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In caso di recesso anticpato del contratto di albergo stipulato tramite agenzia, il turista è obbligato a risarcire i danni al mandatario
Pubblicata il 26/02/2008
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Con citazione innanzi al Giudice di Pace di Macerata del 05.08.1997 la Ditta Ha. To. di Al. Vi. S.a.s. conveniva in giudizio Fr. Fo. per ottenerne la condanna, previa risoluzione del contratto relativo alla prenotazione di un soggiorno turistico, al risarcimento dei danni, reclamati in ragione di £ 2.000.000, oltre interessi dal 31.07.1996.
La ditta istante esponeva che, essendo stata incaricata dal convenuto di prenotare a suo nome un soggiorno in località turistica, aveva anticipato all'albergo per conto dello stesso la somma di due milioni di Lire, il cui pagamento Fr. Fo. le aveva rifiutato.
Il convenuto contrastava la domanda ed eccepiva di avere legittimamente esercitato il diritto di recesso dal contratto di viaggio a causa di una improvvisa malattia della madre e di nulla dovere, a titolo di corrispettivo o per danni, avendo egli versato la somma di £ 400.000 come caparra confirmatoria.
Il Giudice di Pace accoglieva la domanda e condannava la società convenuta a pagare per danni la somma di £ 2.000.000, oltre interessi e spese.
Il gravame del soccombente era deciso dal Tribunale di Macerata con sentenza pubblicata il 21.06.2001, che rigettava l'appello e condannava l'appellante alle spese del grado.
Il Giudice di secondo grado premetteva che la ditta istante aveva fondato la sua pretesa sul contratto di mandato, avente ad oggetto la prenotazione per conto del convenuto di un soggiorno in albergo in località turistica.
Considerava che, pur non essendo la Ditta Ha. To. di Al. Vi. S.a.s. legittimata a reclamare nella qualità di mandataria la risoluzione del contratto, sul punto la sentenza di primo grado non era stata impugnata.
Riteneva che spettava alla Ditta Ha. To. di Al. Vi. S.a.s. di il rimborso delle spese anticipate ai sensi dell'art. 1710 c.c. e che le altre eccezioni, relative alla prova del danno ed alla pretesa sua eccessività, non potevano essere rivolte alla ditta stessa, ma il convenuto Fr. Fo. avrebbe dovuto indirizzarle al gestore dell'albergo.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Fr. Fo., che ha affidato l'impugnazione a quattro motivi.
Ha resistito con controricorso la Ditta Ha. To. di Al. Vi. S.a.s., che ha anche presentato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo dell'impugnazione - deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all'art. 81 c.p.c. - il ricorrente critica la impugnata sentenza perché il Giudice d'appello avrebbe dovuto rilevare d'Ufficio il difetto di legitimatio ad causam della Ditta Ha. To. di Al. Vi. S.a.s., onde sarebbe errata la statuizione secondo cui sul punto si sarebbe formato il giudicato dato che la questione non era stata sollevata in primo grado.
Il motivo non può essere accolto.
Il Giudice del merito ha ritenuto che la Ditta Ha. To. di Al. Vi. S.a.s., nella qualità di incaricata dal convenuto di prenotargli il soggiorno in albergo, era legittimata ad agire in base al contratto e detta statuizione di primo grado non riguarda certo la legitimatio ad causam, ma concerne la titolarità attiva del rapporto fatto valere in giudizio, che non è stata contestata in primo grado né ha costituito oggetto di devoluzione con il gravame, per cui correttamente l'impugnata sentenza ha dato atto dell'intervenuto giudicato sul punto.
Costituisce, infatti, principio del tutto scontato (ex plurimis: Cass., n. 5912/2004; Cass., n. 2326/2004; Cass., n. 18067/2003; Cass., n. 17606/2003) che mentre il giudice è tenuto a verificare la esistenza in ogni stato e grado del procedimento (salvo il formarsi di un giudicato interno circa la coincidenza dell'attore o del convenuto con i soggetti destinatari della pronuncia richiesta, secondo la norma che regola il rapporto dedotto in giudizio), della legitimatio ad causam, attiva e passiva (che si ricollega al principio di cui all'art. 81 c.p.c., inteso a prevenire una sentenza inutiliter data e che è istituto processuale riferibile al soggetto che ha il potere di esercitare l'azione in giudizio ed a quello nei cui confronti tale azione può essere esercitata), per quel che concerne, invece, la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, nessun esame d'Ufficio è consentito, poiché la contestazione della titolarità del rapporto controverso è questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata.
Con il secondo motivo dell'impugnazione - deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all'art. 112 c.p.c. e la nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione - il ricorrente assume che il Giudice di secondo avrebbe inammissibilmente mutato in appello il titolo della pretesa fatta valere dalla ditta istante in primo grado, giacché alla originaria causa petendi, consistente nella responsabilità aquiliana, avrebbe sostituito l'azione contrattuale in base a contratto di mandato.
La censura non è fondata.
Il Giudice di secondo grado ha affermato che risultava chiaramente espresso nella citazione in primo grado, negli atti di causa e nelle successive difese che la Ditta Ha. To. di Al. Vi. S.a.s. aveva "fondato la pretesa su un contratto di mandato avente ad oggetto la stipulazione di un contratto di soggiorno in albergo a favore del convenuto".
Ha, quindi, specificato che proprio del contratto di mandato la ditta aveva chiesto la risoluzione per inadempimento del convenuto Fr. Fo., che, avendo dato tardiva disdetta del contratto medesimo, non aveva pagato il corrispettivo che, per suo conto, la ditta mandataria aveva pagato all'albergatore.
