I rimproveri orali da parte del superiore adottati con «toni pesanti» e davanti agli altri colleghi, possono costituire episodio di mobbing

Costituisce mobbing l'irrogazione di una serie di provvedimenti disciplinari infondati, sproporzionati o manifestamente eccessivi adottati nel quadro di una specifica volontà di precostituire una base per disporre il licenziamento (poi effettivamente avvenuto).
(Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile, Sentenza del 20 marzo 2009, n. 6907)


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo - Presidente

Dott. MONACI Stefano - rel. Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo - Consigliere

Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere

Dott. NOBILE Vittorio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10789/2006 proposto da:

I.V.M. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente, domiciliata in ROMA, CORSO FRANCIA 197, presso lo studio dell'avvocato LEMME Giuliano, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato ANDREOTTI PAOLO giusta delega a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

DI. AN. , elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSTANTINO MORIN 27, presso lo studio dell'avvocato GUTTEREZ Vincenzo, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati BELCASTRO SAVERIO, D'ANCONA GIACOMO, D'ANCONA FRANCESCO giusta delega a margine del controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 177/2005 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 04/04/2005 R.G.N. 01/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/01/2009 dal Consigliere Dott. STEFANO MONACI;

udito l'Avvocato ANSELMO per delega LEMME;

udito l'Avvocato DI MATTIA per delega D'ANCONA Francesco;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La signora Di.An. , ha convenuto in giudizio la societa' IV. s.r.l., della quale era stata dipendente in qualita' di impiegata, impugnando una serie di provvedimenti disciplinari, e, soprattutto, il licenziamento che le era stato intimato.

La lavoratrice esponeva, in particolare: di essere stata assunta dal (OMESSO) ed addetta ad una serie di mansioni varie come la reception, il centralino, la gestione dei cartellini, l'elaborazione delle agende; di non avere provvedimenti disciplinari fino al (OMESSO); che appunto all'inizio del (OMESSO) la responsabile della sua attivita' le aveva consigliato di trovarsi un nuovo lavoro in un'altra azienda, perche' la societa' non era piu' soddisfatta delle sue prestazioni;

che nei mesi dall'(OMESSO) all'(OMESSO) era stata sottoposta a sette provvedimenti disciplinari di cui sei per un giorno di sospensione ciascuno ed uno per una multa di tre ore, per addebiti che secondo l'interessata erano insussistenti, oppure tardivi, oppure ancora privi di rilevanza disciplinare; di essere stata licenziata il (OMESSO) sempre per fatti a suo parere non sussistenti. Sosteneva che si era trattato di un episodio di mobbing.

Chiedeva percio' che una serie di sanzioni disciplinari, cosi' come lo stesso licenziamento, fossero dichiarati, nulli, illegittimi ed inefficaci, che la convenuta fosse condannata a riassumere la dipendente, oppure a risarcirle il danno nella misura di legge, e, inoltre, che il giudice accertasse il carattere di mobbing e percio' l'illegittimita' dei comportamenti posti in essere dalla IV. dal (OMESSO) al (OMESSO), accertando anche che avevano provocato alla ricorrente un danno biologico, con condanna della societa' al relativo risarcimento.

Costituitosi il contraddittorio ed istruita la controversia il giudice di primo grado accoglieva la domanda, sia pure riconoscendo il danni da mobbing soltanto nella somma di euro 9.500,00, sensibilmente inferiore a quelle richieste.

Questa pronunzia veniva integralmente confermata dalla Corte d'Appello di Milano con sentenza n. 177, in data 12 gennaio - 4 aprile 2005, che respingeva l'impugnazione della societa'.

