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Il professionista che abbia fatto decorrere il termine di prescrizione è tenuto al risarcimento del danno

Il professionista che, con la propria condotta negligente, abbia fatto decorrere i termini diprescrizione del diritto al risarcimento dei danni in una causa intentata dagli eredi di una persona deceduta a seguito di incidente stradale, è tenuto al risarcimento del danno. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sezione terza, con sentenza 24 aprile 2008, n. 10659.



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Svolgimento del processo

Nella decisione di primo grado lo svolgimento del processo è esposto come segue. «Con atto di citazione notificato il 16.9.96 C. Antonietta, L. Raffaella e L. Patrizia, in proprio e nella qualità di eredi di L. Rocco, convenivano in giudizio, dinanzi a questo Tribunale, l'avv. Fortunato C. , chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta omissiva tenuta dal medesimo, nella qualità di professionista incaricato di promuovere l'azione per il risarcimento dei danni conseguenti al decesso della loro congiunta L. Daniela, avvenuto in un sinistro stradale verificatosi in Salerno il 23.6.81. Invero - secondo le prospettazioni delle istanti - l'avv. C. aveva del tutto omesso di svolgere l'attività necessaria ad impedire il maturarsi della prescrizione del loro diritto al risarcimento, determinando, in tal modo, la perdita definitiva del ristoro ad esse spettante per il gravissimo evento occorso. Instauratosi il contraddittorio, il convenuto si costituiva contestando le deduzioni di controparte e concludendo per il rigetto della domanda con vittoria di spese. Il medesimo veniva, altresì, autorizzato ad evocare in giudizio la propria compagnia assicuratrice, S. Ass.ni s.p.a., dalla quale intendeva essere garantito e sollevato dagli eventuali effetti pregiudizievoli dell'azione intentata dalle attrici.

La S. Ass.li si costituiva, a sua volta, eccependo preliminarmente l'inoperatività della polizza di assicurazione della responsabilità civile, nonché la prescrizione del diritto azionato in garanzia, e concludendo, nel merito, per il rigetto della relativa domanda con vittoria di spese…». Con sentenza 18.7 - 5.12.2000 il Tribunale di Salerno, definitivamente pronunciando, decideva come segue:

«... accoglie la domanda e per l'effetto: 1) condanna il convenuto al pagamento della somma di £ 62.989.000 a favore di C. Antonietta, della somma di £ 27.189.290 a favore di L. Raffaella e della somma di £ 27.189.290 a favore di L. Patrizia, oltre alla rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat dal 23.6.81 fino alla data di pubblicazione della presente sentenza, e agli interessi legali calcolati anno per anno sulle somme suindicate, via via rivalutate, fino all'effettivo soddisfo; 2) condanna il convenuto al rimborso delle spese processuali sostenute dalle attrici che liquida in complessive £ 6.000.000, di cui £ 700.000 per esborsi, £ 2.500.000 per diritti e £ 2.800.000 per onorari, oltre rimborso forfettario del 10% su diritti ed onorari, I.v.a. e C.p.a., con attribuzione ai procuratori dichiaratisi antistatari; 3) condanna il convenuto al rimborso delle spese processuali sostenute dalla chiamata Sara Ass.ni s.p.a. che liquida in complessive £ 4.500.000, di cui £ 300.000 per esborsi, £ 1.500.000 per diritti e £ 2.700.000 per onorari, oltre rimborso forfettario del 10% su diritti ed onorari, I.v.a. e C.p.a.».

Contro questa decisione proponeva appello Fortunato C. .

Resisteva in giudizio la S. Ass.ni s.p.a..

Resistevano in giudizio anche C. Antonietta (vedova L. ), L. Raffaella, L. Patrizia, in proprio e nella qualità di eredi di L. Rocco contestando il proposto gravame.

Con sentenza 20.3 - 22.5.2003 la Corte d'Appello di Salerno decideva come segue. «Accoglie parzialmente l'appello proposto, con atto di citazione notificato in data 10-12-2001, da C. Fortunato avverso la sentenza n. 2904/00 emessa in data 18.08/5.12.00 dal Tribunale di Salerno anche nei confronti di C. Antonietta, L. Raffaella e L. Patrizia in proprio e nella qualità di eredi di L. Rocco e per l'effetto in parziale riforma della sentenza condanna il C. al pagamento, oltreché della sorte capitale e rivalutazione di cui al punto 1) del dispositivo, degli interessi calcolati in misura legale sulla somma finale a decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado (5.12.2000). Conferma nel resto. Condanna l'appellante al pagamento delle spese processuali di questo grado liquidate a favore della S. Ass.ni S.p.A. in Euro 90,00 per esborsi, Euro 750,00 per diritti e 1.500,00 per onorari oltre Iva e CPA e a favore delle altre parti appellanti in Euro 120,00 per esborsi, 850,00 per diritti e 2.200,00 per onorari oltre Iva e Cpa».

Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione (R.G. n. 12462-04) Fortunato C. . Ha resistito con controricorso la Sara.

Hanno proposto ricorso per cassazione anche Antonietta C. , Raffaella L. e Patrizia L. in proprio e nella qualità di eredi di Rocco L. (R.G. n. 16888-04). Ha resistito con controricorso Fortunato C. . Fortunato C. ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Va anzitutto disposta la riunione dei ricorsi.

Fortunato C. , con il suo unico motivo di ricorso, denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 1917, primo comma, ultima parte, 1362-1371 cod. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. = insufficienza e contraddittorietà di motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, n.5, c.p.c." esponendo doglianze che possono essere riassunte come segue. Nel rigettare il quinto motivo di gravame, la Corte territoriale ha ritenuto che, "ai fini della conigurabilità del dolo nell'illecito contrattuale, è sufficiente la consapevolezza di dovere una determinata prestazione ed omettere di darvi esecuzione, in tal modo accettando il rischio di impedire il soddisfacimento della pretesa creditoria, mentre non occorre l'ulteriore requisito della consapevolezza e volontà di arrecare il danno". Ciò posto, la Corte di merito ha individuato la sussistenza del dolo nel fatto che "l'Avv. C. aveva provveduto per anni ad informare di persona o per telefono le appellate circa l'andamento di una inesistente causa", corroborando tali bugie finanche con l'indicazione del nominativo di un giudice istruttore poi trasferito ad altro incarico e con la notizia del congelamento del ruolo del medesimo. Ad avviso della Corte d'Appello "gli estremi del dolo si rinvengono nell'avere fornito notizie false ma attendibili anche per la provenienza da un professionista di fama indiscussa e dall'aver continuato per anni in tale comportamento". In conclusione, "le continue sollecitazioni delle parti e le avverse rassicurazioni sul normale iter di un giudizio mai iniziato impediscono -ad avviso del giudice di appello - di ritenere il mancato espletamento dell'incarico frutto di mera negligenza, non potendosi scindere il grado e la natura della responsabilità in momenti diversi". È radicalmente errata la definizione del dolo data dal giudice di merito, soprattutto in ordine alla fattispecie prevista dall'art. 1917 cod. civ.. In simili casi, il dolo non può esaurirsi nella "consapevolezza di dovere una determinata prestazione" e nell’"omettere di darvi esecuzione", che, se così fosse, la garanzia assicurativa finirebbe con l'essere sempre esclusa in tutti i casi in cui il professionista - acquisita necessariamente la consapevolezza di dovere le proprie prestazioni nel momento del conferimento del mandato - ne differisca l'esecuzione (come ordinariamente avviene nell'organizzazione del lavoro di uno studio legale) ed in tale seconda fase incorra in prescrizioni, decadenze o preclusioni di sorta.

Il dolo previsto dall'art 1917, primo comma, ultima parte, cod. civ., consiste, invece, nella coscienza e volontà dell'assicurato di cagionare l'evento: e cioè l'effetto dannoso destinato a ripercuotersi sull'assicuratore. I comportamenti assunti dal ricorrente nei confronti delle proprie clienti non sono affatto idonei a dimostrare la coscienza e volontà di perpetrare l'inadempimento, bensì semplicemente l'intento di nasconderlo alle proprie clienti. Prima che si verificasse la prescrizione del loro diritto, le bugie del professionista non tendevano affatto a cagionar loro volontariamente un danno, bensì unicamente ad evitare di subirne le lamentele per un ritardo nell'espletamento del mandato, con l'intuibile segreto proposito di darvi corso subito dopo, e comunque prima che il loro diritto fosse colpito da prescrizione. Il pregiudizio si verificò, invece, allorquando il professionista perse il controllo della pratica proprio in coincidenza col maturare della prescrizione del diritto delle sue assistite.

La successiva condotta del professionista nei confronti delle clienti fu, poi, del tutto irrilevante in rapporto all'operatività della garanzia assicurativa, essendo tale condotta diretta unicamente ad allontanare da sé l'increscioso incombente di dover confessare alle assistite il risultato irreparabile della propria negligenza. La Corte territoriale ha, peraltro, rilevato che la copertura assicurativa è esclusa (art. 7.13 delle condizioni generali) quando si tratti di fatti dei quali l'assicurato sia a conoscenza prima della stipula del contratto.

