La chiusura del fallimento

Il fallito persona fisica è ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, purché ricorrano determinate condizioni.

La procedura fallimentare si conclude, ai sensi dell’art. 118 L. F.:

  1. in caso di mancata presentazione di domande di insinuazione al passivo, non rilevando la proposizione di domande tardive;
  2. quando siano stati integralmente pagati o altrimenti estinti tutti i crediti concorrenti e i c. d. crediti della massa;
  3. quando sia stata comunque eseguita la ripartizione finale dell’attivo, sia stata essa satisfattoria oppure no;
  4. quando l’insufficienza dell’attivo sia tale da rendere inutile la prosecuzione della procedura.

Ove si verifichi alternativamente una delle prime due ipotesi contemplate dalla disposizione in commento, è necessario comunque, ai fini della chiusura del fallimento, che risultino integralmente pagati tutti i debiti e le spese da pagare in prededuzione, ivi compresi il compenso al curatore e le spese di procedura, dovendo, in caso contrario, la procedura stessa continuare per assicurare il pagamento di dette spese. A tale conclusione peraltro si poteva pervenire già nel vigore della precedente normativa, aderendo ad un’interpretazione estensiva della vecchia formulazione dell’art. 118 L. F.
Giova precisare, peraltro, che tutte le ipotesi descritte di chiusura del fallimento non sono ostacolate dall’esistenza di cause pendenti.
Inoltre il citato art. 118 L. F., come recentemente modificato, stabilisce che, in caso di fallimento delle società, il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese, con contestuale chiusura anche della procedura estesa ai soci, salvo che sia stata aperta nei confronti di questi anche una procedura come imprenditori individuali.
Legittimati a proporre l’istanza di chiusura del fallimento sono sia il curatore che il debitore fallito, fermo restando che la chiusura può essere disposta anche d’ufficio.
Peraltro, ai sensi dell’art. 119 L. F., nuova formulazione, contro il decreto che dichiara la chiusura o ne respinge la richiesta è ammesso reclamo alla Corte di Appello, la quale, a propria volta, provvede quindi a convocare in camera di consiglio il reclamante, il curatore ed il fallito. Il decreto di chiusura, dunque, una volta divenuto definitivo, determina la cessazione degli effetti della sentenza fallimentare sul patrimonio del fallito, il quale, pertanto, riacquista la propria disponibilità giuridica e materiale del proprio patrimonio, che, nel caso residui parzialmente, gli deve essere restituito.
In base alla disciplina attualmente vigente, inoltre, il decreto in commento comporta la cessazione immediata degli effetti a carattere personale prodotti dalla sentenza di fallimento, essendo venuto meno l’istituto della riabilitazione civile, che faceva conseguire nuovamente al fallito la propria capacità personale, sia sul piano sostanziale che su quello processuale, solo dopo il decorso di cinque anni dalla dichiarata chiusura della procedura fallimentare ed a condizione che il Tribunale ravvisasse una buona condotta dello stesso fallito. La riabilitazione è dunque da ritenersi abrogata per le procedura instaurate successivamente al 16 gennaio 2006, data di entrata in vigore della riforma.
La chiusura del fallimento, inoltre, allo stato attuale, fa cessare nei confronti dei creditori il blocco delle loro azioni per il soddisfacimento dei rispettivi diritti. A tale riguardo, tra l’altro, l’art. 120, comma 3, nuova L. F., prevede che il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituiscano prova scritta ai fini dell’ottenimento del decreto ingiuntivo di cui all’art. 634 c.p.c

L’esdebitazione del fallito

L’unico caso in cui non scatta la ripresa delle azioni individuali in favore dei creditori è quello in cui trova applicazione il nuovo istituto dell’esdebitazione del debitore, ai sensi degli artt. 142 e seguenti L. F. , nuovo testo. In virtù di tali disposizioni il fallito persona fisica è ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, purché ricorrano le seguenti condizioni:

  1. abbia cooperato con gli organi della procedura;
  2. non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura;
  3. non abbia violato l’obbligo di consegna della corrispondenza al curatore;
  4. non abbia usufruito di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti;
  5. non abbia distratto l’attivo o esposto passività insussistenti o comunque non abbia reso gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio;
  6. non sia stato condannato con sentenza definitiva per bancarotta fraudolenta o altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa.

