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Il danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale deve essere liquidato tenendo conto della durata temporale del pregiudizio derivato ai congiunti per la scomparsa del proprio caro

Il danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale subita a causa della commissione di un fatto astrattamente configurabile come reato, deve essere liquidato tenendo conto della durata temporale del pregiudizio derivato ai congiunti per la scomparsa del proprio caro.
Il Giudice dovrà, in particolare, tener conto del fatto che nell’ipotesi di danno parentale, presumibilmente la ferita rappresentata dal decesso del congiunto rimarrà a lungo aperta, essendo irrilevante che, al momento della morte, l’aspettativa di vita del soggetto fosse inferiore rispetto a quella media a causa delle infermità che lo affliggevano.
(Corte di Cassazione, sez. III civile – sentenza 11 febbraio 2009 n°3357).



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NANNI Luigi Francesco - Presidente

Dott. FINOCCHIARO Mario - Consigliere

Dott. CALABRESE Donato - Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio - Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:



SENTENZA

sul ricorso 15263/2004 proposto da:

PA. VI. , elettivamente domiciliato in ROMA VIA CASSIODORO 19, presso lo studio dell'avvocato PANSADORO Alessandro, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro

CA. AN. , MA. MA. GR. , MA. AL. , elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLA CAMILLUCCIA 19, presso lo studio dell'avvocato RIZZO Giovanni, che li rappresenta e difende;

COMUNE DI ROMA, in persona del sindaco pro tempore On.le Ve. Wa. , elettivamente domiciliati in ROMA, presso l'Avvocatura Comunale di Roma, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, rappresentato e difeso dall'Avvocato LESTI GIORGIO, giusta delega a margine del controricorso;

- controricorrenti -

e contro

MI. AS. SPA;

- intimata -

avverso la sentenza n. 1342/2004 della CORTE D'APPELLO di ROMA, Sezione Seconda Civile emessa il 16/2/2004, depositata il 18/03/2004, R.G.N. 8056/2001;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 19/12/2008 dal Consigliere Dott. ALFONSO AMATUCCI;

udito l'Avvocato PANSADORO ALESSANDRO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha chiesto l'accoglimento del 3 motivo del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p. 1.- Il (OMESSO) Ma.Na. (ingegnere quarantaduenne) mori' - come accertato in sede di autopsia - per peritonite insorta a seguito di intervento chirurgico di pielo-calicolitotomia, eseguito presso la divisione urologia dell'ospedale (OMESSO) dal primario P.V. , che subi' in primo grado una condanna per omicidio colposo unitamente ai due medici che avevano prestato assistenza postoperatoria (il giudice dell'appello dichiaro' non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato).

Nel (OMESSO) la vedova C.A. , in proprio e quale legale rappresentante dei due figli minori, agi' giudizialmente per il risarcimento.

Con sentenza n. 4003/87 l'adito tribunale di Roma respinse la domanda nei confronti degli altri due medici per sopravvenuta carenza di interesse a seguito di transazione, dichiaro' l'incapacita' processuale della USL (OMESSO), cui era succeduta l'intervenuto Comune di Roma, e dispose che il processo proseguisse nei confronti del Pa. , del Comune e della chiamata in causa Mi. As. s.p.a..

Con successiva sentenza 13291/91 il tribunale condanno' solidalmente il Pa. ed il Comune al risarcimento dei danni da liquidarsi nel prosieguo del giudizio e respinse la domanda di garanzia proposta dal Comune nei confronti della societa' assicuratrice.

Gli appelli del Comune e di Pa.Vi. , quale erede del padre V. , furono rigettati con sentenza n. 1492 del 1995 dalla corte d'appello di Roma, che respinse anche la domanda di regresso del Pa. nei confronti degli altri due medici e che confermo' la pronuncia sull'an debeatur, ravvisando la colpa del Pa. per non aver annotato sul diario dell'intervento che era stato inciso il peritoneo e nell'avere omesso di disporre un'adeguata assistenza postoperatoria nel momento in cui s'era allontanato dall'ospedale per riposo settimanale.

