definendo erronea la concezione che, a tal fine, ritiene necessaria la sussistenza di un rapporto intersoggettivo ab origine tra danneggiante e danneggiato. Ed ha concluso che, una volta accertata l'esistenza di un rapporto di causalita' tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalita' giuridica, sorge e dev'essere riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento (Cass., sez. 3, 22 novembre 1993, n. 11503).

Tenuto conto del naturale relativismo dei concetti giuridici, alla tutela del nascituro si puo' pervenire, in conformita' con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettivita' - che e' una tecnica di imputazione di diritti ed obblighi - bensi' considerandolo oggetto di tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n. 27; Cass., sez. 3, maggio 2011 n. 9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881).

Tale principio informa espressamente diverse norme dell'ordinamento. Cosi', la Legge 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 1, comma 1 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera tra i soggetti tutelati anche il concepito ("AI fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilita' o dalla infertilita' umana e' consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalita' previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito"). Analogo concetto e' riflesso nella stessa Legge 22 maggio 1978, n. 194, articolo 1 (Norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita umana anteriormente alla nascita ("Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternita' e tutela la vita umana dal suo inizio). Anche la Legge 29 luglio 1975, n. 405 (Istituzione dei consultori familiari) afferma l'esigenza di proteggere la salute del concepito (articolo 1: "Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternita' ha come scopi...-, c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento"). Infine, nell'ambito della stessa normativa codicistica, l'articolo 254, prevede il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato.

Entro questa cornice dogmatica si puo' dunque concludere per l'ammissibilita' dell'azione del minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto neppure collide con la teoria della causalita', posto che e' ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell'effetto pregiudizievole, purche' senza il concorso determinante di concause sopravvenute (cfr. articolo 41 c.p.).

Qui la particolarita' risiederebbe nel fatto che il medico sia, in ipotesi, l'autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facolta' riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva che si ponga in rapporto diretto di causalita' con la nascita indesiderata; e la soluzione verrebbe, in tal modo, ad essere identica alla diversa ipotesi della responsabilita' del medico verso il nato disabile per omessa comunicazione ai genitori della pericolosita' di un farmaco somministrato per stimolare l'attivita' riproduttiva (Cass. 11 maggio 2009 n 10741), o di una malattia della gestante suscettibile di ripercuotersi sulla salute del feto.

Se dunque l'astratta riconoscibilita' della titolarita' di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato non trova un ostacolo insormontabile nell'anteriorita' del fatto illecito alla nascita, giacche' si puo' essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacita' giuridica ai sensi dell'articolo 1 c.c., occorre scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed il rapporto di causalita' tra condotta del medico ed evento di danno.

Sotto il primo profilo, in un approccio metodologico volto a mettere tra parentesi tutto cio' che concretamente non e' indispensabile, per cogliere l'essenza di cio' che si indaga, si deve partire dal concetto di danno-conseguenza, consacrato all'articolo 1223 c.c. e riassumibile, con espressione empirica, nell'avere di meno, a seguito dell'illecito. In siffatta ricostruzione dogmatica, il danno riuscirebbe pertanto legato alla stessa vita del bambino; e l'assenza di danno alla sua morte

Ed e' qui che la tesi ammissiva, in subiecta materia, incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l'illecito, e' la non vita, da interruzione della gravidanza. E la non vita non puo' essere un bene della vita; per la contraddizion che nol consente.

Tanto meno puo' esserlo, per il nato, retrospettivamente, l'omessa distruzione della propria vita (in fieri), che e' il bene per eccellenza, al vertice della scala assiologica dell'ordinamento.

Anche considerando norma primaria l'articolo 2043 c.c., infatti, viene meno, in radice, il concetto stesso di danno ingiusto; oltre che reciso il nesso eziologico, sia pure inteso in base ai principi della causalita' giuridica e nella sua ampiezza piu' estesa, propria della teoria della condicio sine qua non (generalmente rifiutata, peraltro, in materia di illecito civile).

