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L'attività medico-chirurgica per essere considerata legittima necessita dell'acquisizione del consenso informato rilasciato dal paziente

L'attività medico-chirurgica per essere considerata legittima necessita dell'acquisizione del consenso informato rilasciato dal paziente, salve le eccezioni previste dalla legge. Non ricorre però alcuna fattispecie penale nel caso in cui il medico, pur in assenza di un valido consenso del paziente, abbia agito secondo la lex artis e l'intervento si sia concluso con esito benefico per la salute del paziente, da intendersi come miglioramento della patologia da cui lo stesso era affetto. (Corte di Cassazione Sezioni Unite Penale, Sentenza del 21 gennaio 2009, n. 2437)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GEMELLI Torquato - Presidente

Dott. LATTANZI Giorgio - Consigliere

Dott. GRASSI Aldo - Consigliere

Dott. ROSSI Bruno - Consigliere

Dott. BRUSCO Carlo G. - Consigliere

Dott. CANZIO Giovanni - Consigliere

Dott. CORTESE Arturo - Consigliere

Dott. FIALE Aldo - Consigliere

Dott. MACCHIA Alberto - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

GI. Nu., nato a (OMESSO);

nonche' dalla parte civile MA. Ro., nata a (OMESSO);

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Bologna il 5 febbraio 2007;

udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Alberto Macchia;

udito il pubblico ministero in persona dell'Avvocato Generale CIANI Gianfranco, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perche' il fatto non sussiste;

udito il difensore dell'imputato avv. Iadecola Gianfrancesco del Foro di Teramo, che ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perche' il fatto non sussiste o in subordine l'annullamento senza rinvio perche' il fatto non costituisce reato.

RITENUTO IN FATTO

1. - MA. Ro., ricoverata nel reparto di ginecologia dell'Ospedale di (OMESSO), il 20 novembre 1997 fu sottoposta dal dott. GI.Nu. ad un intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuita', a salpingectomia che determino' l'asportazione della tuba sinistra.

Alla stregua della ricostruzione operata dai giudici del merito, l'intervento demolitorio risulto' essere stato una scelta corretta ed obbligata, eseguita nel rispetto della lex artis e con competenza superiore alla media;

tuttavia, secondo l'assunto accusatorio, senza il consenso validamente prestato dalla paziente, informata soltanto della laparoscopia.

Secondo i primi giudici, infatti, gia' in fase di programmazione della laparoscopia erano prevedibili l'evoluzione di tale intervento in operativo e l'elevata probabilita' di asportazione della salpinge, la non opportunita' dell'interruzione dell'intervento e la mancanza del pericolo di vita e, quindi, del presupposto dello stato di necessita', ai fini dell'acquisizione del consenso.

L'omissione sarebbe stata da ascrivere, in ragione della elevata prevedibilita' dell'intervento chirurgico, ad una scelta consapevole e volontaria dell'imputato e non a colpa.

Peraltro, ad avviso del giudice di primo grado, ogni trattamento medico, eseguito in assenza di un consenso valido e specifico, integrerebbe lesione della liberta', garantita dall'articolo 32 Cost., di autodeterminazione della persona circa le decisioni mediche che la riguardano, comprensiva della facolta' di promuovere un consulto o di scegliere altre strutture sanitarie.

Cio' induceva pertanto il Tribunale di Rimini a qualificare il reato di lesioni personali volontarie aggravate, originariamente contestato al GI., come violenza privata, in ordine al quale ultimo l'imputato stesso veniva ritenuto colpevole e condannato alla pena di mesi quattro di reclusione, sostituita con la pena di euro 6.000,00 di multa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Proposto appello da parte dell'imputato, la Corte di appello di Bologna, con sentenza del 5 febbraio 2007, ha reputato contraddittoria ed insufficiente la prova in ordine all'acquisizione del consenso informato della MA.;

sicche', esclusa, da un lato, la ricorrenza della esimente dello stato di necessita' e respinta, dall'altro lato, la tesi difensiva secondo la quale e' lecito ogni intervento medico compiuto in mancanza di espresso dissenso, ha rilevato l'intervenuta prescrizione del reato - cosi' come qualificato nella sentenza di primo grado - revocando le statuizioni civili, disposte in quella stessa sentenza, stante l'assenza di una prova idonea circa la commissione del fatto.

2. - Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell'imputato e della parte civile MA. Ro..

La parte civile si duole, in estrema sintesi, della revoca delle statuizioni civili, deducendo inosservanza di legge e vizi motivazionali, per essere stato a proprio avviso disatteso un dato fattuale certo (l'omessa acquisizione del consenso informato, accertata attraverso la deposizione della persona offesa e dei suoi familiari, ritenuti dalla stessa Corte territoriale pienamente attendibili) con il ricorso ad una mera presunzione (quella desunta dalla "prassi informativa" cui ha fatto riferimento una infermiera) e ad un elemento sicuramente insufficiente (tratto dalla deposizione dell'aiuto medico).

Nel ricorso proposto nell'interesse dell'imputato si deduce, quale primo motivo, vizio di motivazione in riferimento al mancato proscioglimento nel merito, giacche', da un lato, andrebbe privilegiato l'orientamento che ritiene applicabile l'articolo 129 c.p.p., comma 2 anche nei casi in cui la prova della responsabilita' sia insufficiente o contraddittoria; dall'altro, la mancata adozione di una formula di merito sarebbe in contrasto con la determinazione di revocare le statuizioni civili; infine - sottolinea il ricorso - i giudici dell'appello avrebbero omesso di fornire risposta adeguata circa la doglianza relativa alla esimente dello stato di necessita', quanto meno a livello putativo.

Si lamenta, poi, mancata assunzione di una prova decisiva, in riferimento alla richiesta di assunzione di testi e consulenti, al fine di contrastare l'assunto relativo alla non ricorrenza - reale o putativa - della esimente dello stato di necessita', e si prospetta, infine, violazione di legge in riferimento alla laconica asserzione per la quale i giudici a quibus avrebbero disatteso la fondatezza dell'orientamento giurisprudenziale secondo il quale sarebbe lecito ogni intervento medico compiuto in mancanza di un espresso dissenso del paziente.

Con successive, diffuse note, i difensori dell'imputato hanno svolto articolate deduzioni volte a contestare la sussistenza, nella ipotesi di specie, del reato di violenza privata e per ribadire, al contrario, la ricorrenza della scriminante dello stato di necessita'.