Non sussiste, pertanto, alcuna violazione della norma di cui all'art. 112 c.p.c. sotto il profilo denunciato dal ricorrente, dovendosi al riguardo richiamare la pacifica regola di diritto (ex multis: Cass., n. 11455/2004; Cass., n. 3366/2004; Cass., n. 19812/2004; Cass., n. 11753/98) secondo cui il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (che implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda) può ritenersi violato sempre che il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi d'identificazione dell'azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell'ambito del petitum, rilevi d'Ufficio un'eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall'attore, può essere sollevata soltanto dall'interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo una causa petendi nuova e diversa da quella enunciata dalla parte a sostegno della domanda; mentre il principio medesimo dell'art. 112 c.p.c. non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti ovvero in base all'applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante ovvero mediante specificazione della domanda con l'attribuzione di un nomen iuris diverso.
Del resto, la qualificazione giuridica nello schema del mandato dei fatti dedotti dalla ditta istante a sostegno della sua domanda è conforme a quel che ha stabilito già questa Corte (Cass., n. 6633/97; Cass., n. 17150/2002), secondo cui la prenotazione del contratto d'albergo effettuata per il tramite di un'agenzia di viaggi, che agisce come mandataria del cliente che le ha conferito il relativo incarico, comporta che la revoca della prenotazione alberghiera, da parte del cliente medesimo, integra unilaterale sottrazione al vincolo contrattuale e determina l'obbligazione di tenere indenne il mandatario di quanto anticipato all'albergatore nel limite in cui tale anticipazione possa considerarsi effettuata in esecuzione dei doveri di diligenza incombenti sul mandatario.
Con il terzo mezzo di doglianza, - deducendo la nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione ai sensi dell'art. 112 c.p.c. - il ricorrente assume che, rigettando l'appello, il Giudice di secondo grado aveva confermato anche il capo della sentenza di primo grado relativo alla risoluzione per inadempimento del contratto di mandato per avere esso ricorrente disdettato il diverso contratto d'albergo intercorso con soggetto diverso dalla ditta mandataria.
Sostiene che "la conferma in grado d'appello della sentenza pronunciata dal Giudice di primo grado lascia sottendere o un refuso riguardante il contratto di soggiorno ... oppure, viceversa, la risoluzione del rapporto di mandato è stata con palese illegittimità estesa al rapporto di mandato, travalicandosi invero i confini della domanda attrice ed incorrendosi nel vizio di ultrapetizione".
La censura, nei limiti in cui è dato intenderne l'effettiva valenza, non è fondata, essendo essa già assorbita dalle considerazioni svolte prima a proposito del secondo motivo.
Converrà, comunque, ribadire (Cass., n. 696/2002; Cass., n. 2079/98) che il Giudice di appello, nel confermare la sentenza di primo grado, non viola il principio del contraddittorio se, anche d'Ufficio, ne sostituisca la motivazione che ritenga non corretta, purché quella diversa sia radicata nelle risultanze acquisite al processo e sia contenuta entro i limiti del devolutum, quali risultanti dall'atto di appello.
Nel caso in esame la sentenza di secondo grado ha ben chiarito che la domanda proposta in primo grado era da qualificare come azione contrattuale derivante da un rapporto di mandato e che i fatti esposti a sostegno di essa erano da qualificare nello schema del relativo contratto, rispetto al quale l'unilaterale sottrazione al vincolo del mandante comportava il suo assoggettamento agli effetti previsti dall'art. 1720 c.c., sicché eventuali diverse argomentazioni della decisione di primo grado non possono essere addotte a ragione della pretesa ultrapetizione.
Con l'ultimo motivo d'impugnazione - deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all'art. 1453 secondo comma, c.c. - il ricorrente assume che, avendo la ditta istante richiesto la risoluzione del contratto di mandato, non avrebbe potuto ottenere la condanna di esso ricorrente all'adempimento dell'obbligazione prevista a suo carico dall'art. 1720 c.c..
Il motivo è inammissibile.
In tema di inadempimento contrattuale, l'eccezione di improponibilità della domanda di adempimento ai sensi dell'art. 1453 c.c., per essere stata in precedenza chiesta la risoluzione del contratto, si fonda su una norma posta nell'esclusivo interesse dell'altra parte contraente e può essere sollevata solo da quest'ultima, nel rispetto delle previste preclusioni, per cui devesi escludere che possa essere rilevata d'Ufficio ovvero dedotta per la prima volta in sede di legittimità (Cass., n. 5964/2004; Cass., n. 15969/2000).
Il Giudice di Pace aveva condannato il ricorrente ritenendolo inadempiente al contratto di mandato ed il soccombente, che non aveva dedotto con l'appello l'improponibilità della domanda ai sensi dell'art. 1453 secondo comma, c.c., non può proporre l'eccezione in questa sede.
Il ricorso, quindi, è rigettato ed il ricorrente è condannato a pagare le spese del presente giudizio di legittimità, che, liquidate nella misura di cui in dispositivo, sono attribuite ai difensori della ditta resistente Avvocati Ro. Fr. e Go. Go., che si sono dichiarati antistatari ex art. 93 c.p.c..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 900,00 (novecento/00), di cui € 800,00 (ottocento/00) per onorari, oltre spese generali ed accessori come per legge, e che attribuisce ai difensori della parte resistente Avvocati Ro. Fr. e Go. Go., che si sono dichiarati antistatari.