Non si puo' dunque parlare di un diritto a non nascere; tale, occorrendo ripetere, e' l'alternativa; e non certo quella di nascere sani, una volta esclusa alcuna responsabilita', commissiva o anche omissiva, del medico nel danneggiamento del feto. Allo stesso modo in cui non sarebbe configurabile un diritto al suicidio, tutelabile contro chi cerchi di impedirlo: che anzi, non e' responsabile il soccorritore che produca lesioni cagionate ad una persona nel salvarla dal pericolo di morte (stimato, per definizione, male maggiore). Si aggiunga, per completezza argomentativa, che seppur non e' punibile il tentato suicidio, costituisce, per contro, reato l'istigazione o l'aiuto al suicidio (articolo 580 c.p.): a riprova ulteriore che la vita - e non la sua negazione - e' sempre stata il bene supremo protetto dall'ordinamento.

Del resto, il presupposto stesso del diritto e' la vita del soggetto; e la sua centralita' affermata fin dal diritto romano ("Cum igitur hominum causa omne ius constitutum sit... ": D. 1, 5, 2., Hermogenianus, libro primo iuris epitomarum).

Il supposto interesse a non nascere, com'e' stato detto efficacemente in dottrina, mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto piu' che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla volonta' del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del c.d. diritto alla felicita').

L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal c.d. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volonta' ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie e' fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali.

Ne' vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011, n. 9700). La formula, concettualmente fluida ed inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facolta' che e' concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni - progressivamente piu' restrittive nel tempo - posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto gia' esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negativita'.

In senso contrario, qualche voce in dottrina, non senza echi giurisprudenziali, adduce l'apparente antinomia tra la progressiva estensione del credito risarcitorio in favore del padre (Cass., sez. 3, 10 maggio 2002 n. 6735) e dei germani (Cass., sez. 3, 2 ottobre 2012 n. 16754) ed il perdurante diniego opposto al figlio, primo interessato dalle patologie prese in considerazione dalla norma: argomento, suggestivo ed impressionistico, ma di nessun pregio giuridico, restando ad un livello di costatazione empirica, senza adeguato apprezzamento delle diverse premesse in diritto.

A prescindere da una disamina approfondita, estranea al presente thema decidendum, della tesi estensiva sopra menzionata, per saggiarne la solidita' argomentativa, sia in ordine ai presupposti oggettivi - se, cioe', sia, o no, necessario che i parenti (che nessuna voce in capitolo hanno in ordine alla scelta abortiva), possano godere, di fatto, di un trattamento probatorio perfino piu' favorevole che non la madre, perche' esenti dall'onere di provare lo stesso pericolo per la propria salute contemplato dall'articolo 6 Legge cit. - e soggettivi - in quanto non onerati dell'omologa prova della loro condivisione dell'opzione abortiva - valore dirimente ha il rilievo che solo per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si puo' configurare una danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualita' della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato.

In una decisione che investa diritti fondamentali della persona umana, diventa, al riguardo, rilevante anche l'analisi comparatistica, mediante richiamo di precedenti attinti dall'esperienza maturata in ordinamenti stranieri, culturalmente vicini ed informati al piu' assoluto rispetto dei diritti della persona.

La giurisprudenza riguardante azioni di danni per wrongful birth e wrongful fife si e' formata innanzitutto presso le corti statunitensi.

Il primo caso in termini sembra essere quello deciso dalla New Jersey Supreme Court 6 marzo 1967 Gleitman v. Cosgrove, in cui furono respinte sia la domanda della madre contro il medico curante, che aveva trascurato la pericolosita' della rosolia della gestante - sotto il profilo che l'aborto era, all'epoca, un reato (soppresso dalla pronuncia della Supreme Court 22 Gennaio 1973 Roe - nome di fantasia, a tutela della privacy - v. Wade, con una maggioranza di sette giudici a due), sia quella del figlio nato malato: proprio con l'argomento, destinato a diventare tralatizio, che era improponibile un confronto tra vita con malattia e non vita.