3. - La Quinta Sezione penale di questa Corte, cui i ricorsi erano stati assegnati, avendo ravvisato la sussistenza di un contrasto di giurisprudenza sui temi coinvolti, ha rimesso, a norma dell'articolo 618 c.p.p., a queste Sezioni Unite la decisione sui ricorsi medesimi, con ordinanza pronunciata il l'ottobre 2008, ritenendo pregiudiziale la risoluzione del quesito se abbia o meno rilevanza penale, e, nel caso di risposta affermativa, quale ipotesi delittuosa configuri la condotta del sanitario che, in assenza di consenso informato del paziente, sottoponga il medesimo ad un determinato trattamento chirurgico nel rispetto delle "regole dell'arte" e con esito fausto.

Quanto al primo aspetto - osserva la Sezione rimettente - si registrano due diversi orientamenti.

Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il consenso del paziente fungerebbe da indefettibile presupposto di liceita' del trattamento medico, con la conseguenza che la mancanza di un consenso opportunamente "informato" del malato, o la sua invalidita' per altre ragioni, determinerebbe la arbitrarieta' del trattamento medico e la sua rilevanza penale, salvo le ipotesi in cui ricorra lo stato di necessita' ovvero se specifiche previsioni di legge autorizzino il trattamento sanitario obbligatorio ai sensi dell'articolo 32 Cost..

Secondo altro orientamento, invece, in ambito giuridico, in genere, e penalistico in particolare, la volonta' del paziente svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia espressa in forma negativa, essendo il medico - allo stato del quadro normativo attuale - "legittimato" a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso anche in assenza di un esplicito consenso, con conseguente irrilevanza del problema della esistenza di eventuali scriminanti, in quanto e' da escludere "in radice" che la condotta del medico che intervenga in mancanza di consenso informato possa corrispondere alla fattispecie astratta di un reato.

Quanto, poi, al tipo di reato eventualmente ipotizzabile, secondo una prima interpretazione il medico, che intervenga su un paziente in assenza di congruo interpello, risponde di lesioni volontarie, pur quando l'esito dell'intervento sia favorevole.

Cio' in quanto qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialita' integrano il concetto di malattia di cui all'articolo 582 c.p.; precisandosi che il criterio di imputazione soggettiva dovra' essere invece colposo, qualora il sanitario agisca nella convinzione, per negligenza o imprudenza, della esistenza del consenso.

Secondo altro indirizzo, invece, l'arbitrarieta' dell'intervento - che non potra' mai realizzare il delitto di lesioni, essendo il trattamento medico chirurgico volto a rimuovere e non a cagionare una malattia - puo' assumere rilevanza penale solo come attentato alla liberta' individuale del paziente e rendere percio' configurabile esclusivamente il delitto di violenza privata.

Il tutto - conclude l'ordinanza di rimessione - non senza evocare la sussistenza di tesi intermedie, quale quella di ravvisare la sussistenza dell'indicato delitto nel caso di trattamento non chirurgico, o quella di ritenere che la violenza privata sia configurabile nella sola ipotesi di trattamento chirurgico eseguito in presenza di un espresso, libero e consapevole rifiuto del paziente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. - Va preliminarmente dichiarata la inammissibilita' del ricorso proposto dalla parte civile.

In esso, infatti, la ricorrente si e' limitata a proporre una critica, che non ha riguardato la conformita' o meno dei parametri di delibazione del compendio probatorio adottati dai giudici a quibus rispetto al modello legale, o la effettiva coerenza del tessuto argomentativo svolto sul punto nella sentenza impugnata, ma i risultati cui il motivato ragionamento probatorio ha condotto.

In tal modo devolvendosi, quindi, a questa Corte, null'altro che un nuovo sindacato di merito, che le e' precluso. La sentenza impugnata, infatti, ha piu' che congruamente dato conto delle ragioni per le quali, a fronte di variegate ricostruzioni testimoniali, tutte puntualmente delibate, sia sul piano della relativa attendibilita', che delle reciproche, contrapposte conferme, ha ritenuto nella sostanza non provata con certezza la circostanza che della possibile necessita' di un intervento di asportazione della salpinge fosse stata adeguatamente resa edotta la paziente.

Le censure prospettate si rivelano, pertanto, inconferenti.

Alla declaratoria di inammissibilita' del ricorso segue, pertanto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in euro mille, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

2. - Di diverso spessore sono, invece, le questioni che coinvolge il ricorso dell'imputato.

L'enunciazione plurima e alternativa del quesito, sul quale queste Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi, evoca, infatti, gia' di per se', pur nel circoscritto ambito della peculiare fattispecie che ha contrassegnato l'iter del procedimento, la varieta' dei piani su cui occorre soffermarsi ed il delicato concatenarsi delle problematiche coinvolte.

La questione da esaminare riguarda il quesito se abbia o meno rilevanza penale, sotto il profilo delle fattispecie di lesioni personali o di violenza privata, la condotta del medico che sottoponga il paziente, in mancanza di valido consenso informato, ad un trattamento chirurgico, pure eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis e conclusosi con esito fausto.

Si tratta di problematica antica, mai univocamente risolta, anche perche' coinvolgente una gamma di questioni ad essa intimamente correlate, quali:

il fondamento giuridico e di legittimazione della attivita' medico-chirurgica;

il concetto di malattia che in relazione ad essa deve venire in rilievo;

il valore che, nel sistema, occorre riconoscere al consenso informato del paziente, alla luce dei principi che, fra le altre, le fonti di rango costituzionale, legislativo e deontologico dettano al riguardo, prendendo in considerazione il bene della salute come diritto della persona.

D'altra parte, le disposizioni dettate dal codice penale del 1930, anche a voler prescindere dai limiti insiti in un sistema punitivo precostituzionale, contrassegnato dalla peculiare visione derivante dall'assetto politico-istituzionale dell'epoca, si rivelano palesemente incongrue al fine di individuare equilibrate soluzioni atte a fornire risposta a tutte le esigenze di tutela che le varie ipotesi di fatto possono presentare.

Non senza sottolineare, per altro verso, come il presidio penale non possa che profilarsi, nella platea dei possibili rimedi astrattamente ipotizzagli, quale extrema ratio, a fronte, ad esempio, di eventuali meccanismi sanzionatori alternativi, operanti sul terreno civilistico-risarcitorio o anche amministrativo-disciplinare.

Cio' spiega, da un lato, l'ampio ventaglio di tesi dottrinarie e giurisprudenziali che si sono misurate sui vari aspetti della responsabilita' del medico e sulla tematica del consenso informato:

talora - e' necessario riconoscerlo - con evidenti torsioni ermeneutiche, spintesi ai limiti estremi della compatibilita' con il principio di tassativita' che deve presiedere alla "costruzione" ed alla configurazione delle fattispecie penali; e, dall'altro lato, si chiarisce la ratio di fondo che ha sostenuto i tentativi - condotti anch'essi da giurisprudenza e dottrina - volti ad evitare, per un verso, eccessi di "penalizzazione" o di "burocratizzazione" della attivita' medica, ma al tempo stesso attenti a ricercare soluzioni ermeneutiche che si presentassero in linea con la (in se' condivisibile) intentio di non lasciare senza effettiva tutela condotte riguardabili come "dannose" da chi e' stato sottoposto al trattamento sanitario: e cio' non necessariamente in ragione soltanto dell'esito infausto dello stesso.