Non è dubitabile che la clausola di inoperatività della polizza si riferisca ai danni già verificatisi e dei quali l'assicurato sia a conoscenza al momento della stipula. Ma all'epoca (13.4.1994) della stipula dell'invocata polizza assicurativa l'evento dannoso non si era ancora verificato: infatti la prescrizione del diritto delle appellate al risarcimento si verificò soltanto il 7.11.1995, col decorso di dieci anni dall'emissione dell'ordinanza (del 7.11.1985) con cui la Corte di Cassazione in sede penale aveva dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato Aniello D. M. La polizza assicurativa "R.C. professionale" in questione copre certamente anche la "colpevole dimenticanza" dell'esecuzione dell'attività oggetto del mandato. La clausola di polizza più volte richiamata dalla S. Assicurazioni S.p.A. in corso di causa parla di "richiesta di risarcimento" e l'Avv. C. prima della citazione non ha mai avuto richieste di risarcimento da parte delle sig. re C. - L. . Né appare corretto affermare che “se è vero che al momento della stipula del contratto (13.04.1994) l'evento dannoso non si era ancora verificato..., era in atto da ben otto anni il comportamento omissivo generatore del danno e, dunque, la consapevolezza del rischio, e cioè la prevedibilità che si verificasse il sinistro e l'entità del danno conseguente”. Infatti, tale considerazione può, semmai rimarcare la gravità della colpa - e nessuna distinzione la polizza in esame contiene tra colpa professionale "lieve" e "grave" e nessuna esclusione della garanzia prevede per il caso di "colpa grave"- ma non può di certo convertire la colpa (ancorché grave) in dolo.

Il ricorso di Fortunato C. non può essere accolto in quanto la decisione impugnata è fondata su una motivazione che, se bene interpretata, deve ritenersi sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione. In particolare è opportuno precisare quanto segue: -A) a proposito del primo dei brani di sentenza sopra riportati ("ai fini della configurabilità del dolo nell'illecito contrattuale, è sufficiente la consapevolezza di dovere una determinata prestazione ed omettere di darvi esecuzione, in tal modo accettando il rischio di impedire il soddisfacimento della pretesa creditoria, mentre non occorre l'ulteriore requisito della consapevolezza e volontà di arrecare il dannò") va rilevato anzitutto che la Corte di Appello ha inteso chiaramente, pur se implicitamente e cioè senza parlare espressamente di "dolo eventuale", affermare proprio la sussistenza di quest'ultimo tipo di dolo (evidentemente ravvisato ritenendo che detto professionista non poteva non prevedere ed in concreto aveva quindi certamente previsto i possibili risultati del suo comportamento; accettando inoltre il rischio che si verificassero; cfr. ad es. Cass. Penale, Sentenza n. 11024 del 10/10/1996); ed ha ritenuto (come già detto in modo in parte implicito) detta sussistenza sulla base di argomentazioni del tutto immuni dai vizi denunciati; -B) anche in considerazione di quanto ora esposto appare dunque esente da vizi logici o giuridici pure l’affermazione del Giudice secondo cui "... non occorre l'ulteriore requisito della consapevolezza e volontà di arrecare il danno..." mentre è errata in diritto (con riferimento alla fattispecie) la tesi contraria della parte ricorrente; -C) del tutto logiche e giuridicamente corrette debbono ritenersi pure le argomentazioni ulteriori della Corte censurate dalla parte ricorrente; e tra queste in particolare anche l'assunto del Giudice di secondo grado secondo cui "....la copertura assicurativa è esclusa (art. 7.13 Condizioni Generali) quando si tratti di fatti dei quali l'assicurato sia venuto a conoscenza prima della stipula del contratto..."; tale assunto è infatti basato palesemente (anche se in modo parzialmente implicito) da un lato sulla circostanza che la clausola in questione parla (genericamente) di "...fatti...", e dall'altro sulla considerazione che l'ampio significato di tale parola deve ritenersi comprensivo non solo dei "...danni già verificatisi e dei quali l'assicurato sia a conoscenza al momento della stipula..." (secondo l'espressione usata dal C. a metà della nona pagina del ricorso) ma anche dell'eventualmente già sussistente "comportamento omissivo generatore del danno..." dell'assicurato stesso (comportante la "...consapevolezza del rischio, e cioè la prevedibilità che si verificasse il sinistro e l'entità del danno conseguente..."); elementi tutti dei quali l'assicurato nella fattispecie era a conoscenza prima della stipula del contratto; si è dunque di fronte ad una tipica valutazione di merito che si sottrae al sindacato di legittimità in quanto del tutto immune dai vizi denunciati; mentre è la contraria tesi interpretativa proposta dalla parte ricorrente che e inammissibile nella sua parte di gran lunga prevalente (la quale tende in sostanza ad ottenere un riesame del merito; cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 1754 del 26/01/2007: “Il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l'individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l'attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti"; ovvero viola il principio di autosufficienza del ricorso in quanto si basa sulla citazione di brani di risultanze processuali - in particolare del contratto in questione - senza riportarne ritualmente il contesto; cfr. tra le altre Cass. n. 4754 del 13/05/1999; Cass. n. 376 del 11/01/2005; Cass. n. 20321 del 20/10/2005; Cass. n. 1221 del 23/01/2006; Cass. n. 8960 del 18/04/2006; Cass. Sentenza n. 7767 del 29/03/2007; e Cass. Sentenza n. 6807 del 21/03/2007) prima ancora che priva di pregio in ogni sua parte (dato che tutte le censure esposte comunque non riescono ad evidenziare alcun vizio nella suddetta motivazione).