L’esdebitazione non opera comunque se non sono stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali. Restano esclusi dall’esdebitazione gli obblighi di mantenimento e alimentari, nonché i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale. Quanto, poi, al procedimento di esdebitazione, l’art. 143 L. F., nuova formulazione, prevede che il tribunale, con il decreto di chiusura del fallimento oppure su ricorso del debitore presentato entro l’anno successivo, sentito il curatore ed il comitato dei creditori e vetrificata la sussistenza delle condizioni richieste dall’art. 142 L. F. come sopra individuate, dichiara inesigibili nei confronti del debitore già dichiarato fallito i debiti concorsuali non integralmente soddisfatti.

La riapertura del fallimento

Tale istituto nella pratica viene applicato molto raramente. Esso presuppone che la procedura fallimentare sia stata chiusa per la ripartizione di un attivo insufficiente al soddisfacimento dei crediti insinuati o per l’inutilità della prosecuzione del fallimento, stante l’effettiva inconsistenza della massa fallimentare.

La riapertura è dunque ammissibile nei casi in cui, entro cinque anni dal decreto di chiusura del fallimento, risulti che nel patrimonio del debitore sia venuto ad esistenza un attivo suscettibile di rendere utile la riapertura stessa (in tal caso l’iniziativa potrà essere assunta dal debitore o dai creditori, vecchi e nuovi) oppure il debitore sia in grado di garantire il pagamento non inferiore al dieci per cento dei creditori chirografari vecchi e nuovi ed il soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati (è allora legittimato il solo debitore).

I titolari dei crediti sorti successivamente alla chiusura del fallimento devono previamente insinuarsi al passivo e sottoporsi alla verificazione dello stato passivo; tale passaggio non è invece necessario per i crediti anteriori al decreto di chiusura, i quali sono già stati sottoposti ad accertamento. I termini per l’esperimento delle azioni revocatorie decorrono dal deposito della sentenza di riapertura.

Il concordato fallimentare

Una delle possibili cause di chiusura della procedura fallimentare è l’approvazione del concordato proposto dal fallito nel corso del fallimento, ai sensi degli artt. 124 e seguenti L. F., così come modificati dagli artt. 114 e seguenti del d. lgs. n. 5/06. Peraltro, fin da una prima lettura della riforma, si può notare un ampliamento delle possibilità offerte dall’istituto. La prima modifica di indubbio rilievo riguarda la legittimazione a presentare la proposta di concordato, che non è più limitata al solo fallito ed ai suoi eredi, ma può essere avanzata anche dai creditori o da un terzo. Emerge inoltre una maggiore varietà possibile di tipi di concordato, poiché l’art. 124 L. F., nuova formulazione, dispone che la proposta deve prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma. Dunque la proposta di concordato, tra l’altro, non deve più necessariamente contemplare il pagamento integrale dei creditori privilegiati e quello dei creditori chirografari nella misura di almeno il 40%.

L’unica condizione che deve essere soddisfatta riguarda la realizzazione dei crediti privilegiati in misura comunque non inferiore a quella conseguibile sul ricavato in caso di vendita, avuto riguardo al valore di mercato del bene. La maggiore flessibilità che caratterizza il nuovo regime del concordato fallimentare si ravvisa inoltre nella possibilità di prevedere la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei (es. banche, fornitori, ecc.), con conseguente trattamento differenziato tra creditori appartenenti a classi diverse, sia pure nel rispetto dei diritti di prelazione che assistano i vari crediti. Il procedimento in commento si apre pertanto con la proposta di concordato che può essere presentata da uno o più creditori o da un terzo, anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, ovvero dal fallito, solo, però, qualora siano già decorsi sei mesi dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano trascorsi due anni dal decreto che abbia reso esecutivo lo stato passivo. Tale proposta di concordato deve essere presentata con ricorso al giudice delegato, il quale, quindi, chiede il parere del comitato dei creditori e del curatore, avuto riguardo ai presumibili risultati della liquidazione.