Soffermarsi, dunque, sulle piu' significative sentenze di questa Corte, per analizzarne le varie rationes e gli approdi cui le stesse sono pervenute a proposito dei numerosi "nodi" che la questione sottoposta a queste Sezioni unite coinvolge, rappresenta la ineludibile premessa, per focalizzare i temi sui quali e' indispensabile fornire univoca risposta.

3. - La prima sentenza che si e' soffermata ex professo sul tema del trattamento medico-chirurgico e del consenso informato del paziente, e' stata la nota sentenza Massimo (Cass., Sez. 5, 21 aprile 1992, n. 5639, Massimo), oggetto di diffusi rilievi, prevalentemente critici, svolti da larga parte della dottrina.

Tale sentenza ha in particolare affermato il principio per il quale il chirurgo che, in assenza di necessita' ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di piu' grave entita' rispetto a quello meno cruento e comunque di piu' lieve entita' del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalita' pur sempre curativa della sua condotta;

sicche' egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte.

Aderendo, dunque, alla tesi secondo la quale soltanto il consenso, quale manifestazione di volonta' di disporre del proprio corpo, puo' escludere in concreto la antigiuridicita' del fatto e rendere questo legittimo.

Da un lato, infatti, occorreva assegnare il dovuto risalto alla circostanza che l'articolo 39 del codice di deontologia medica allora vigente stabiliva che il consenso del paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto medico;

dall'altro, doveva pure rammentarsi che, in tema di trattamento medico chirurgico, l'antigiuridicita' della lesione provocata, poteva, indipendentemente dal consenso, essere esclusa soltanto dalla presenza di cause di giustificazione; negandosi al tempo stesso validita' alla tesi secondo la quale quella attivita' rinverrebbe copertura in cause di giustificazione non codificate, riferite alla finalita', pur sempre terapeutica, perseguita dal chirurgo.

Sottolineava la richiamata sentenza che "se il trattamento, eseguito a scopo non illecito, abbia esito sfavorevole, si deve, pur sempre, distinguere l'ipotesi in cui esso sia consentito dall'ipotesi in cui il consenso invece non sia prestato. E si deve ritenere che se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico, e l'esito sia favorevole, il reato di lesioni sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale (articolo 32 Cost., comma 2), e che, a fortiori il reato sussiste ove l'esito sia sfavorevole".

Nel contrastare, poi, la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo la quale l'oggetto di tutela dell'articolo 50 c.p. sarebbe limitato alla liberta' di autodeterminazione, con conseguente possibilita' di ritenere configurabile, in relazione al trattamento medico eseguito senza il consenso, il reato di cui all'articolo 610 c.p., la medesima sentenza ha precisato che "la formulazione di ordine generale del principio sancito dalla norma, non autorizza l'esclusione della protezione del diritto alla integrita' fisica (tra molti altri) e, semmai, soltanto il trattamento medico senza il consenso che pur sempre non cagioni lesioni potrebbe far ipotizzare fatti di violenza privata".

A conclusioni diverse perviene la successiva sentenza Barese (Cass., Sez. 4, 9 marzo 2001, n. 28132), ove si e' affermato che, in tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in assenza di urgente necessita', venga eseguita una operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni piu' ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne abbia determinato la morte, non e' configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poiche', per integrare quest'ultimo, si richiede che l'agente realizzi consapevolmente ed intenzionalmente una condotta diretta a provocare una alterazione lesiva dell'integrita' fisica della persona offesa. La disamina si concentra, dunque, essenzialmente sull'elemento soggettivo, giacche' "se e' vero che la connotazione finalistica della condotta (la finalita' terapeutica) e' irrilevante - non essendo richiesto il dolo specifico per i reati di lesioni volontarie e percosse - e' altrettanto vero che la formulazione dell'articolo 584 c.p. (atti diretti a) fa propendere per la tesi, non da tutti condivisa, che l'elemento soggettivo richiesto per l'omicidio preterintenzionale, quanto all'evento voluto, sia costituito dal dolo diretto o intenzionale con esclusione quindi del dolo eventuale".

D'altra parte - ha puntualizzato ancora la pronuncia in esame - se e' vero che l'intentio del medico mal si concilia con l'atteggiamento di chi persegue sin dall'inizio una volonta' lesiva, neppure sarebbe lecito affermare che il fine terapeutico escluda siffatta volonta', giacche', in tale ipotesi, si presupporrebbe l'esistenza di un dolo specifico, al contrario non richiesto dalla norma.

Al tempo stesso, soggiunge la sentenza, "affermare l'intenzionalita' della condotta, ogni volta che non vi sia il consenso del paziente, significa, in realta', confondere il problema della natura del dolo richiesto per la fattispecie criminosa in esame con l'esistenza della scriminante costituita dal consenso dell'avente diritto".

Quanto, poi, all'elemento psicologico del reato di lesioni volontarie, la sentenza afferma che "si avra' l'elemento soggettivo del delitto di lesioni volontarie, in tutti i casi in cui il chirurgo, o il medico, pur animato da intenzioni terapeutiche, agisca essendo conscio che il suo intervento produrra' una non necessaria menomazione dell'integrita' fisica o psichica del paziente.

E poiche' - afferma la richiamata pronuncia - l'omicidio preterintenzionale si configura anche se la condotta e' diretta a commettere il delitto di percosse, non puo' escludersi, in astratto, anche se appare difficile immaginare il concreto verificarsi di queste ipotesi, che l'evento morte non voluto sia conseguente ad una condotta diretta, non a provocare una malattia nel corpo o nella mente, ma ad una condotta qualificabile come percossa".

Alla luce di tale ricostruzione, il consenso del paziente verrebbe ad essere ricondotto nel novero delle scriminanti, che, ad avviso della dottrina prevalente, escludono la antigiuridicita' della condotta;

sicche', sarebbe lecito l'assunto secondo il quale il consenso stesso "per un verso precluda la possibilita' di configurare il delitto di lesioni volontarie, ma solo nel caso di consenso validamente espresso nei limiti dell'articolo 5 c.c., per l'efficacia scriminante attribuita dall'articolo 50 c.p. al consenso della persona che puo' validamente disporre del diritto; per altro verso, che, in presenza di ragioni di urgenza terapeutica, o nelle ipotesi previste dalla legge, il consenso non sia necessario".

