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Il proprietario o utente dell'animale è sottratto alla responsabilità presunta ex art. 2052 c.c. se non è provato il nesso di causalità tra il comportamento dell'animale e il danno causato

In tema di danno cagionato da animali, il proprietario o utente dell'animale, per sottrarsi alla responsabilità presunta ex art. 2052 c.c., è, sì, tenuto a fornire la prova del caso fortuito - che può consistere anche nel fatto del terzo, o nella colpa del danneggiato - ma solo dopo che sia stato dimostrata in modo univoco la sussistenza del nesso di causalità tra il comportamento dell'animale e il danno causato. (Cass., Sentenza 20 aprile 2009, n. 9350)



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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 20 aprile 2009, n. 9350

(Pres. Finocchiaro - est. Ambrosio)

Motivi della decisione


1. Preliminarmente va dato atto dell'inammissibilità della produzione documentale esibita da parte ricorrente all'udienza pubblica (con la sola esclusione della copia di una sentenza da sezione penale di questa Corte, allegata a corredo di citazione giurisprudenziale), trattandosi di documenti diversi da quelli previsti dall'art. 372 c.p.c. e, comunque, tardivamente depositati.

2. Va anteposto l'esame del quarto e ultimo motivo che, sebbene proposto “in ulteriore subordine”, attiene a una questione di carattere pregiudiziale - quella della rituale instaurazione del contraddittorio in appello - che, se fondata, dovrebbe essere oggetto di rilievo di ufficio.

La questione, già dedotta in secondo grado sub specie di eccezione di “giuridica inesistenza” dell'appello, muove dalla considerazione che l'impugnazione venne notificata a L. D. C., quale erede dell'originaria attrice, non già personalmente, bensì presso l'avv. Luigi Cianciusi, nel domicilio eletto dalla medesima erede all'atto della notificazione della sentenza del Tribunale, contestualmente al precetto.

La Corte di appello, nel respingere l'eccezione, ha innanzitutto escluso che il difetto riguardasse la vocatio in ius, osservando che gli appellanti avevano avuto notizia del decesso dell'originaria attrice attraverso la notifica della sentenza e del precetto e avevano, quindi, ritualmente evocato in giudizio l'erede; ha, quindi, rilevato che il vizio, eventualmente attinente alla notificazione, risultava sanato dalla costituzione in giudizio dell'appellata, con il ministero dello stesso avv. Cianciusi entro il termine annuale per la proponibilità dell'appello (oltre che nei termini di cui agli artt. 347 e 166 c.p.c.); ha, infine, rilevato che - essendo rimasto identico il difensore (e il domicilio eletto) della de cuius e dell'erede - doveva escludersi (anche ai sensi dell'art. 330 c.p.c.) che fosse mancato ogni collegamento tra la persona cui l'atto era destinato, il luogo e il soggetto cui era stato consegnata la copia dell'atto di appello, dovendo, anzi, ritenersi il vizio stesso insussistente: ciò in considerazione del fatto che la notifica della sentenza e del precetto effettuata ad istanza dell'erede della parte deceduta dopo la costituzione in giudizio e prima della chiusura della discussione della causa di primo grado, senza che il procuratore costituito l'abbia dichiarato o notificato, spiega il suo effetto solo nel processo esecutivo e non è, quindi, idonea a incidere sul luogo della notifica dell'impugnazione, con la conseguenza che la notifica all'erede va fatta presso il procuratore del de cuius.

2.1. La ricorrente, con il motivo all'esame, denuncia, ai sensi dell'art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c., la nullità della sentenza gravata e del procedimento in relazione agli artt. 110, 328 co. 2 e 330 co. 3 c.p.c., lamentando che la Corte di appello abbia ritenuto sanato il vizio della notifica dell'impugnazione, nonostante al momento della notificazione non fosse configurabile alcun legame tra l'erede e il difensore della defunta, non potendo a tal fine rilevare il successivo conferimento del mandato da parte dell'erede al medesimo difensore. Chiede, dunque, a questa Corte di affermare il principio che la notifica dell'impugnazione all'erede nel domicilio legale della persona defunta in violazione dell'art. 330 co. 3 c.p.c. non è sanante, quando alla data della notificazione, relativamente all'impugnazione, non vi sia alcun rapporto tra l'erede e il difensore (ancorché tale rapporto sia sorto successivamente), soprattutto nel caso in cui l'erede si sia costituito per eccepire l'inammissibilità dell'appello, condizionando all'ammissibilità di detto appello, il proprio appello incidentale.