Avverso la sentenza furono proposti ricorsi per cassazione, respinti con sentenza n. 3086 del 1997.

p. 2.- Il giudizio sul quantum, rimasto sospeso nelle more, fu riassunto e definito con sentenza n. 14508 del 2001, che dichiaro' inammissibile la riassunzione nei confronti della societa' assicuratrice, liquido' le varie voci di danno patrimoniale e non patrimoniale e determino' le percentuali di ripartizione interna della responsabilita' nel 40% a carico del Pa. e nel 60% a carico del comune.

Decidendo sugli appelli di tutte le parti, la corte d'appello di Roma, in parziale accoglimento di entrambi, determino' in euro 472.481 la somma complessivamente e solidalmente dovuta dai debitori, oltre agli interessi, e confermo' le percentuali di responsabilita' del Pa. e del Comune nei loro rapporti interni, inoltre chiarendo che la notificazione alla Mi. As. s.p.a. era stata effettuata ai soli fini della denuntiatio litis.

p. 3.- Avverso la sentenza ricorre per cassazione Pa. Vi. affidandosi a cinque motivi, cui resistono con controricorso Ca. An. ed i figli del defunto, Ma. Ma. Gr. ed Al. .

Il comune ha depositato controricorso instando per l'accoglimento del ricorso.

L'intimata Mi. As. s.p.a. non ha svolto attivita' difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1.- Col primo motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione degli articoli 2043 e 2236 c.c., articoli 113 e 115 c.p.c. e ogni tipo di vizio della motivazione per avere la corte territoriale respinto il primo motivo di appello avverso la sentenza di primo grado "omettendo di motivare sulla presenza e sull'influenza di autonome cause produttrici dell'evento".

Si sostiene che "tale omissione di indagine costituisce la violazione di legge su cui si fonda il ricorso", essendosi la corte d'appello limitata a tracciare la differenza tra il rapporto causale tra condotta ed evento ed il rapporto causale che lega l'evento al danno (n.d.r.: inteso come conseguenze dannose). Cio' senza considerare:

a) che al c.t.u. nominato nella fase del giudizio relativa al quantum era stato chiesto di accertare se sarebbe stato possibile sottoporre il Ma. a nuovo intervento chirurgico e quali ne sarebbero stati gli esiti; e che la risposta era stata nel senso che il paziente, quand'anche fosse stato immediatamente operato a seguito dell'immediata diagnosi di peritonite, non avrebbe superato l'intervento e sarebbe comunque deceduto con una probabilita' vicina al 100%;

b) che tanto avrebbe dovuto comportare il rigetto della domanda alla stregua dei principi accolti da questa corte in punto di affermazione o esclusione del nesso causale, a tanto non ostando il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica, giacche' la condanna generica al risarcimento del danno, avendo come contenuto una mera declaratoria iuris, postula solo l'accertamento di un fatto ritenuto dal giudice potenzialmente produttivo di conseguenze dannose alla stregua di un giudizio di probabilita', restando peraltro impregiudicato l'accertamento, invece riservato al giudice della liquidazione, dell'esistenza e dell'entita' del danno, nonche' del nesso di causalita' tra questo ed il fatto illecito (sono citate Cass., SS.UU., n. 8545/93 e Cass., n. 4511/97).

p. 1.1.- Il motivo e' infondato.

La corte d'appello ha ritenuto che la sussistenza di nesso causale tra il comportamento del medico e la morte del paziente fosse stato definitivamente accertato con efficacia di giudicato a seguito di quanto statuito dal tribunale con la sentenza n. 13291/91 di condanna generica al risarcimento, confermata sul punto dalla corte d'appello con sentenza n. 1492/95 (la quale aveva in particolare affermato che il secondo motivo, con il quale si adduce l'insussistenza di nesso causale tra le omissioni addebitate al chirurgo e l'evento e l'arbitraria valutazione delle prove, e' infondato"), il ricorso in cassazione avverso la quale era stato respinto con sentenza n. 3086/97.