Le ricorrenti Antonietta C. , Raffaella L. e Patrizia L. in proprio e nella qualità di eredi di L. Rocco, con l'unico, articolato, motivo di ricorso, denunciano “Violazione ed errata applicazione dell'art. 1224 c.c.. in relazione all'art.360 c.p.c. n. 3 e n. 5.” esponendo doglianze che possono essere riassunte come segue. La Corte di Appello di Salerno ha riconosciuto nel merito la fondatezza della domanda attorca modificando la sentenza di primo grado in relazione agli interessi maturati. Infatti nella sentenza depositata dalla suindicata Corte si legge: "in tema di responsabilità per inadempimento contrattuale con la sentenza che liquida definitivamente l'ammontare del danno risarcibile compresa la rivalutazione monetaria, il debito di valore per danno contrattuale diventa debito di valuta sul cui importo spettano i soli interessi liquidati a tasso legale dalla data della sentenza". Tale decisione appare illegittima e giuridicamente infondata.

Infatti nelle fattispecie come quella in questione il professionista deve risarcire alla parte il pregiudizio economico che la stessa subisce a causa del mancato accoglimento della domanda per estinzione del diritto determinato dal decorso del tempo. Pertanto, il ritardato pagamento di siffatta obbligazione di valore comporta la necessità di attualizzare il danno al momento della liquidazione e, quindi, calcolare il "valore" in un momento successivo al fatto-inadempimento.

Orbene, se è vero che in siffatta fattispecie occorre differenziare tra obbligazione di valore ed obbligazione di valuta, è pur vero che in ogni caso occorre sempre computare sia la svalutandone (che per le prime consente l'esatta commisurazione del danno subito in sede di liquidazione, mentre per le seconde, rette dal principio nominalistico, consiste nel maggior danno ai sensi dell’art.l224 comma 2 c.c.) che gli interessi (le parti ricorrenti citano Cass. sentenza del 28/03/1997 n. 2789; Cass. S.U. 17/02/1995 n. 1712). Pertanto, la Corte di Appello di Salerno adottando la tesi assolutamente minoritaria, che esclude il riconoscimento degli interessi se non dal momento in cui l'originaria obbligazione di valore si trasforma (per effetto della determinazione del danno) in obbligazione di valuta, ha completamente disatteso l'orientamento adottato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite. A conclusioni identiche si perviene ove agli interessi in questione si attribuisca natura di interessi moratori ex art. 1224 comma 1 c.c., dovuti sulla somma liquidata dal giorno del verificarsi dell'evento dannoso ex art 1219 comma 2 n. I., c.c.

Anche il ricorso in esame non può essere accolto.

Occorre premettere che la sentenza impugnata va interpretata nel senso che alle parti danneggiate è stato riconosciuto: -A) con riferimento al periodo di tempo fino alla "...data di pubblicazione delle sentenza di primo grado..." (v. all'ultima facciata della sentenza) oltre al capitale liquidato, anche la rivalutazione nella misura indicata al punto 1 del dispositivo di primo grado e gli interessi come liquidati in detto dispositivo (ciò non è detto esplicitamente ma emerge chiaramente dal contesto della sentenza); -B) inoltre, con riferimento al periodo di tempo successivo alla "...data di pubblicazione delle sentenza dì primo grado..." solo gli interessi sulla "...somma finale..." e cioè sull'importo ottenuto applicando al capitale iniziale la predetta rivalutazione. In altri termini, secondo detta sentenza, il cumulo di rivalutazione ed interessi va applicato (nei limiti indicati dal Giudice di primo grado) solo fino a detta "...data di pubblicazione delle sentenza di primo grado..."; per il periodo successivo invece sono dovuti solo gli interessi predetti.