A sua volta, e sempre che non ricorrano le condizioni per ritenere sussistente lo stato di necessita' - che varrebbe ad escludere, anche nella ipotesi di dissenso espresso il dolo diretto di lesioni, posto che il medico, nell'intervenire malgrado il dissenso del paziente, mira comunque a salvaguardarne la vita e la salute poste in pericolo - "l'esplicito dissenso del paziente rende l'atto, asseritamente terapeutico, un'indebita violazione non solo della liberta' di autodeterminazione del paziente ma anche della sua integrita', con conseguente applicazione delle ordinarie regole penali".

Puntualizza ancora la stessa sentenza, la circostanza che la condotta del medico sia orientata a tutelare la salute del paziente e non a cagionare menomazioni della sua integrita', fisica o psichica, permette di "escludere l'intenzionalita' della condotta nei casi, non infrequenti, nei quali il medico, nel corso dell'intervento chirurgico, rilevi la presenza di una situazione che, pur non essendo connotata da aspetti di urgenza terapeutica, potendo essere affrontata in tempi diversi, venga invece affrontata immediatamente senza il consenso del paziente; per es. per evitargli un altro intervento e altri successivi disagi o anche soltanto per prevenire pericoli futuri".

In tale ultima ipotesi - che assume uno specifico interesse ai fini dell'odierno scrutinio - la medesima sentenza ritiene non configurabile il reato di cui all'articolo 610 c.p., giacche' una simile costruzione rinverrebbe un "ostacolo difficilmente superabile nella previsione della necessita' che la condotta dell'agente consista in violenza o minaccia. Quest'ultima sembra proprio da escludere, mentre la violenza potrebbe forse ipotizzarsi nei soli casi di dissenso espresso del paziente al trattamento chirurgico".

L'asse delle riflessioni sembra in parte mutare nella sentenza Sez. 4, 27 marzo 2001, n. 36519, Cicarelli, anche se la portata delle affermazioni che vi compaiono risulta fortemente condizionata dalle peculiarita' del caso di specie, nel quale ad un sanitario si addebitava, fra l'altro, di aver praticato un tipo di anestesia diverso da quello preferibile secondo la lex artis, ma per il quale il paziente aveva revocato il proprio consenso.

In particolare, si evidenzia come la liceita' della condotta del medico, che si caratterizza per le finalita' terapeutiche che ne contraddistinguono l'agere, non possa trovare "significanza solo nel consenso entro ovvero oltre la categoria di cui all'articolo 50 c.p., ma in coerenza con il principio da esso enunciato".

Dunque, "l'agire del chirurgo sulla persona del paziente contro la volonta' di costui, salvo l'imminente pericolo di morte o di danno sicuramente irreparabile ad esso vicino, non altrimenti superabile, esita in una condotta illecita capace di configurare piu' fattispecie di reato, quali violenza privata (articolo 610 c.p., la violenza essendo insita nella violazione della contraria volonta'), lesione personale dolosa (articolo 582 c.p.) e, nel caso di morte, omicidio preterintenzionale (articolo 584 c.p.) ".

Cio' che rileva e' la violazione del divieto di manomissione del corpo dell'uomo e, quindi, "la violazione consapevole del diritto della persona a preservare la sua integrita' fisica nell'attualita' - come e' ora, a nulla valendo, in simile situazione, il rilievo che questa possa essere, eventualmente, migliorata - e il rispetto della sua determinazione a riguardo del suo corpo", in aderenza al principio personalista della nostra Costituzione, nella specie contrassegnato dall'articolo 2 Cost. e articolo 32 Cost., comma 2.

Donde l'assunto per il quale "il medico chirurgo non puo' manomettere l'integrita' fisica del paziente, salvo pericolo di vita o di altro danno irreparabile altrimenti non ovviabile, quando questi abbia espresso dissenso".

Nella sentenza Sez. 4, 11 luglio 2001, n. 35822, Firenzani, trova eco, in campo penale, la tesi - gia' da tempo affermatasi nella giurisprudenza civile - secondo la quale l'attivita' medica rinverrebbe la propria autolegittimazione dagli articoli 13 e 32 Cost., giacche' "sarebbe riduttivo ... fondare la legittimazione della attivita' medica sul consenso dell'avente diritto (articolo 50 c.p.) che incontrerebbe spesso l'ostacolo di cui all'articolo 5 c.c., risultando la stessa di per se' legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico e' abilitato dallo Stato"; ferma restando la necessita' del consenso debitamente informato del paziente, anch'esso costituzionalmente presidiato (cfr, fra le tante, Cass., Sez. 3 civ., 25 novembre 1994, n. 10014; Sez. 3 civ., 15 gennaio 1997, n. 364, nonche', piu' di recente, Sez. 1 civ., 16 ottobre 2007, n. 21748; Sez. 3 civ., 28 novembre 2007, n. 24742; Sez. 3 civ., 15 settembre 2008, n. 23676).

Nell'affermare gli identici principi, la sentenza Firenzani sottolinea che la "legittimita' in se' dell'attivita' medica richiede per la sua validita' e la sua concreta liceita', in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce presupposto di liceita' del trattamento medico-chirurgico", afferendo, esso, alla liberta' morale del soggetto e dalla sua autodeterminazione, nonche' alla sua liberta' fisica, intesa come diritto al rispetto della propria integrita' corporea: tutti profili riconducibili al concetto di liberta' della persona, tutelato dall'articolo 13 Cost..

Non sarebbe dunque configurabile, in capo al medico, un "diritto di curare" come espressione di una posizione soggettiva qualificata, derivante dalla abilitazione all'esercizio della professione, giacche' essa, per potersi estrinsecare, comporta di regola il consenso della persona che deve sottoporsi al trattamento sanitario, salvo i casi di trattamento obbligatorio ex lege, o le ipotesi di incapacita' a prestare il consenso o di stato di necessita'.

Pertanto "la mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua invalidita' per altre ragioni, determina l'arbitrarieta' del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo".

Quanto, poi, alle ipotesi delittuose di carattere doloso astrattamente configurabili, le stesse potranno rinvenirsi negli articoli 610, 613 e 605 c.p., nel caso di trattamento terapeutico non chirurgico; nel caso, invece, di intervento chirurgico, il reato ipotizzabile e' quello previsto dall'articolo 582 c.p., perche' "qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito "fausto", implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialita' estrinsecano l'elemento oggettivo di detto reato, ledendo l'integrita' corporea del soggetto", avuto riguardo al diritto di ciascuno di privilegiare il proprio stato attuale.

"Il criterio di imputazione dovra' essere, invece, di carattere colposo - conclude la sentenza - qualora il sanitario, in assenza di valido consenso dell'ammalato, abbia effettuato l'intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso".

La medesima linea prosegue, con ulteriori apporti argomentativi, anche nella sentenza della Sez. 1, 29 maggio 2002, n. 26446, P.G. in proc. Volterrani, nella quale si afferma il principio secondo il quale in tema di attivita' medico-chirurgica (in mancanza di attuazione della delega di cui alla Legge 28 marzo 2001, n. 145, articolo 3 con la quale e' stata ratificata la Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina), deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorche' l'omissione dell'intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte.