2.2. Il motivo di ricorso è infondato, anche se la motivazione della sentenza di appello deve essere rettificata ai sensi dell'art. 384, co. 4 c.p.c., nel punto in cui ha radicalmente escluso la sussistenza di qualsiasi vizio di notifica.

Al riguardo si osserva che - intervenuta nelle more del processo di primo grado la morte dell'attrice, senza che l'evento venisse dichiarato dal procuratore - gli odierni intimati hanno esercitato il diritto di impugnazione avverso la sentenza di primo grado nei confronti dell'erede dell'originaria attrice, individualmente identificata e tuttavia notificando l'atto di appello al domicilio eletto dalla de cuius presso il procuratore avv. Luigi Cianciusi.

Ciò posto, occorre rilevare che la norma di cui al comma 2 dell’art. 330 c.p.c., cui ha fatto riferimento il giudice a quo (e che la prevalente giurisprudenza di questa Corte ritiene applicabile anche nel caso di decesso avvenuto prima della notificazione della sentenza, in quanto contenente un'agevolazione di valore assoluto, essendo diretta a consentire l'esercizio facilitato del diritto di impugnazione con notificazione nei luoghi indicati dall'art. 330 c.p.c., comma 1, senza individuazione degli eredi) non viene in rilievo nel caso di specie, dal momento che l'erede è stata citata singolarmente (e ciò correttamente, attesa l'intervenuta comunicazione dell'evento con la notificazione della sentenza e del precetto). Nel caso all'esame, quindi, l'erede era già stata individuata, di modo che - escluso che l'elezione di domicilio effettuata in precetto potesse avere efficacia al di fuori del processo esecutivo -la notificazione dell'impugnazione andava effettuata al domicilio personale della stessa erede. In sostanza, corretta la vocatio in ius, non altrettanto può dirsi per la modalità di notificazione.

Detto ciò, occorre, innanzitutto, osservare che il problema se la notificazione eseguita presso l'avv. Cianciusi, fosse nulla o inesistente si rivela, nel caso di specie, di scarso e, anzi, nessun rilievo, dal momento che - come rilevato dalla Corte territoriale - l'appellata si è costituita prima della scadenza del termine per appellare, ancorché abbia (tra l'altro) dedotto “l'inesistenza” dell'appello. In ogni caso la valorizzazione che i giudici di appello hanno operato del “legame” esistente tra il luogo in cui venne effettuata lai notifica e la destinataria della stessa risulta corretta, non tanto perché l'erede ha finito per costituirsi con il patrocinio dello stesso avv. Cianciusi (trattandosi, questa, di una verifica ex post del suo collegamento con la destinataria dell'atto), ma soprattutto perché il predetto legale non era persona del tutto estranea al processo ed era, quindi, collegabile al soggetto destinatario dello stesso atto, posto che, oltre ad essere stato il procuratore domiciliatario della de cuius, lo era anche dell'erede, sia pure solo ai fini dell'esecuzione della sentenza ottenuta dalla dante causa.

In definitiva va qui applicato il principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui la notifica - pur viziata perché eseguita al di fuori delle previsioni normative mediante consegna in luogo o a soggetto diversi da quelli stabiliti dalla legge, ma che abbiano, comunque, un qualche riferimento con il destinatario medesimo - è, comunque individuabile come “notificazione”, in forza del “riferimento” o “collegamento” al destinatario, il quale consente di non escludere a priori che la notificazione possa raggiungere lo scopo suo proprio, e cioè quello di portare a conoscenza del destinatario il contenuto dell'atto notificato. Motivo, quest'ultimo, sufficiente per ritenere sanato ex tunc il vizio dall'eventuale costituzione della parte (e, quindi, anche ove la costituzione fosse avvenuta dopo la scadenza del termine per appellare) ovvero sanabile attraverso una nuova rituale notificazione nel termine assegnato dal giudice.