La Corte d'Appello confermava la sentenza di primo grado anche nella motivazione, e riteneva, in sintesi: che due delle sanzioni disciplinari, impugnate dinanzi al collegio arbitrale, fossero gia' state derubricate in semplici multe con accettazione delle parti, e che anche la loro rilevanza ai fini della recidiva andasse ridotta in relazione alla minor entita' della sanzione;

che un'altra sanzione fosse tardiva;

che le altre sanzioni fossero illegittime, per irrilevanza e/o insussistenza degli addebiti contestati, o per la sproporzione di essi;

che effettivamente il clima aziendale nei confronti della signora Di. fosse pesante, dato che i rimproveri orali da parte dei superiori venivano effettuati adottando toni pesanti ed in modo tale che potesse essere uditi dagli altri colleghi di lavoro;

che sussistesse una sproporzione evidente tra il provvedimento di licenziamento ed i tre lievi addebiti riportati nella relativa contestazione, e che non si poteva tener conto, ai fini della recidiva, delle sanzioni disciplinari irrogate in precedenza proprio perche' nulle e/o illegittime;

che, tenuto conto anche dei richiami e dei rimproveri continui delta sua dirigente nei confronti della lavoratrice, si fosse verificata effettivamente un episodio di mobbing;

che, come era risultato dalla consulenza medica, effettivamente questo mobbing avesse avuto ripercussioni nelle condizioni delle signora Di. e comportato un danno biologico, sia pure modesto, da quantificare nella misura percentuale del 6%.

Avverso la sentenza di appello, che non risulta notificata, la societa' IV. s.r.l. proponeva ricorso per cassazione, articolati su quattro motivi di impugnazione, notificato, in termini, il 30 marzo 2006.

Resisteva l'intimata signora Di.An. resisteva con controricorso notificato, in termine, il 9 maggio 2006.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Nel primo motivo, relativo ad alcuni dei provvedimenti disciplinari in contestazione, la societa' denunzia l'errore di diritto in relazione agli articoli 2104, 2105 e 2106 c.c., e articolo 1453 c.c. e segg., nonche' l'omessa e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia

Sostiene, in particolare, che la signora Di. non aveva eseguito con diligenza le prestazioni che le erano affidate, con conseguente violazione delle disposizioni degli articoli 2104 e 2105 c.c., e che, ai sensi dell'articolo 2106 c.c., queste violazioni potevano dare luogo all'applicazione di provvedimenti disciplinari.

Nega che gli inadempimenti della dipendenti fossero lievi, o di scarsa importanza, e che vi fosse una sproporzione tra gli addebiti ed i provvedimenti.

Nega ancora che l'interessata fosse oberata da una mole eccessiva di lavoro.

Sottolinea anche le mancanze e gli errori cui si riferivano le sanzioni che erano state derubricate in sede conciliativa rimanevano comunque tali, e che tutte le mancanze e gli errori comportavano inadempimenti contrattuali.

2. Nel secondo motivo di impugnazione, relativo al licenziamento, la ricorrente denunzia l'errore di diritto per travisamento dei fatti, e l'omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

Sottolinea l'importanza delle tre mancanze poste a base del recesso (per l'esattezza, l'errata compilazione del prospetto trimestrale delle presenze e delle assenze di un dipendente, l'errato aggiornamento dell'agenda aziendale, l'errata distribuzione della posta) e ribadisce che potevano essere poste alla base del recesso.

Allo stesso modo sussistevano effettivamente gli addebiti cui si riferivano i precedenti provvedimenti disciplinari, e la ricorrente ne sottolinea la rilevanza, perche' confermavano la negligenza e lo scarso impegno della lavoratrice.

In ogni caso il licenziamento, anche se, in ipotesi, non fosse stato giustificato per giusta causa, avrebbe potuto esserlo per giustificato motivo soggettivo.

3. Nel terzo motivo di impugnazione, dedicato al mobbing, la ricorrente denunzia il travisamento dei fatti e l'omessa e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Nega ancora una volta che i provvedimenti disciplinari irrogati fossero illegittimi, e che sussistessero le vessazioni e le aggressioni verbali lamentate dalla lavoratrice, che quest'ultima fosse stata sottoposta a controlli esasperati.