In tale ultima ipotesi - ha puntualizzato la sentenza - qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potra' profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non - nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia - il diverso e piu' grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all'intervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui all'articolo 582 c.p..

Infatti, l'attivita' strumentale posta in essere dal chirurgo - quale l'incisione della cute - e' priva di una propria autonomia funzionale, rappresentando null'altro che "un passaggio obbligato verso il raggiungimento dell'obiettivo principale dell'intervento, quello di liberare il paziente dal male che lo affligge".

Tale attivita' si inserirebbe dunque "a pieno titolo, nell'esercizio dell'azione terapeutica in senso lato, che corrisponde all'alto interesse sociale di cui si e' detto, interesse che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del diritto alla salute riconosciuto a ogni individuo, per il bene di tutti, dall'articolo 32 Cost. della Repubblica e lo fa autorizzando, disciplinando e favorendo la creazione, lo sviluppo ed il perfezionamento degli organismi, delle strutture e del personale occorrente.

Per cio' stesso questa azione, ove correttamente svolta, e' esente da connotazioni di antigiuridicita', anche quando abbia un esito infausto".

A proposito, poi, della sussistenza - nel caso di specie - della scriminante dello stato di necessita' di cui all'articolo 54 c.p., la stessa pronuncia rileva come nella, pratica sanitaria, in genere, e di quella chirurgica, in specie, salvo le ipotesi in cui non ricorra l'intento di tutela della salute propriamente intesa, l'attivita' stessa sarebbe "sempre obbligata, per non dire forzata. Il chirurgo preparato, coscienzioso, attento e rispettoso dei diritti altrui non opera per passare il tempo o sperimentare le sue capacita': lo fa perche' non ha scelta, perche' quello e' l'unico giusto modo di salvare la vita del paziente o almeno migliorane la qualita'".

Donde l'assunto per il quale sarebbe ravvisabile uno stato di necessita' ontologicamente intrinseco alla attivita' terapeutica, con la conseguenza che "quando il giudice del merito riconosca in concreto il concorso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l'intervento chirurgico eseguito con la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica medica, deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause di liceita' codificate, escludere comunque ogni responsabilita' penale dell'imputato, cui sia stato addebitato il fallimento della sua opera".

La giurisprudenza piu' recente sembra abbandonare le posizioni piu' estreme - fra quelle sin qui passate in rassegna - per collocarsi in linea con i principi codificati nelle massime, per cosi dire, intermedie.

Cosi', nella sentenza della Sez. 6, 14 febbraio 2006, n. 11640, Caneschi, si ribadisce il principio secondo cui "l'attivita' medica richiede per la sua validita' e concreta liceita' la manifestazione del consenso del paziente, che non si identifica con quello di cui all'articolo 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceita' del trattamento"; derivandone da cio' che la mancanza o la invalidita' del consenso "determinano la arbitrarieta' del trattamento medico-chirurgico e, quindi, la sua rilevanza penale, in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo".

Piu' articolato, anche se non perviene ad approdi sostanzialmente innovativi, si presenta il percorso motivazionale che caratterizza la sentenza della Sez. 4, 16 gennaio 2008, n. 11335, p.c. in proc. Huscer, ove si ribadisce, in massima, che, in tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in mancanza di un valido consenso informato ovvero in presenza di un consenso prestato per un trattamento diverso, il chirurgo esegua un intervento da cui derivi la morte del paziente, non e' configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poiche' la finalita' curativa comunque perseguita dal medico deve ritenersi concettualmente incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un'alterazione lesiva della integrita' fisica della persona offesa invece necessaria per l'integrazione degli atti diretti a commettere il reato di lesioni richiesti dall'articolo 584 c.p..

Dunque, il consenso espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, e' vero e proprio presupposto di liceita' dell'attivita' del medico che somministra il trattamento, al quale non e' attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volonta' dell'ammalato.

Il medico, infatti, di regola e al di fuori di taluni casi eccezionali (allorche' il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare il proprio consenso o dissenso, ovvero, piu' in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessita' di cui all'articolo 54 c.p.), non puo' intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente.

In questa prospettiva, il consenso, per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere informato, cioe' espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell'intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e la puntualizzazione della gravita' degli effetti del trattamento.

Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facolta', non solo di scegliere tra le diverse possibilita' di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale.

Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall'articolo 32 Cost. (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico-malato e' quello della libera disponibilita' del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacita' intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte, che puo' comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve sempre essere rispettata dal sanitario.

Peraltro da tutto cio' "non puo' farsi discendere la conseguenza che dall'intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido si possa sempre profilare la responsabilita' a titolo di omicidio preterintenzionale, in caso di esito letale, ovvero a titolo di lesioni volontarie", giacche' il contenuto dell'elemento soggettivo di tali reati non e' di norma configurabile rispetto alla attivita' del medico, mentre "il consenso eventualmente invalido perche' non consapevolmente prestato non puo' ex se importare l'addebito a titolo di dolo".

Il medesimo ordine di idee e' stato infine ribadito anche dalla sentenza Sez. 4, 24 giugno 2008, n. 37077, Ruocco, intervenuta, peraltro, su una ipotesi di prescrizione di farmaci off label:

vale a dire, la somministrazione di medicinali per finalita' terapeutiche diverse da quelle riconosciute ai farmaci stessi.

In tale sentenza si e', da un lato, confermato il fondamento costituzionale del criterio di disciplina della relazione medico-malato, ed e' stato, dall'altro lato, ancora una volta escluso che dalla mancanza di valido consenso possa farsi discendere la responsabilita' del medico a titolo di lesioni volontarie, o, nel caso di morte, di omicidio preterintenzionale.

E cio' perche' il sanitario si trova ad agire con una finalita' curativa "che e' concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni"; salvo che si versi in situazioni anomale e distorte, "nelle quali potrebbe ammettersi la configurabilita' di tali reati:

per esempio, nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessita' o di menomazione infetta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici".

La valutazione penalistica del comportamento del medico, che abbia cagionato un danno per il paziente, non subisce variazioni a seconda che l'attivita' sia stata svolta con o in assenza del consenso:

"il giudizio sulla sussistenza della colpa e quello sulla causalita' tra la condotta colposa e l'evento dannoso non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o non il consenso informato del paziente".