3. Gli altri motivi attengono al merito della vicenda.

Al riguardo la Corte territoriale ha rilevato che la presunzione di cui all'art. 2052 c.c. opera solo se l'evento di danno sia causa diretta di un'attività posta in essere dall'animale; ha, quindi, osservato che, nel caso di specie, non era stata offerta la prova, incombente sulla danneggiata, né del fatto che il cane si era mosso, né dell'esistenza di un nesso di causalità tra quella (eventuale) condotta e la caduta. Ha precisato, a tal riguardo, che nessuno dei testi escussi in primo grado è stato in grado di riferire elementi utili sulla dinamica del fatto, con la conseguenza che non poteva ritenersi - come superficialmente affermato dal primo giudice - che “la causa della caduta è riferibile in qualche modo al cane”. In particolare ha preso specificamente in esame la deposizione dell'unico teste (G.) che aveva riferito di un qualche movimento del cane, osservando che lo stesso era sopraggiunto sul luogo quando l'evento si era già verificato e sia la D. C. che la L. erano a terra, risultando a quel punto la condotta dell'animale del tutto indifferente; ha, quindi, rilevato, con riguardo alle deposizioni E. e T., che nessuno dei due testimoni aveva assistito al fatto e che uno di essi aveva riferito delle dicerie apprese in loco senza indicarne la fonte, mentre l'altro aveva riferito una dinamica del tutto diversa da quella riferita dall'attrice, appresa dalla L..

3.1. Con il primo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata in parte qua, lamentando violazione e falsa applicazione dell'art. 2052 c.c. e delle regole generali di prova della responsabilità civile, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto controverso e decisivo in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c.. In particolare la ricorrente deduce, da un lato, che alla Corte di appello spettava di accertare non già se fosse stata raggiunta la prova certa del nesso causale, bensì se l'esistenza del nesso dedotto fosse verosimile all'esito delle prove e, cioè, non escludibile in base ai criteri di probabilità e di logica, secondo i noti canoni della responsabilità civile e, quindi, anche mediante presunzioni e, dall'altro, che la sentenza è viziata per avere esonerato parte convenuta dall'onere della prova della mancanza di colpa o del caso fortuito e dal fatto esclusivo del danneggiato.

La ricorrente chiede, pertanto, che sia affermato il principio che la prova del nesso causale ex art. 2052 c.c. e la derivazione del danno vadano dimostrati anche per presunzioni (ex art. 2727 e 2729 c.c.) in base a una condotta verosimile e non escludibile secondo criteri di probabilità e di logica (non applicati dalla gravata sentenza) e, in difetto o di solo dubbio, vada integrata con la prova del danneggiante sulla sua mancanza di colpa o sul caso fortuito o sull'efficacia causale esclusiva del danneggiato.

3.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto controverso e decisivo in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c.. In particolare la ricorrente lamenta che la motivazione della Corte di appello non ricostruisca la dinamica del fatto, limitandosi a interpretare un'immagine fotografica fissa e finale (quella delle due donne a terra) ed escludendo la possibilità di ricostruire “le probabili immagini anteriori e privando di valore quelle successive di cui alle prove testimoniali”. Inoltre la motivazione sarebbe illogica perché fondata sull'indimostrato presupposto che il cane fosse fermo, senza tenere in alcun conto il fatto che la custode del cane era caduta, probabilmente, perché trascinata dall'animale e ne avesse perso il controllo.

3.3. Con il terzo motivo si denuncia, in subordine, violazione dei principi generali in materia di responsabilità civile e in materia di sicurezza della circolazione stradale (art. 1 d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285) con violazione e falsa applicazione degli artt. 2052 e 2054 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché omessa o errata motivazione in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.. In particolare la ricorrente sì duole che non si sia fatta applicazione della presunzione di responsabilità di cui all'art. 2054 c.c. e chiede di affermare il principio che nella circolazione stradale l'incidente occorso a due pedoni e un animale, condotto a passeggio da una catena, comporta l'accertamento delle rispettive responsabilità, da cui nessuno dei soggetti coinvolti ha titolo per potersi sottrarre.

4. Nessuno dei suesposti motivi è meritevole di accoglimento.

Innanzitutto - premesso che alla fattispecie è applicabile l'art. 366 bis c.p.c., introdotto dal d.lgs. n. 40 del 2006, trattandosi di sentenza pubblicata a decorrere dal 2 marzo 2006, data di entrata dello stesso decreto - si osserva che i motivi di ricorso per cassazione ex art. 360 n. 3 c.p.c. devono, in base alla norma cit., essere accompagnati da un quesito di diritto che si risolva in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta - negativa od affermativa - che ad esso si dia, discenda in modo univoco l'accoglimento od il rigetto del gravame (Sez. Unite n. 23732/2007); mentre i motivi di ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. devono contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Sez. Unite, 01/10/2007, n. 20603).