4. Con il quarto ed ultimo motivo, relativo specificamente al danno da mobbing, alla consulenza tecnica di ufficio e al danno biologico, la societa' IV. denunzia l'insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Secondo la ricorrente la consulenza di ufficio avrebbe accertato che nella signora Di. non vi era stata e non vi era alcuna malattia in atto, ma soltanto disturbi dell'adattamento, che erano temporanei e transeunti.

La ricorrente contesta le conclusioni del consulente d'ufficio, e lamenta che la sentenza di primo grado non aveva tenuto conto delle note critiche del proprio consulente di parte.

Nega si fosse verificata l'invalidita' temporanea liquidata dal consulente di ufficio, come pure la sussistenza di un danno esistenziale.

5. Il ricorso non e' fondato e non puo' trovare accoglimento. Nella gran parte i motivi di impugnazione sono sostanzialmente inammissibili, perche' si limitano, in realta', a riproporre questioni di mero fatto, relative alla valutazione del comportamento della signora Di. nel svolgimento della propria attivita' di lavoro, ma queste valutazioni, proprio perche' tali non possono essere oggetto di un ulteriore riesame in questa sede di legittimita'.

Vale la pena di sottolineare in proposito che i fatti in se stessi appaiono chiari, e sostanzialmente - almeno nelle loro linee generali - non contestati dalle parti.

L'oggetto della discussione, invece, e' costituito appunto dalla valutazione e dall'interpretazione di questi fatti, mentre non sussistono i vari profili denunziati di difetto di motivazione: in realta' la motivazione esposta dalla sentenza della Corte d'Appello di Milano, nei suoi vari aspetti, chiarisce in maniera ampia, precisa, puntuale, e del tutto logica e convincente, le ragioni per le quali ha compiuto quelle valutazioni ed e' giunta a quella decisione, ne' le sue valutazioni appaiono scalfite dalle argomentazioni della societa' ricorrente.

Queste considerazioni appaiono adeguate e sufficienti a dimostrare l'inammissibilita' di una parte delle argomentazioni contenute nel primo motivo del ricorso, quelle sul fatto che l'interessata non sarebbe stata oberata da una mole eccessiva di lavoro (mole che, peraltro, - dato che quelle affidate alla resistente erano per lo piu' attivita' non suscettibili di rinvio - dovrebbe eventualmente essere valutata non in via generale, ma con riferimento alle specifiche evenienze occorse nelle singole giornate cui riferivano gli addebiti), e quella che sussistesse una sproporzione tra gli addebiti e per intero le argomentazioni contenute negli altri motivi di impugnazione, il secondo, il terzo ed il quarto.

Con particolare riferimento al secondo motivo rimane da osservare, per completezza, che e' inevitabilmente diverso il livello della diligenza ritenuta necessaria da un datore di lavoro (creditore della prestazione), e percio' delle mancanze che possono giustificare dei provvedimenti punitivi, ed il livello invece ritenuto necessario dal prestatore (debitore della prestazione).

Una valutare oggettiva non puo' che essere lasciata necessariamente ad un terzo, in concreto il giudice del merito; in sostanza la societa' pretende invece, inammissibilmente, di sovrapporre la propria valutazione, inevitabilmente soggettiva a quella della Corte d'Appello: questo vale, ad esempio, la dove riafferma che la resistente non sarebbe stata oberata da una mole eccessiva di lavoro, ma anche, soprattutto, quando i provvedimenti adottati fossero sproporzionati rispetto all'effettiva entita' dei fatti contestati.

Considerazioni analoghe valgono per la valutazione dell'esistenza di un fenomeno di mobbing, di cui al terzo motivo di ricorso, e per quella delle conseguenze psicofisiche e del danno che ne e' derivato, che sono oggetto, invece, del quarto motivo.

6. Va esaminato separatamente, per completezza, il primo argomento contenuto del primo motivo, quello sulla legittimita' delle sanzioni.

La societa' ricorrente sostiene che sussistevano i presupposti legali per l'applicazione dei provvedimenti disciplinari contestati e contesta in particolare che vi fosse una sproporzione tra gli addebiti ed i provvedimenti adottati.