Sulla scia del precedente, le Corti superiori nella maggior parte degli stati degli U.S.A. hanno respinto le richieste risarcitorie dei figli handicappati, accogliendo invece quella dei genitori (cfr. New Jersey Supreme Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan); con sporadiche eccezioni in singoli stati (California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories e, parzialmente, California Supreme Court Turpin v. Sortini, 1982) e (Harbeson v. Parke-Davies Inc. 6 gennaio 1983).

Anche in Germania, si e' negato il risarcimento al figlio handicappato (BGH, 18 gennaio 1983); cosi' come in Inghilterra (London Court of Appeal 19 febbraio 1982, Sachen McKay v. Essex Health Authority.

Alla luce di questi cenni sommali, si puo' enucleare una tendenza generale a ritenere compensabile la penosita' delle difficolta' cui il nato andra' incontro nel corso della sua esistenza, a cagione di patologie in nessun modo imputabili eziologicamente a colpa medica, mediante interventi di sostegno affidati alla solidarieta' generale; e dunque, nella sede appropriata alla tutela di soggetti diversamente abili e bisognosi di sostegno per cause di qualsivoglia natura, anche diversa da quella in esame.

Ed al riguardo nulla e' piu' significativo dell'evoluzione normativa seguita in Francia alla pronuncia della Cour de Cassation, assemble'e pleniere, 17 novembre 2000, sul c.d. affaire Perruche che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento ex delicto ad un nato affetto da grave malattia, non diagnosticata durante la gravidanza (in difformita' dalle conclusioni del P.G., sull'impossibilita' di ravvisare un danno nella stessa vita, espresse, per via apagogica, con sintesi icastica: "Le dommage c'est la vie et l'absence de dommage c'est la mort: La mort devient ainsi une vaieur preferable a' la vie"). Con la " Loi relative aux droits de malades et a' la qualite' du systeme de sante'" 4 marzo 2002 n. 2002-303 (c.d. Loi Kouchner, dal nome del ministro della salute proponente Bernard Kouchner), si sono infatti perentoriamente riaffermati i canoni tradizionali - con il crisma del primato della legge - prescrivendo che nessuno puo' far valere un pregiudizio derivante dal solo fatto della nascita e che la persona nata con un handicap dovuto a colpa medica puo' ottenerne il risarcimento quando l'atto colposo ha provocato direttamente o ha aggravato l'handicap, o non ha permesso di prendere misure in grado di attenuarlo (Art. 1 del titolo "Solidarite' envers les personnes handicapees": "Nul ne peut se prevaloir d'un prejudice du seul fait de sa naissance. La personne nee avec un handicap du' a' une faute medicale peut obtenir la reparation de son prejudice lorsque l'acte fautif a provoque' directement le handicap ou l'a aggrave', ou n'a pas permis de prendre les mesures susceptibles de l'atténuer"). Legge, la cui espressa retroattivita' - censurata dapprima dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo con due arresti assunti all'unanimita' dai 17 giudici della Grande Chambre (sent. 6 ottobre 2005 in cause Maurice c. Francia e Draon c. Francia) e poi dichiarata illegittima, in parte qua Conseil constitutionel 11 giugno 2010), appare, all'evidenza, significativa della volonta' del legislatore di risanare la cesura giurisprudenziale tra un indirizzo tradizionale, fondato su pilastri dogmatici e concettuali di plurisecolare vigenza, e la dirompente deviazione (definita, da parte della dottrina, perfino come arret de provocation) segnata dalla sentenza della Suprema Corte, ponendo a carico della solidarieta' nazionale l'assistenza dei nati handicappati.

In quest'ottica, viene meno anche il fondamento della tesi che ancora la sussistenza del credito risarcitorio ai c.d. doveri di protezione, di cui sarebbe beneficiario il nascituro: figura primamente elaborata dalla dottrina tedesca (chutzpflichte), che riconosce a parenti, o conviventi, anche per ragioni di lavoro, a contatto con la controparte contrattuale, una tutela piu' intensa, di natura contrattuale (Vertraege mit Schutzwirkung fuer Dritte), che non quella propria della generalita' dei terzi, che possono valersi, invece, della sola azione aquiliana. Sulla scorta di tale ricostruzione concettuale, si sostiene che se il contratto tra la madre ed il medico ha effetti protettivi verso i terzi (Cass., sez. 3, 29 luglio 2004 n. 14488, che tuttavia nega il diritto del figlio a risarcimento), non sarebbe coerente escluderne il bambino: facile inferenza che, se vale a giustificare la titolarita' del credito risarcitorio ex contractu da parte del nato affetto da anomalie cagionate direttamene dal sanitario, non supera, ancora una volta, l'ostacolo dell'inesistenza di un danno-conseguenza per effetto della mancata interruzione della gravidanza.