Da tutto cio' il corollario conclusivo, secondo il quale il consenso informato del paziente alla somministrazione del trattamento sanitario non puo' costituire, ove lo stesso trattamento abbia cagionato delle lesioni, un elemento per affermare la responsabilita' a titolo di colpa di quest'ultimo, a meno che la mancata sollecitazione del consenso gli abbia impedito di acquisire la necessaria conoscenza delle condizioni del paziente medesimo (sulla liberta' di autodeterminazione del paziente, come limite al dovere medico di intervenire, v. Cass., Sez. 4, 4 luglio 2005, n. 38852, p.m. in proc. Del Re; Cass., Sez. 4, 23 gennaio 2008, n. 16375, p.c. in proc. Di Domenico.

Per una posizione volta a privilegiare la possibilita' di risolvere i casi in cui l'atto medico e' affetto da vizi del consenso, facendo ricorso agli istituti della cosiddetta colpa impropria, attraverso la utilizzazione delle "categorie dell'erronea supposizione della causa di giustificazione (articolo 59 c.p., comma 4) e dell'eccesso colposo nella causa stessa (articolo 55 c.p.) ", v. Cass., Sez. 5, 16 settembre 2008, n. 40252, Beretta).

4. - Dalla disamina teste' compiuta emerge, dunque, come primo dato di riflessione, il sostanziale recepimento in sede penale della tesi civilistica della cosiddetta autolegittimazione della attivita' medica, la quale rinverrebbe il proprio fondamento, non tanto nella scriminante tipizzata del consenso dell'avente diritto, come definita dall'articolo 50 c.p., quanto nella stessa finalita', che le e' propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito.

Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale ha da tempo messo in luce la circostanza che il bene della salute e' tutelato dall'articolo 32 Cost., comma 1, "non solo come interesse della collettivita', ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell'individuo" (sentenza n. 356 del 1991), che impone piena ed esaustiva tutela (sentenze n. 307 e 455 del 1990), in quanto "diritto primario e assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati" (sentenze n. 202 del 1991, n. 559 del 1987, n. 184 del 1986, n. 88 del 1979).

Il diritto ai trattamenti sanitari e' dunque tutelato come diritto fondamentale nel suo "nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, protetta dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignita' umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto" (v., fra le altre, sentenze n. 432 del 2005, n. 233 del 2003, n.252 del 2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999, n. 267 del 1998).

Anche al di fuori di tale nucleo, d'altra parte, il diritto a trattamenti sanitari "e' garantito a ogni persona come un diritto costituzionale condizionato alla attuazione che il legislatore ordinario ne da', attraverso il bilanciamento dell'interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento".

Cio' comporta che, al pari di ogni altro diritto costituzionale a prestazioni positive, il diritto a trattamenti sanitari diviene per il cittadino "pieno e incondizionato" nei limiti in cui lo stesso legislatore, attraverso una non irragionevole opera di bilanciamento fra i valori costituzionali e di commisurazione degli obiettivi conseguentemente determinati sulla falsariga delle risorse esistenti, predisponga adeguate possibilita' di fruizione delle prestazioni sanitaria (cfr., ex plurimis, sentenza n. 432 del 2005, n. 304 e 218 del 1994, n. 247 del 1992, n. 455 del 1990).

Peraltro, proprio in attuazione del principio del supremo interesse della collettivita' alla tutela della salute, consacrata come fondamentale diritto dell'individuo dall'articolo 32 Cost., "l'infermo assurge, nella nuova concezione della assistenza ospedaliera, alla dignita' di legittimo utente di un pubblico servizio, cui ha pieno ed incondizionato diritto, e che gli vien reso, in adempimento di un inderogabile dovere di solidarieta' umana e sociale, da apparati di personale e di attrezzature a cio' strumentalmente preordinati e che in cio' trovano la loro stessa ragion d'essere" (sentenza n. 103 del 1977).

In tale quadro di riferimento, dunque, sarebbe davvero eccentrico continuare a rinvenire nella sola scriminante del consenso dell'avente diritto, di cui all'articolo 50 c.p., la base di semplice "non antigiuridicita'" della condotta del medico; e cio' anche senza evocare le problematiche frizioni che una siffatta, angusta prospettiva, potrebbe comportare rispetto ai limiti tracciati dall'articolo 5 c.c., il cui archetipo e la cui ratio di norma precostituzionale, si saldavano all'esigenza di circoscrivere il diritto dell'individuo di poter fare illimitato "mercimonio" del proprio corpo.

E' infatti significativa, a tal proposito, la circostanza che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 471 del 1990, nella quale ebbe a dichiarare la illegittimita' costituzionale dell'articolo 696 c.p.c., comma 1, nella parte in cui non consentiva di disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale sulla persona dell'istante, ebbe a fornire una ricostruzione del valore costituzionale dell'inviolabilita' della persona come "liberta'", nella quale e' postulata e attratta la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo.

Il che ha consentito alla dottrina di desumere che l'entrata in vigore della Carta costituzionale avrebbe prodotto "modifiche tacite" all'articolo 5 c.c., in particolare attraverso la sostituzione del concetto statico di integrita' fisica, con quello dinamico di salute, di cui all'articolo 32 Cost., riconducendo, poi, il concetto ed il limite dell'ordine pubblico ai principi generali dell'ordinamento, come tali non superabili dal singolo, cosi' come enucleati dalla stessa Carta fondamentale.

Con l'entrata in vigore della Costituzione, pertanto, e con l'affermarsi del principio personalista ivi enunciato, la quaestio relativa alla portata dell'articolo 5 c.c. non andrebbe piu' impostata in termini di "potere" di disporre, ma di "liberta'" di disporre del proprio corpo, stante il valore unitario e inscindibile della persona come tale; e, quindi, in termini di liberta' di decidere e di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che in vario modo coinvolgono e interessano il proprio corpo.

L'attivita' sanitaria, pertanto, proprio perche' destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare - in tal modo - la prescrizione, non meramente enunciativa, dettata dall'articolo 2 della Carta, ha base di legittimazione (fino a potersene evocare il carattere di attivita', la cui previsione legislativa" deve intendersi come "costituzionalmente imposta"), direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell'individuo.

D'altra parte, non e' senza significato la circostanza che l'articolo 359 c.p. inquadri fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessita' proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, rendendo dunque davvero incoerente l'ipotesi che una professione ritenuta, in se', "di pubblica necessita'", abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l'antigiuridicita' di condotte strumentali al trattamento medico, ancorche' attuate secondo le regole dell'arte e con esito favorevole per il paziente.

Se di scriminante si vuol parlare, dovrebbe, semmai, immaginarsi la presenza, nel sistema, di una sorta di "scriminante costituzionale", tale essendo, per quel che si e' detto, la fonte che "giustifica" l'attivita' sanitaria, in genere, e medico chirurgica in specie, fatte salve soltanto le ipotesi in cui essa sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici (e' il caso, come e' noto, degli interventi a carattere sperimentale puro o scientifico, e degli interventi che si risolvano in un trattamento di pura estetica).