Ciò premesso si osserva che le doglianze dei ricorrenti (nei termini in cui sono state esposte) non possono essere accolte.

Infatti è anzitutto certamente errato in diritto l'assunto delle ricorrente nella parte in cui sembra (le doglianze in questione non sono del tutto chiare e compiute) criticare la tesi secondo cui il debito di valore con la liquidazione si trasforma in debito di valuta restando pertanto assoggettato alla disciplina dettata dall'art. 1224 c.c., (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 5008 del 08/03/2005: "Le obbligazioni di valore si trasformano in obbligazioni di valuta solo in seguito al passaggio in giudicato della sentenza che decide sulla loro liquidazione, e pertanto solo da tale momento restano assoggettate alla disciplina dettata dall'art. 1224 cod. civ. per le obbligazioni di valuta, con la conseguenza che con decorrenza da tale momento vanno riconosciuti gli interessi corrispettivi nonché il risarcimento del danno per la mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro rappresentante l'equivalente del bene perduto o danneggiato, qualora sia fornita, anche con presunzioni semplici, la prova del danno subito. Pertanto la sentenza che nel processo penale liquidi il danno a favore della P.C. senza interessi e maggior danno in quanto non richiesti sino alla pubblicazione della sentenza medesima, non preclude al danneggiato la possibilità di conseguire in sede civile, sul credito di valuta scaturito dalla liquidazione, per il periodo successivo ad essa, quanto stabilito dal disposto dell'art. 1224 cod. civ."); questa Corte non può affrontare invece la questione concernente il momento in cui le obbligazioni di valore si trasformano in obbligazioni di valuta (e cioè non in seguito alla mera liquidazione ma in seguito al passaggio in giudicato della sentenza che decide sulla liquidazione) in quanto ciò non è oggetto di specifiche e rituali doglianze.

È inoltre errato in diritto sostenere che la giurisprudenza facente capo alla fondamentale sentenza Sez. U. n. 01712 del 17/02/1995 è in contrasto con quella relativa a detta trasformazione (da debito di valore in debito di valuta) in quanto la prima si riferisce ai criteri da seguire in sede di liquidazione nella sentenza destinata a passare in giudicato e la seconda a quanto accade una volta che detto passaggio in giudicato si è verificato. Con riferimento infine alla possibilità di liquidare il danno derivante dalla svalutazione monetaria anche con riferimento alle obbligazioni di valuta nei limiti di cui all'art. 1224 c.c. basta rilevare che sul punto non sussiste una doglianza rituale (e quindi tra l'altro chiara, specifica e munita di rituale supporto argomentativo pure in ordine alla effettiva e concreta sussistenza nella fattispecie dei presupposti di fatto e di diritto per detta liquidazione).

Una volta chiarito quanto sopra in ordine all'esatta interpretazione della sentenza impugnata, all'esatto contenuto delle censure esposte ed ai veri rapporti tra i due filoni giurisprudenziali predetti, non si vede come in detta decisione possano essere ravvisabili gli specifici vizi denunciati. Va dunque respinto pure il ricorso proposto da Antonietta C. , Raffaella L. e Patrizia L. in proprio e nella qualità di eredi di L. Rocco.

Il rigetto di entrambi i ricorsi non giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

Infatti l'individuazione del soccombente fa effettuata applicando il principio di causalità (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 25141 del 27/11/2006: "L'individuazione del soccombente si compie in base al principio di causalità, con la conseguenza che parte obbligata a rimborsare alle altre le spese anticipate nel processo è quella che, col comportamento tenuto fuori del processo stesso, ovvero col darvi inizio o resistervi informe e con argomenti non rispondenti al diritto, abbia dato causa al processo o al suo protrarsi) ed in base all'esito finale della lite (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 18353 del 16/09/2005; e Cass. Sentenza n. 4778 del 09/03/2004: "77 criterio della soccombenza di cui all'art. 91 cod. proc. civ., al fine della determinazione dell'onere delle spese processuali, non si fraziona secondo l'esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all'esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche fase o grado la parte poi soccombente abbia conseguito un esito per sé favorevole"). Sulla base di detti criteri Fortunato C. va ritenuto soccombente e condannato a rifondere alle controparti le spese del giudizio di cassazione liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna Fortunato C. a rifondere alle controparti le spese del giudizio di cassazione liquidate in € 5.000,00 (cinquemila euro) per onorario oltre € 100,00 (cento euro) per spese vive ed oltre spese generali ed accessori come per legge.

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