Ne' puo' essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l'affermazione di una responsabilita' del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un'analoga responsabilita' della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dalla Legge n. 194 del 1978, articolo 6, benche' correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l'obbligo della madre di abortire. E per quanto si voglia valorizzare un metodo antiformalista nella configurazione dell'illecito, valorizzando i principi di solidarieta' ex articoli 2 e 3 Cost., occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, del metodo casistico (case law System), nell'ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale dell'articolo 2043 c.c. (con l'espressione introduttiva: "qualunque fatto"...) in cui non si possono operare, a priori discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico della vittima.

Il contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilita' di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un'indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l'assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un'impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l'errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all'errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato: conclusione, che non puo' essere condivisa, ad onta delle fitte volute concettualistiche che la sorreggono, stante la profonda eterogeneita' delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversita' dell'apporto causale nei due casi.

Non senza soppesare altresi' il rischio di una reificazione dell'uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell'integrita' psico-fisica: deriva eugenica, certamente lontanissima dalla teorizzazione dottrinaria del c.d. diritto di non nascere, ma che pure ha animato, ad es., il dibattito oltralpe, provocando reazioni nella sensibilita' dell'associazionismo rappresentativo dei soggetti handicappati, anteriormente all'approvazione della legge Kouchner sopra citata. Ed una chiara negazione che la vita di un bambino disabile possa mai considerarsi un danno - sul presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano - e' pure contenuta nella sentenza 28 maggio 1993 della Corte Costituzionale federale tedesca (BVerfGE 88, 203).

Per superare gli ostacoli frapposti all'affermazione al supposto diritto a non nascere se non sano - ignoto al vigente ordinamento - i ricorrenti prospettano, altresi', nell'ambito del secondo motivo, una concorrente ragione di danno da valutare sotto il profilo dell'inserimento del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo.

Al riguardo, occorre notare, in via preliminare, che di tale allegazione non v'e' traccia nella sentenza impugnata; onde, si deve ritenere, in difetto di critica specifica alla sua mancata disamina, che essa sia formulata per la prima volta nel presente ricorso per cassazione. E tuttavia, essa non e', percio' stesso, inammissibile, risolvendosi in una mera argomentazione, volta dare fondamento alla medesima domanda, invariata nei suoi elementi essenziali costitutivi, svolta ab initio: come tale, immune da preclusioni.

Nel merito, essa si rivela peraltro un mimetismo verbale del c.d. diritto a non nascere se non sani; e va quindi incontro alla medesima obiezione dell'incomparabilita' della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con l'unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dell' interruzione della gravidanza.

Si deve dunque ritenere che l'argomentazione, se vale a confutare la tesi, peraltro gia' respinta, della irrisarcibilita' di un danno senza soggetto non ancora nato al momento della condotta dalla colposa del medico (c.d. diritto adespota), si palesa del tutto inidonea, per contro, a sormontare l'impossibilita' di stabilire un nesso causale tra quest'ultima e le sofferenze psicofisiche cui il figlio e' destinato nel corso la sua vita. Oltre al fatto di postulare un1 irruzione del diritto in un campo da sempre rimastogli estraneo, mediante patrimonializzazione dei sentimenti, in una visione panrisarcitoria dalle prospettive inquietanti.

Il ricorso dev'essere dunque accolto limitatamente al primo motivo con rinvio alla corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio, in relazione alla censura accolta, nonche' per le spese della presente fase di legittimita'.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo;

Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d'Appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio ed anche per il regolamento delle spese della fase di legittimita'.

 

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