L'assunto del ricorrente che cosi' non possa essere, poiche' con la pronuncia di condanna generica viene necessariamente accertato solo il danno potenziale e poiche' l'accertamento dell'esistenza dell'effettivo danno viene demandato alla successiva fase di liquidazione, e' erroneo in diritto laddove all'affermazione si pretende di conferire un valore assoluto, preclusivo di ogni altra possibilita'.

Questa corte ha, infatti, bensi' ritenuto che ai fini della pronuncia di condanna generica e' sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di danno (ex multis, Cass., nn. 2947/05, 22384/04, 9709/03); ma ha anche affermato che nulla impedisce che il giudice possa accertare con la condanna generica anche l'effettivo avveramento del danno, lasciando impregiudicate le sole questioni relative alla liquidazione (Cass., nn. 495/2000, 3634/80, 2420/76, cui adde, implicitamente, Cass. n. 11651/02), ribadendolo da ultimo con sentenza resa a seguito dell'udienza del 16.12.2008, ricorrente D'. ).

Va anzi soggiunto che, presupponendo la condanna generica l'affermazione del diritto alla prestazione dovuta, rimanendone solo controversa la quantita' (articolo 278 c.p.c., comma 1), tutte le volte che la prestazione consista nel diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, deve ritenersi che la sussistenza del nesso di causalita' materiale tra condotta ed evento produttivo di danno costituisca un accertamento tendenzialmente presupposto dalla sentenza di condanna generica, rimanendo piuttosto da accertare nel giudizio relativo alla liquidazione quali effetti pregiudizievoli siano risarcibili perche' costituenti, ex articolo 1223 c.c. (richiamato dall'articolo 2056 c.c.), conseguenza immediata - diretta dell'evento di danno, avendosi in tal modo riguardo al cosiddetto rapporto di causalita' giuridica.

Assumendo che le condizioni del paziente erano tali che, quand'anche la peritonite fosse stata immediatamente diagnosticata ed egli fosse stato subito operato, sarebbe tuttavia ugualmente deceduto in ragione delle sue condizioni, il ricorrente contesta che sussistesse nesso di causalita' materiale fra comportamento omissivo del medico e decesso, giacche' afferma che il necessario giudizio ipotetico controfattuale si sarebbe risolto nel senso dell'esclusione dell'incidenza causale della condotta omessa.

Ma tanto era, nel giudizio sul quantum, assolutamente precluso dal gia' intervenuto positivo accertamento della sussistenza di nesso causale con pronuncia passata in giudicato.

La sentenza non e' dunque censurabile nella parte in cui ha omesso di conferire ogni rilievo, in parte qua, ai risultati della consulenza espletata nella fase del giudizio relativa alla liquidazione.

p. 2.- Col secondo motivo sono denunciate "insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione di legge circa un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte in relazione all'articolo 115 c.p.c., commi 1 e 2".

Si imputa alla corte d'appello:

a) di aver assunto come base di calcolo del danno patrimoniale subito dai congiunti il dato costituito dall'entita' del suo stipendio annuale di lire 5.862.000, comprensivo di quanto percepito a titolo di lavoro straordinario (lire 1.800.000), che avrebbe dovuto essere invece escluso in relazione allo stato di salute del soggetto (affetto da invalidita' del 40% in progressivo aggravamento fino al 70%) ed alla circostanza che la prestazione di lavoro straordinario non puo' essere presunta, ma va specificamente provata;

b) di aver ipotizzato una durata di vita di 12 anni, a fronte di quella massima di 8 anni prevista come possibile dal c.t.u., in relazione alle sue preesistenti, precarie condizioni di salute, cosi' ingiustificatamente eccedendo nella liquidazione, alla quale addirittura non avrebbe dovuto procedere in considerazione di quanto osservato col primo motivo di ricorso (probabilita' di morte per l'insorta peritonite comunque vicina al 100%, con o senza intervento chirurgico).

p. 2.1.- Le censure sono infondate.