Come, quindi, l'attivita' del giudice che adotti, secondo legge, una misura cautelare personale non potra' integrare il delitto di sequestro di persona, e cio' non perche' la sua condotta e' "scriminata" "semplicemente" dall'articolo 51 c.p., ma in quanto direttamente "coperta" dall'articolo 13 Cost., allo stesso modo puo' dirsi "garantita" dalla stessa Carta l'attivita' sanitaria, sempre che ne siano rispettate le regole ed i presupposti.

5. - Dal divieto di trattamenti sanitari obbligatoli, salvo i casi previsti dalla legge, secondo quanto previsto dall'articolo 32 Cost., comma 2, e dal diritto alla salute, inteso come liberta' di curarsi, discende che il presupposto indefettibile che "giustifica" il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole - salvo i casi di necessita' e di incapacita' di manifestare il proprio volere - della persona che a quel trattamento si sottopone.

Presupposto, anche questo, che rinviene base precettiva, e, per cosi' dire, "costitutiva", negli stessi principi dettati dalla Carta fondamentale.

Sul punto, bastera' richiamare una recentissima pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008), nella quale la tematica del consenso informato e' stata scandagliata ex professo, offrendosi dell'istituto del consenso al trattamento medico un quadro definitorio dettagliato e del tutto sintonico con gli approdi cui era gia' pervenuta, come si e' fatto cenno, la giurisprudenza di questa Corte.

Il Giudice delle leggi ha infatti avuto modo di puntualizzare che il "consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'articolo 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che "la liberta' personale e' inviolabile", e che "nessuno puo' essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".

D'altra parte, ha osservato la Corte, anche numerose fonti internazionali prevedono la necessita' del consenso informato del paziente nell'ambito dei trattamenti sanitari.

Cosi', "l'articolo 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176, premesso che gli Stati aderenti "riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione", dispone che "tutti i gruppi della societa' in particolare i genitori ed i minori ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore".

A sua volta, ha rammentato ancora la Corte, "l'articolo 5 della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con Legge 28 marzo 2001, n. 145 (seppure ancora non risulta depositato lo strumento di ratifica), prevede che "un trattamento sanitario puo' essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato"; l'articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, sancisce, poi, che "ogni individuo ha il diritto alla propria integrita' fisica e psichica" e che nell'ambito della medicina e della biologia deve essere in particolare rispettato, tra gli altri, "il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalita' definite dalla legge".

"La necessita' che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico - ha ancora precisato la Corte - si evince, altresi', da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attivita' mediche: ad esempio, dalla Legge 21 ottobre 2005, n. 219, articolo 3 (Nuova disciplina delle attivita' trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati), dalla Legge 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 6 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nonche' dalla Legge 23 dicembre 1978, n. 833, articolo 33 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), il quale prevede che le cure sono di norma volontarie e nessuno puo' essere obbligato ad un trattamento sanitario se cio' non e' previsto dalla legge".

La circostanza, dunque, che il consenso informato trovi il suo fondamento direttamente nella Costituzione, e segnatamente negli articoli 2, 13 e 32 della Carta, pone in risalto - secondo il Giudice delle leggi - la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: "quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se e' vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresi', il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui puo' essere sottoposto, nonche' delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le piu' esaurienti possibili, proprio per garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa liberta' personale, conformemente all'articolo 32 Cost., comma 2.

Discende da cio' - ha concluso la Corte - che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione e' rimessa alla legislazione statale".

6. - I principi enunciati dalla Corte costituzionale, scolpiti, alla luce della pluralita' di fonti che concorrono a rafforzarne gli enunciati, rappresentano, dunque, la ineludibile base precettiva sulla quale poter configurare la legittimita' del trattamento sanitario in genere e della attivita' medico-chirurgica in specie:

con l'ovvia conseguenza che, ove manchi o sia viziato il consenso "informato" del paziente, e non si versi in situazione di incapacita' di manifestazione del volere ed in un quadro riconducibile allo stato di necessita', il trattamento sanitario risulterebbe eo ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare.

Ed e' proprio in quest'ultima prospettiva che assume uno specifico risalto la normativa - non poco evolutasi nel corso del tempo - elaborata dagli organismi professionali in campo di deontologia medica; giacche' da essa, per un verso, si chiarisce la portata del "circuito informativo" che deve collegare fra loro medico e paziente, in vista di un risultato che - riguardando diritti fondamentali - non puo' non essere condiviso; e, dall'altro lato, e' destinata a concretare, sul terreno del diritto positivo, le regole che costituiscono il "prescrizionale" per il medico, e la cui inosservanza e' fonte di responsabilita', non necessariamente di tipo penale.

A seguito, infatti, della Convenzione di Oviedo, anche il codice deontologico, approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri il 3 ottobre 1998, ha proceduto ad una revisione del concetto di consenso informato, elaborando una definizione dello stesso piu' in linea con i parametri interpretativi suggeriti dalla stessa Convenzione.

L'articolo 30 del nuovo codice, infatti, ha previsto che il medico debba fornire al paziente "la piu' idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate".

Dietro esplicita richiesta del paziente, inoltre, il medico dovra' fornire tutte le ulteriori informazioni che gli siano richieste.

L'articolo 32 ha a sua volta stabilito che il medico non debba intraprendere alcuna attivita' diagnostica o terapeutica senza l'acquisizione del consenso informato del paziente; con l'ulteriore necessita' della forma scritta per la manifestazione di tale consenso nell'ipotesi in cui la prestazione da eseguire comporti possibili rischi per l'integrita' fisica del soggetto.

L'articolo 34 ha infine stabilito che il "medico deve attenersi, nel rispetto della dignita', della liberta' e dell'indipendenza professionale, alla volonta' di curarsi, liberamente espressa dalla persona".

Da simili principi, profondamente innovativi rispetto a quelli enunciati nel precedente codice del 1995, si e' tratto, quindi, il convincimento che fosse ormai superata la configurazione della attivita' del medico come promanante da soggetto detentore di una "potesta'" di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-paziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) nel contesto di quella che e' stata definita come una sorta di "alleanza terapeutica"; in sintonia, d'altra parte con una piu' moderna concezione della salute, che trascende dalla sfera della mera dimensione risica dell'individuo per ricomprendere anche la sua sfera psichica.

Simili risultati sono stati poi ribaditi anche nel successivo codice deontologico, approvato dalla medesima Federazione il 16 dicembre 2006, ed il cui articolo 35 conferma, appunto, che il "medico non deve intraprendere attivita' diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente", aggiungendo - quale ulteriore conferma del principio della rilevanza della volonta' del paziente come limite ultimo dell'esercizio della attivita' medica - che "in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volonta' della persona".

