Il permesso di soggiorno, ottenuto per cure mediche in relazione a uno stato di avanzata gravidanza, non evita la condanna per immigrazione clandestina se la donna è presente da tempo sul territorio in modo irregolare

Corte di Cassazione Sezione 1 Penale, Sentenza del 27 ottobre 2010, n. 38157

Il permesso di soggiorno, ottenuto per cure mediche in relazione a uno stato di avanzata gravidanza, non evita la condanna per immigrazione clandestina se la donna è presente da tempo sul territorio in modo irregolare. In altri termini, va escluso che un permesso di soggiorno, chiesto per motivi terapeutici in vista di un parto, possa regolarizzare la situazione dell'immigrata presente clandestinamente in Italia. Il testo unico sull'immigrazione prevede, infatti, che la richiesta del permesso debba essere fatta entro 8 giorni dall'ingresso sul territorio nazionale e non quando ragionevolmente si ritiene di poterlo ottenere, perché, come nel caso esaminato, ci si trova in stato di avanzata gravidanza.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE PENALE

Composta dagli III.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SEVERO CHIEFFI - Presidente -

Dott. UMBERTO GIORDANO - Consigliere-

Dott. MARCELLO ROMBOLA' - Consigliere-

Dott. MAURIZIO BARBARISI - Consigliere -

Dott. PAOLA PIRACCINI - Rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) (Omissis) N. il (...)

avverso la sentenza n. 17/2010 GIUDICE DI PACE di MESTRE, del 10/02/2010

visti gli atti, la sentenza e il ricorso

udita in PUBBLICA UDIENZA del 06/10/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PAOLA PIRACCINI

Rilevato che il Procuratore Generale nella persona del Cons. Galasso chiedeva il rigetto del ricorso

Rilevato che il difensore non è comparso

FATTO E DIRITTO

Il Giudice di pace di Mestre condannava (Omissis) per il delitto di cui all'art. 10 bis D.Lgs. 286/98 alla pena di 3.340 Euro di ammenda. Rilevava che I'imputata aveva dichiarato in dibattimento di essere consapevole del suo soggiorno illegale tanto che si era rivolta alla CGIL per sapere come regolarizzare la sua posizione, e aveva deciso di chiedere un permesso di soggiorno per motivi sanitari essendo in stato di avanzata gravidanza. Lo stesso giorno in cui era stata denunciata aveva infatti ottenuto un permesso di soggiorno per cure mediche, il che non valeva ad escludere il reato già consumato. L'elemento soggettivo richiesto nel reato contravvenzionale era la coscienza e volontà di disattendere le norme in tema di immigrazione e nel caso di specie risultava provato dalle stesse ammissioni dell'imputata.

Avverso la decisione presentava ricorso l'imputata deducendo mancanza di motivazione sull'elemento soggettivo del reato, in quanto la stessa si trovava di fatto in una situazione tutelata dalle norme tanto che non appena aveva chiesto il permesso di soggiorno le era stato concesso per motivi di salute. La sua situazione poteva essere assimilata a quella del rifugiato politico, e quindi se anche non aveva chiesto il permesso di soggiorno ma si trovava nella condizione di poterlo avere non doveva essere denunciato e condannato.

La Corte ritiene che il ricorso debba essere rigettato.

La norma punisce tra le altre condotte il trattenimento illegale nel territorio dello Stato e definisce illegale il trattenimento che avviene in violazione delle norme del testo unico, tra le quali quella di non richiedere il permesso di soggiorno entro 8 giorni dall'ingresso in Italia. Ne consegue che l'imputata al momento in cui era stata identificata si trovava nella situazione descritta dalla norma a nulla valendo che avrebbe potuto attenere il permesso di soggiorno perché in stato di avanzata gravidanza. Dalla lettura delle dichiarazioni rese dall'imputata al giudice di pace emerge che la stessa si trovava in Italia da tempo dove viveva insieme al marito sposato nel 2008, inoltre già nel 2007 aveva ottenuto un permesso di lavoro scaduto senza rinnovo.

Si deve rilevare che con la sentenza n. 250 e le ordinanze n. 252 e 253 la Corte Costituzionale in data 8 luglio 2010 ha sancito la legittimità costituzionale dell'art. 10 bis D.Igs. 236/98 e che pertanto non vi alcun dubbio sulla piena operatività della norma incriminatrice nel caso di specie.

La ricorrente deve essere condannata, al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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