Va osservato:

a) anzitutto che una circostanza necessariamente ipotetica (se il defunto avrebbe prestato lavoro straordinario, in quale misura e con quale retribuzione se non fosse morto) non puo', evidentemente, essere mai "specificamente" provata nel senso affermato dal ricorrente;

b) in secondo luogo che dalla pagina 12 della sentenza impugnata risulta - con affermazione non specificamente censurata - che il c.t.u. aveva ipotizzato una possibilita' di sopravvivenza media del defunto, in considerazione dei progressi intervenuti nella cura delle malattie renali nei primi anni 80, dai 5 ai 15 anni, sicche' l'aver assunto come periodo di riferimento un periodo di 12 anni non appare estraneo all'ambito degli apprezzamenti di fatto del giudice del merito alla luce delle complessive risultanze in atti, che appaiono considerate con adeguata motivazione dalla corte d'appello (alle pagine 11, 12, 13 e 14 della sentenza per il solo danno patrimoniale);

c) in terzo luogo che il lavoro straordinario e' stato considerato al 50% (pagina 12) e che era stata gia' effettuata una decurtazione nella percentuale media del 50% in relazione al progressivo avanzare della patologia da cui era affetto il Ma. (pagina 14).

Non si apprezza, insomma, alcuna violazione di legge ne' alcun difetto nell'impianto motivazionale, al quale il ricorrente in sostanza contrappone diversi apprezzamenti di merito.

p. 3.- Col terzo motivo la sentenza e' censurata per violazione e falsa applicazione degli articoli 2059, 2056, 2043 e 1226 c.c. e per ogni possibile vizio di motivazione in relazione all'intervenuta liquidazione del danno morale patito dai congiunti in complessive lire 784.966.000, a fronte delle lire 130.000.000 liquidate dal tribunale.

Vi si sostiene che la corte d'appello ha effettuato la liquidazione erroneamente omettendo di tenere conto della ridotta aspettativa di vita futura del Ma. (7/8 anni), alla quale il risarcimento si sarebbe dovuto correttamente rapportare (se non escludere del tutto, in relazione alle considerazioni svolte col primo motivo).

p. 3.1.- Il motivo va disatteso per le ragioni che seguono.

Non v'e' dubbio che, una volta determinata in 12 anni (e non anche in 7/8, come assunto dal ricorrente) l'aspettativa di vita del Ma. ai fini della liquidazione del danno patrimoniale (pagina 14 della sentenza impugnata), tale accertamento avesse rilievo anche ai fini della liquidazione del danno morale ai superstiti, concernendo un dato evidentemente insuscettibile di variazioni in relazione al tipo di danno liquidato, segnatamente alla luce dei principi recentemente enunciati da Cass., sez. un., n. 26972/08; la quale ha, tra l'altro, sancito il definitivo superamento della nozione di danno morale soggettivo come sofferenza necessariamente transeunte, chiarendo anche che, nell'ambito della generale categoria del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" descrive il tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata da reato in se' considerata, la cui intensita' e durata nel tempo assumono rilevanza (solo) ai fini della quantificazione del risarcimento (cfr. la motivazione, sub 2.10, penultimo capoverso).

Dunque, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale conseguito alla perdita del congiunto a seguito di commissione di un fatto astrattamente configurabile come reato, danno comprensivo anche della perdita del rapporto parentale (sez. un. cit.), non puo' non tenersi conto della presumibile durata nel tempo del pregiudizio provocato ai congiunti.

Va tuttavia rilevato che i tipi di pregiudizio da sofferenza e da perdita del rapporto parentale conseguenti alla morte di un congiunto non si connotano per una gravita' costante nel tempo, ma per una tendenziale progressiva diminuzione (in relazione, ad esempio, alla crescita dei figli ed all'incremento del loro grado di maturita' psichica), anche in ragione dell'assuefazione alla mancanza del congiunto ed all'instaurarsi di possibili assetti compensativi. Sicche' non puo' escludersi che il giudice del merito ritenga che, dopo 12 anni, il pregiudizio non patrimoniale si sarebbe allineato a livelli tanto poco significativi da giustificare una diminuzione di assai scarsa entita', o addirittura da non giustificarla affatto, rispetto a quella effettuabile sulla base di parametri che abbiano riguardo all'ordinario - e piu' lungo - periodo di sopravvivenza in relazione all'aspettativa media di vita all'eta' di 42 anni.