Ferma restando, dunque, la sicura illiceita', anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili "contro" la volonta' del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e cio' a prescindere dall'esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell'altrui volere, l'ipotesi controversa, sulla quale occorre soffermarsi, riguarda invece il caso in cui, anche se "in assenza" di consenso espresso allo specifico trattamento praticato, il risultato dello stesso abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente.

E cio' perche', non necessariamente il mancato rispetto delle regole di deontologia medica e degli stessi principi affermati in tema di consenso informato dalla Corte costituzionale e dalla stessa giurisprudenza di legittimita' determinano la automatica applicabilita' delle fattispecie penali che, "tradizionalmente", sono state evocate a tale riguardo.

Occorre, infatti, verificare se quelle fattispecie, pur nell'ambito - e nei limiti - di un percorso ermeneutico che adegui la peculiarita' del caso alla struttura delle norme (certo "pensate" per altri fini), siano o meno suscettibili di "attrarre" nella propria sfera precettiva il "fatto" di cui qui si tratta, senza debordare dai confini entro i quali e' consentita l'interpretazione nel campo del diritto penale sostanziale.

7. - In tale cornice, occorre, dunque, preliminarmente esaminare se - con riferimento alla particolare vicenda che qui rileva - il mutamento del tipo di intervento operatorio, effettuato (in ipotesi) senza che tale variatio fosse stata in precedenza assentita dal paziente, malgrado il relativo esito fausto, integri o meno il delitto di violenza privata che i giudici del doppio grado di merito hanno ritenuto di ravvisare nella specie, riqualificando in tal senso l'originaria imputazione di lesioni personali volontarie aggravate.

Al riguardo, non puo' non rilevarsi come gli orientamenti giurisprudenziali che si sono espressi a favore di tale impostazione hanno scarsamente approfondito il tema, mettendo piuttosto in luce il fatto che l'assenza del consenso comprometterebbe, non il valore della integrita' fisica in se', quanto, piuttosto, quello della libera formazione del volere: con la conseguenza di ritenere per questa via praticabile la soluzione della violenza privata, non tanto sulla base di argomentati rilievi circa la conformita' del "fatto" al tipo normativo, quanto per la ritenuta "ontologica" incompatibilita' che e' dato ravvisare tra l'attivita' medico-chirurgica e il reato di lesioni volontarie.

Assai piu' articolata e', invece, la posizione della dottrina.

A proposito, infatti, del problema della sottoposizione del paziente ad un intervento chirurgico diverso da quello che questi aveva in precedenza autorizzato - paziente che dunque versa in stato di completa incoscienza per effetto della anestesia totale praticatagli - si e' osservato che, a differenza di quanto stabiliva l'articolo 154 del codice Zanardelli (e sulla base del quale era stata elaborata una antica e autorevole dottrina), nell'articolo 610 del codice vigente la violenza non sarebbe piu' posta in rapporto con una perturbazione dell'altrui libera formazione del volere, ma con un comportamento concreto - di azione, di tolleranza o di omissione - non voluto dal soggetto passivo.

Considerato, quindi, che la "violenza" non richiederebbe alcuna mediazione intellettiva da parte di chi la subisce e che essa e' concepibile anche nei confronti di un soggetto incapace di dissentire o consentire - come, appunto, il soggetto anestetizzato - si afferma che il chirurgo, nell'eseguire un intervento diverso da quello consentito, esplicherebbe una energia fisica sul corpo del paziente, per tale via tenendo una condotta "violenta", integrante una vis absoluta, perche' il paziente, per le condizioni nelle quali si trova, non puo' opporre alcuna resistenza.

Tale tesi non puo' essere condivisa.

Al riguardo, va infatti rammentato, anzitutto, che la giurisprudenza di questa Corte ha piu' volte avuto modo di puntualizzare che, ai fini della configurabilita' del delitto di violenza privata, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della liberta' di determinazione ed azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria, che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volonta' altrui, impedendone la libera determinazione (v. in tal senso, Cass., Sez. 5, 18 dicembre 2002, n. 5407/03, De Bortolo; Sez. 5, 17 giugno 2002, n. 30175, P.G. in proc. Rossello; Sez. 5, 16 maggio 2002, n. 24175, P.G. in proc. Cardilli).

E si e' pure puntualizzato, in proposito, che l'elemento oggettivo del reato di cui all'articolo 610 c.p. e' costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa.

L'azione o l'omissione, che la violenza o la minaccia sono rivolte ad ottenere dal soggetto passivo, devono pero' essere determinate, poiche', ove manchi questa determinatezza, si avranno i singoli reati di minaccia, molestie, ingiuria, ma non quello di violenza privata (Cass., Sez. 5, 18 aprile 2000, n. 2480, P.M. in proc. Ciardo).

D'altra parte, versandosi, nella specie, in una ipotesi di violenza personale "diretta", deve convenirsi con quanti ritengono che la nota caratterizzante tale forma di violenza vada ravvisata nella idea della aggressione "fisica"; vale a dire nella lesione o immediata esposizione a pericolo dei beni piu' direttamente attinenti alla dimensione fisica della persona, quali la vita, l'integrita' fisica o la liberta' di movimento del soggetto passivo.

Il che sembra rendere del tutto impraticabile l'ipotesi che siffatti requisiti possano ritenersi soddisfatti nella specifica ipotesi che qui interessa.

La violenza, infatti, e' un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di "qualcosa" di diverso dal "fatto" in cui si esprime la violenza.

Ma poiche', nella specie, la violenza sulla persona non potrebbe che consistere nella operazione; e poiche' l'evento di coazione risiederebbe nel fatto di "tollerare" l'operazione stessa, se ne deve dedurre che la coincidenza tra violenza ed evento di "costrizione a tollerare" rende tecnicamente impossibile la configurabilita' del delitto di cui all'articolo 610 c.p..

D'altra parte, anche il requisito della "costrizione" presenta, con riferimento alla ipotesi del paziente anestetizzato che abbia acconsentito ad altro intervento chirurgico ed alla relativa anestesia, elementi di intrinseca problematicita', che vanno ben a di la' della questione, dibattuta in dottrina, se i delitti contro la liberta' della persona possano essere commessi nei confronti di un soggetto che versi in stato di incoscienza.

Il concetto di costrizione, postula, infatti, il dissenso della vittima, la quale subisce la condotta dell'agente e per conseguenza di essa e' indotta a fare, tollerare od omettere qualche cosa, in contrasto con la propria volonta'.

Nei confronti del paziente anestetizzato pieno iure, perche' nel quadro di un concordato intervento terapeutico, il chirurgo che si discosti da quell'intervento e ne pratichi un altro potra' dirsi commettere un fatto di abuso o di approfittamento di quella condizione di "incapacitazione" del paziente, ma non certo di "costrizione" della sua volonta', proprio perche', nel frangente, difetta quel

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