La prima osservazione da un lato e' inammissibile e dall'altro e' inconferente.

Come risulta dalla lettura dello stesso ricorso (che, per la verita', e' assai chiaro e dettagliato) la maggior parte gli addebiti contestati concerneva ipotesi di svolgimento delle proprie mansioni con insufficiente diligenza, che investono - piuttosto che fatti disciplinari in senso proprio, che presuppongono un comportamento in qualche misura volontario - semplici difficolta' operative, una minore capacita' di esecuzione delle mansioni stesse.

Se si tolgono i semplici fatti di mancanza di diligenza, tra quanto prospettato a giustificazione degli addebiti rimane, per la verita', soltanto una quota modesta di fatti che possono essere considerati volontari (l'utilizzazione non autorizzata del fax aziendale per la trasmissione di corrispondenza propria, le accuse ai superiori di manomissione del proprio cartellino presenze).

La ricorrente ricorda che l'articolo 2106 c.c., sulle sanzioni disciplinari, rimanda ai due articoli precedenti, e che l'articolo 2104 c.c., prescrive l'obbligo del lavoratore di eseguire le proprie mansioni con la necessaria diligenza.

Per la verita' il richiamo generico contenuto nell'articolo 2106 c.c., sulla possibilita' di irrogare sanzioni disciplinari sembra riferirsi a fatti di inadempimento volontario previsti nell'articolo 2105 c.c., e nell'articolo 2104 c.c., comma 2, piuttosto che alla semplice, e generica, carenza di diligenza contemplata nel comma 1.

In una organizzazione negoziale basata sulla contrattazione collettiva, l'individuazione degli indebiti che possono essere oggetto di sanzione e' demandata appunto alla contrattazione collettiva.

La ricorrente non precisa dove il contratto collettivo di settore preveda la possibilita' di applicare sanzioni disciplinari per i diversi fatti contestati, mentre la valutazione della loro gravita' in concreto riporta ancora una volta ad una analisi di fatto e percio' ad un ambito non piu' suscettibile di riesame in questa sede.

7. Ma, anche astraendo da questo, in ogni caso la censura e' inconferente.

Anche ammettendo, in via di ipotesi non concessa, che in quelle circostanze sussistesse, sotto il profilo strettamente formale, la possibilita' di irrogare dei provvedimenti disciplinari, quelle specifiche sanzioni adottate in concreto sono stati annullate in giudizio (cosi' come lo e' stato il licenziamento che ne era stato il completamento), perche' - secondo la tesi accolta dai giudici di primo e di secondo grado - erano state irrogate all'interno di un comportamento complessivo di mobbing, anche quando altrimenti non lo sarebbero state se non fosse sussistita una specifica volonta' di colpire la Di. , per indurla alle dimissioni, e/o per precostituire una base per disporre il suo licenziamento (come poi effettivamente e' avvenuto).

La sentenza impugnata, in realta', non si basa tanto sulla motivazione che le sanzioni fossero illegittime (o che lo fossero una parte di esse), quanto su quella che fossero eccessive e che, in realta', fossero state irrogate per ragioni strumentali ed in maniera sostanzialmente pretestuosa, amplificando l'importanza attribuita a fatti di modesta rilevanza, in sostanza che i provvedimenti non sarebbero stati adottati, e non sarebbero stati adottati tutti ed in un cosi' breve periodo di tempo, se non fosse sussistita una precisa volonta' di colpire la lavoratrice. Le stesse considerazioni valgono, del resto, per il licenziamento che si e' basato anche sulle precedenti sanzioni, e che - sempre secondo la ricostruzione dei giudici di merito - ha concluso l'operazione di mobbing.

8. Concludendo, dunque, il ricorso non e' fondato e non puo' trovare accoglimento.

Le spese seguono la soccombenza, e vengono liquidate nella misura riportata nel dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che liquida in euro 29,00, oltre ad euro 3.000,00 (tremila/00) per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA.

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