Deve allora stabilirsi se la corte d'appello si sia adeguata ad un principio cosi' sintetizzabile:

"ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale conseguito alla morte del congiunto a seguito di commissione di un fatto astrattamente configurabile come reato - comprensivo di qualunque pregiudizio derivante dalla lesione di interessi inerenti la persona meritevoli di tutela in base all'ordinamento secondo quanto statuito dalle sezioni unite con sentenza n. 26972 del 2008 - non puo' non tenersi conto della presumibile durata nel tempo del pregiudizio provocato ai congiunti dalla perdita del rapporto parentale, benche' non sia inibito al giudice di ritenere che tale pregiudizio sarebbe andato progressivamente scemando, fino anche ad annullarsi dopo un adeguato lasso di tempo, e di considerare dunque irrilevante che, al momento della morte, l'aspettativa di vita del defunto fosse inferiore, a causa delle infermita' dalle quali egli era affetto, a quella media considerata dalle tabelle in uso presso i vari uffici giudiziari".

La risposta, che non potrebbe che essere negativa se dalla sentenza non risultasse che dell'aspettativa di effettiva, e piu' breve rispetto a quella ordinaria, presumibile vita residua del defunto la corte territoriale non aveva tenuto alcun conto, non puo' che essere nella specie affermativa alla luce del rilievo che quella durata era stata, invece, espressamente considerata e determinata in 12 anni, sicche' - al di la' dell'omessa riesplicitazione anche nella liquidazione del danno morale (di cui alle pagine da 14 a 16 della sentenza) - deve concludersi che la corte d'appello abbia implicitamente ritenuto irrilevante, ai fini della liquidazione, la minore durata della possibile vita residua del padre e marito dei congiunti sopravvissuti, nel senso che, dopo 12 anni (costituenti un notevole lasso di tempo), quella perdita non fosse suscettibile di essere ulteriormente apprezzata a fini risarcitori di natura compensativa; qual e' quella che si attaglia al danno non patrimoniale, non suscettibile di essere liquidato in base ai criteri aritmetici invece comunemente adottati per il risarcimento del danno patrimoniale.

p. 4.- Col quarto motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione degli articoli 1241 e 1243 c.c. e articolo 3 Cost., nonche' per insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla mancata considerazione - ai fini del contenimento delle somme liquidate a titolo di risarcimento - di quanto percepito dai congiunti del defunto a titolo di pensione di reversibilita' di quest'ultimo.

Vi si assume che la corte d'appello abbia frainteso il contenuto della censura prospettata col relativo motivo d'appello e si sia dunque limitata a chiarire che non ricorreva un'ipotesi di compensatio lucri cum damno in quanto la morte (dell'avente diritto alla pensione), e non anche l'illecito (consistente nell'averne provocato la morte), costituisce il fatto determinante per il sorgere del diritto a percepire il trattamento pensionistico di reversibilita'.

L'appellante, attuale ricorrente, non aveva infatti domandato l'applicazione di quel principio, che presuppone l'esistenza di un medesimo titolo genetico, ma aveva chiesto che l'ammontare del danno patrimoniale conseguente alla mancata percezione delle retribuzioni fosse quantificato nella sua effettiva consistenza, e dunque depurato degli importi erogati a titolo di pensione di reversibilita', giacche' il congiunto conseguirebbe altrimenti il doppio delle somme di cui avrebbe beneficiato ove il de cuius non fosse venuto a mancare. E domanda che ove tali considerazioni fossero ritenute infondate, la corte "rimetta gli atti alla Corte costituzionale".

p. 4.1.- La censura e' manifestamente infondata giacche', al di la' del distinguo che il ricorrente tenta di delineare, egli domanda proprio una compensatio lucri cum damno, costituente un principio in virtu' del quale la determinazione del danno risarcibile deve tenere conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato che hanno causa diretta nello stesso fatto dannoso.

