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La violazione del diritto di aborto.

La mancata diagnosi di una malformazione del feto è astrattamente idonea ad impedire alla madre l'esercizio del diritto all'aborto: in tali casi si può prospettare un'ipotesi di risarcimento dei danni che ne conseguono (sia per il nascituro sia per i prossimi congiunti).

La mancata diagnosi di una malformazione del feto è astrattamente idonea ad impedire alla madre l’esercizio del diritto all’aborto: in tali casi si può prospettare un’ipotesi di risarcimento dei danni che ne conseguono (sia per il nascituro sia per i prossimi congiunti).

La violazione deve essere accertata, nel caso concreto, alla luce della vigente normativa in materia. La legge 194/1978 – “norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza” – prevedendo la possibilità di praticare l'aborto volontario, crea una netta barriera tra il primo trimestre di gravidanza e il periodo successivo.

Entro i primi 90 giorni la decisione può essere motivata:

  1. da un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna;
  2. dalle disagiate condizioni economico-sociali;
  3. dalle circostanze del concepimento, o da previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. (art. 4)

Dopo i 90 giorni dal concepimento, la legge italiana subordina la possibilità di ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza a precise condizioni (artt. 6 e 7):

  1. Sussistenza di un pericolo di vita per la donna;
  2. Insussistenza della possibilità di vita autonoma del feto e, allo stesso tempo, di un processo patologico (fisico o psichico) in atto per la madre che possa degenerare recando un danno grave alla sua salute.

A tal proposito la Cassazione ha però precisato che "non si deve accertare se in lei si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la sua salute psichica, ma se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l'insorgere di un tale processo patologico".
Quanto alla possibilità di vita autonoma del feto "non spetta alla donna provare che quando è maturato l'inadempimento del medico il feto non era ancora pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma, spetta al medico provare il contrario"
 .

Ne consegue che il diritto della madre all'aborto è violato solo in presenza degli indicati presupposti.

Pertanto, se l'anomalia è tra quelle rilevabili nel primo trimestre di gravidanza, può certamente prospettarsi l'ipotesi di responsabilità del medico e dunque il diritto al risarcimento; infatti, la mancata informazione sullo stato di salute del feto, in questo periodo, impedisce alla donna di effettuare una scelta pressoché autonoma.
Diversamente, se le malformazioni sono individuabili solo in epoca successiva al terzo mese di vita del feto, sarà necessario verificare la sussistenza delle circostanze prescritte dalla legge per tale ipotesi.

In materia la Cassazione precisa che "il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza non consegue automaticamente all’inadempimento dell'obbligo di esatta informazione che il sanitario era tenuto ad adempiere in ordine alle possibili anomalie o malformazioni del nascituro, ma necessita anche della prova della sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 6 e 7 della legge n. 194 del 1987" .

Il diritto al risarcimento nasce se - sussistendo tutte le condizioni previste dalla legge 194/978 per l'interruzione di gravidanza – il medico, colpevolmente, non abbia adempiuto al dovere di informazione sul reale stato del feto. In tal caso il risarcimento dovrà comprendere: il danno biologico del bambino (la lesione fisica), il danno patrimoniale (incluse tutte le spese sostenute e quelle previste per il futuro), la perdita di chance (tutte le possibilità che la vita può offrire ad una persona sana), l’eventuale danno psichico per la madre ed il danno “riflesso” per i prossimi congiunti.

Un’interessante novità in materia riguarda un recente orientamento della Suprema Corte che riconosce il diritto ad un risarcimento diretto anche per il padre. In passato il danno che il marito poteva lamentare era solo una conseguenza di quello patito dalla madre (rientrava nel danno riflesso ai prossimi congiunti). Oggi la giurisprudenza riconosce la possibilità che il danno si produca direttamente nella sfera paterna: "quest'ultimo però va rigorosamente accertato in concreto senza possibilità per il giudice di ricorrere ad un fatto notorio".

L’errore medico, peraltro, può far sorgere un diritto al risarcimento anche in assenza dei presupposti per l'interruzione di gravidanza.

Nell'ipotesi in cui sia accertato che, indipendentemente dall’informazione del ginecologo, l’aborto sarebbe stato impraticabile, deve comunque essere compensato, (equitativamente) lo shock subito dalla famiglia alla nascita del bambino malformato. In questi casi, una corretta informazione consentirebbe, infatti, ai parenti di prepararsi psicologicamente all'evento negativo consentendo loro la possibilità di evitare traumi e situazioni patologiche.

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