A seguito di ciò il giudice delegato, una volta ottenuto il parere favorevole del curatore, provvede a comunicare la proposta ai creditori, concedendo a costoro un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a trenta, entro cui essi debbono far pervenire alla cancelleria eventuali dichiarazioni di dissenso. Il concordato, com’è naturale, è da ritenersi approvato se riporta il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Quindi, il testo vigente dell’art. 129 L. F. stabilisce che, trascorso il termine fissato per le votazioni, il curatore sottopone al giudice delegato una relazione sull’esito di esse. In caso di approvazione della proposta, il giudice delegato ne dispone l’immediata comunicazione al proponente, al fallito ed ai creditori dissenzienti, fissando un termine non inferiore a quindici giorni e non superiore a trenta per la proposizione di eventuali opposizioni. In difetto di opposizioni, il Tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, omologa il concordato mediante decreto motivato non soggetto ad impugnazione. Al giudizio di omologazione, peraltro, oggi non è più richiesta la partecipazione del Pubblico Ministero.

Quando il decreto di omologazione diventa definitivo, il curatore rende il conto della sua gestione ed il tribunale dichiara chiuso il fallimento.. In ogni caso, contro il decreto del Tribunale che omologhi il concordato è proponibile reclamo dinanzi alla Corte di Appello, che pronuncia in camera di consiglio, reclamo da depositarsi entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del decreto. Alla successiva udienza il collegio, nel contraddittorio delle parti, assunte anche d’ufficio tutte le informazioni e le prove necessarie, provvede con decreto motivato, da impugnare entro il termine di trenta giorni davanti alla Corte di Cassazione. Ai sensi dell’art. 136 L. F., inoltre, il giudice delegato, il curatore ed il comitato dei creditori restano in carica al fine di sorvegliare l’adempimento degli oneri concordatari conformemente a quanto stabilito nella sentenza di omologazione. Qualora gli adempimenti risultino esattamente effettuati, il giudice delegato emana un decreto in cui si dà atto di ciò, disponendo lo svincolo delle cauzioni prestate e la cancellazione delle ipoteche iscritte a garanzia , nonché adottando ogni misura idonea per il conseguimento delle finalità del concordato.

Da ultimo, si segnala che, se il fallito o il terzo che assuma su di sé gli oneri del concordato non adempiono agli oneri concordatari o se le garanzie promesse non vengono costituite, il concordato viene risolto e si riapre la procedura fallimentare. Il relativo processo per la risoluzione del concordato, che, allo stato attuale, può essere attivato anche dal comitato dei creditori, si svolge secondo il seguente schema: fissazione dell’udienza di comparizione; termine per la notifica alle controparti, termini di comparizione per le parti, udienza in contraddittorio tra le parti e decisione con decreto motivato, mediante il quale viene contestualmente disposta la riapertura del fallimento. Mentre, peraltro, la risoluzione del concordato si riferisce all’inadempimento degli obblighi concordatari in fase di esecuzione da parte del debitore, l’annullamento del concordato si verifica quando si scopre che sia stato dolosamente esagerato il passivo ovvero sia stata sottratta o dissimulata una parte cospicua dell’attivo. Il predetto annullamento viene dunque a sanzionare la condotta illecita tenuta dal debitore. La relativa procedura è del tutto analoga a quella dettata dal nuovo art. 137 L. F. per la risoluzione del concordato.

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