Ove cosi' non sia - e cosi' non e' quando ai congiunti superstiti, aventi diritto al risarcimento sia stata concessa una pensione di reversibilita', che trova la sua fonte in un titolo indipendente dal fatto illecito (cfr., ex multis, Cass., nn. 8827 e 8828/03, 4205/02, 1347/98, 7694/96, 6228/94) - non assume alcun rilievo ai fini della determinazione del danno da risarcire la circostanza che, a seguito della realizzazione del suo credito risarcitorio, l'avente diritto possa venire a trovarsi in una situazione patrimoniale piu' vantaggiosa di quella in cui si sarebbe trovato se l'illecito non fosse stato commesso.

Ne' si ravvisano, nelle disposizioni cosi' interpretate, estremi di illegittimita' costituzionale.

p. 5.- Col quinto ed ultimo motivo la sentenza e' censurata per violazione dell'articolo 184 c.p.c., ed omessa motivazione "e pronuncia" in ordine alla mancato espletamento di nuova c.t.u. o di riconvocazione del consulente, richiesta con l'atto d'appello (n.d.e.: al quale l'appellante s'era riportato in sede di precisazione delle conclusioni), per accertare se l'invalidita' del defunto e la progressiva ingravescenza della stessa gli avrebbero consentito, ove fosse sopravvissuto, di svolgere lavoro straordinario, e per quale arco di tempo.

p. 5.1.- Neanche questo motivo puo' trovare accoglimento.

La violazione dell'articolo 184 c.p.c., non e' illustrata, sicche' il profilo di censura e' inammissibile ex articolo 366 c.p.c., n. 4.

Il ventilato vizio di omessa pronuncia per non essersi il giudice pronunciato espressamente sulla richiesta istruttoria di consulenza tecnica e' insussistente, essendo lo stesso configurabile esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano necessariamente una statuizione di accoglimento o di rigetto (Cass., sez. un., 18.12.2001, n. 15982).

Quanto al vizio di motivazione, premesso che nel corso della complessiva vicenda processuale sono state espletate ben quattro consulenze (una in sede penale, due in sede civile nella fase di giudizio definita con pronuncia di condanna generica ed un'altra nella fase del giudizio relativa alla liquidazione del danno), il motivo e' infondato poiche' le ragioni della mancata adesione alla richiesta di ulteriori indagini tecniche indirettamente ed inequivocamente si evince dalla stessa motivazione della sentenza, laddove ha direttamente apprezzato sia i risultati della consulenza sia le critiche che alla stessa erano state mosse, pervenendo alla conclusione - connotata da motivazione congrua in ordine ad un apprezzamento di fatto la cui approssimativita' e' inevitabilmente correlata alla sua natura ipotetica - che, quanto alla considerazione in aumento del lavoro straordinario, "appare corretta l'applicazione da parte del primo giudice di una maggiorazione corrispondente al 50% di quello percepito dalla vittima nell'anno (OMESSO) (quale media del lavoro straordinario presumibilmente prestato negli anni precedenti). Ne' cio' contrasta con il contemporaneo riconoscimento della parziale inabilita' del soggetto, perche' sul totale risulta applicata la decurtazione corrispondente alla percentuale invalidante" (pagina 12 della sentenza impugnata).

p. 6.- Il ricorso e' conclusivamente respinto.

Le spese del giudizio di Cassazione possono essere compensate tra tutte le parti:

quanto al rapporto tra il ricorrente ed i controricorrenti Ca. - Ma. , per le obiettive incertezze cui era suscettibile di dar luogo la sentenza impugnata in relazione alle censure mosse col terzo motivo del ricorso;

- quanto a quelle concernenti i rapporti processuali in cui e' parte il Comune di Roma, per l'ulteriore ragione che il comune ha presentato un controricorso sostanzialmente adesivo al ricorso, limitandosi a rilevare che non era stata impugnata la statuizione relativa al riparto interno delle responsabilita' fra i condebitori solidali.

Nessuna statuizione va invece adottata quanto al rapporto processuale con la societa' assicuratrice.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE

rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di Cassazione.

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