4.1. Ciò precisato, con riguardo al primo motivo che introduce un duplice ordine di doglianze {ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), si osserva che il censurato vizio motivazionale non indica il fatto controverso in relazione al quale si ipotizza la doglianza, mentre il “principio” che la ricorrente chiede a questa Corte di affermare - oltre ad essere, come si vedrà, comunque, erroneo - non risponde ai canoni, elaborati da questa Corte in ordine all'enunciazione del quesito di diritto.

In altri termini, da un lato, la denunciata violazione di diritto non si è tradotta nell'enunciazione di un quesito autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisca il segno della decisione, e, dall'altro, la critica della valutazione della prova risulta inammissibile, perché pone una questione di fatto, senza però dedurre, con l'evidenza richiesta dall'art. 366 bis c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c. n. 5, l'esistenza di un vizio di motivazione. Invero la ricorrente chiede a questa Corte di affermare un principio di diritto in tema di accertamento del nesso causale agli effetti dell'applicabilità dell'art. 2052 c.c., senza contemporaneamente individuare la diversa regula iuris di cui avrebbero fatto applicazione i giudici del merito. In effetti il contenuto del motivo, lungi dall'essere in correlazione con la proposizione di una questione di diritto, pone una questione di mero fatto - qual è la valutazione delle emergenze probatorie, sul punto della sussistenza della condotta dell'animale, causalmente riferibile all'evento - che è attività affidata in via esclusiva al giudice del merito, censurabile in cassazione solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva, deficiente esposizione dell'iter logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l'individuazione della ratio decidendi posta a base della decisione adottata.

Da ultimo, ma non per ultimo, occorre osservare che il principio che la ricorrente chiede a questa Corte di affermare è in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di danno cagionato da animali, il proprietario o utente dell'animale, per sottrarsi alla responsabilità presunta ex art. 2052 c.c., è, sì, tenuto a fornire la prova del caso fortuito - che può consistere anche nel fatto del terzo, o nella colpa del danneggiato - ma solo dopo che sia stato dimostrata in modo univoco la sussistenza del nesso di causalità tra il comportamento dell'animale e il danno causato (Cass. civ., Sez. III, 22/02/2000, n. 1971; cfr. anche Cass. civ., Sez. III, 30/03/2001, n. 4742). La prova liberatoria da parte del danneggiante (proprietario o utilizzatore dell'animale) presuppone l'esistenza del nesso causale, per cui nel caso di specie gli odierni intimati avrebbero dovuto fornire siffatta prova solo se fosse emerso, senza possibilità di dubbio, che il loro cane aveva cagionato la caduta dell'attrice. Ed è per l'appunto quest'ultima certezza che - secondo l'insindacabile valutazione data dai giudici del merito - non è stata raggiunta nel caso all'esame.

4.2. Il secondo motivo è inammissibile perché la censura del vizio motivazionale (per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione) non è accompagnata dall'indicazione del fatto controverso in relazione al quale si ipotizzano le indicate doglianze; tantomeno risultano individuate “le ragioni” che rendono la motivazione inidonea a sorreggere la decisione.

Il motivo è in ogni caso infondato. Dall'iter argomentativo sopra riportato sub n. 3, appare chiaro che la Corte territoriale ha motivato la riforma della sentenza di primo grado, ritenendo che non fosse stata acquisita la certezza del nesso causale, dopo avere proceduto a un'accurata disamina critica del materiale probatorio acquisito alla causa, senza incorrere in errori di logica o di diritto e quindi con un ragionamento incensurabile in questa sede; laddove la ricorrente, sotto l'apparenza di denunciare vizi di motivazione, oppone in sostanza una propria alternativa valutazione delle prove, cosi introducendo nel giudizio di legittimità un'inammissibile istanza di riesame del merito.

2.3. Il terzo motivo è palesemente inammissibile. Il “principio di diritto” che si chiede di affermare è privo di qualsivoglia requisito di completezza, specificità e riferibilità alla fattispecie. Il motivo postula l'applicazione dell'art. 2054 c.c., il quale riguarda il danno prodotto dal “conducente di un veicolo senza guida di rotaie” o da “scontro tra veicoli”: fattispecie, queste, non equiparabili, all'evidenza, all'ipotesi di “un animale, condotto a passeggio da una catena”, cui fa riferimento parte ricorrente.

In conclusione il ricorso va rigettato. Nulla deve disporsi in ordine alle spese del giudizio di legittimità non avendo parte intimata svolto attività difensiva.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

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