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La legge sulla procreazione assistita è in parte costituzionalmente illegittima, laddove prevede la produzione di non più di tre embrioni per volta, da impiantare contemporaneamente

La legge sulla procreazione assistita è in parte costituzionalmente illegittima, laddove prevede la produzione di non più di tre embrioni per volta, da impiantare contemporaneamente (perché viola l'articolo 3 della Costituzione sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili) e laddove non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna.



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Corte Costituzionale

Sentenza 8 maggio 2009, n. 151

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Francesco AMIRANTE Presidente

- Ugo DE SIERVO Giudice

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

- Alfonso QUARANTA "

- Franco GALLO "

- Luigi MAZZELLA "

- Gaetano SILVESTRI "

- Sabino CASSESE "

- Maria Rita SAULLE "

- Giuseppe TESAURO "

- Paolo Maria NAPOLITANO "

- Giuseppe FRIGO "

- Alessandro CRISCUOLO "

- Paolo GROSSI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 3, e dell’articolo 14, commi 1, 2, 3 e 4, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promossi dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con sentenza del 21 gennaio 2008 e dal Tribunale ordinario di Firenze con ordinanze del 12 luglio e del 26 agosto 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 159, 323 e 382 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 22, 44 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visti gli atti di costituzione della Warm (World Association Reproductive Medicine), della Federazione Nazionale dei Centri e dei Movimenti per la vita italiani, del Comitato per la tutela della salute della donna, di C. S. A. ed altro, di C. M. ed altro, nonché gli atti di intervento della Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica ed altre e dell’Associazione Cecos Italia, della S.I.S.Me.R. s.r.l. (Società Italiana Studi di Medicina della Riproduzione s.r.l.), della Associazione Hera Onlus, della Associazione Sos Infertilità Onlus e di C. M. ed altro, della Cittadinanzattiva Toscana Onlus e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 31 marzo 2009 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi gli avvocati Gian Carlo Muccio per la Warm e per la S.I.S.Me.R. s.r.l., Isabella Loiodice e Filippo Vari per il Comitato per la tutela della salute della donna, Antonio Baldassarre e Giovanni Giacobbe per la Federazione Nazionale dei Centri e dei Movimenti per la vita italiani, Gian Domenico Caiazza per C. S. A. ed altro, per l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica ed altre e per la Associazione Cecos Italia, Ileana Alesso, Massimo Clara, Maria Paola Costantini, Marilisa D’Amico e Sebastiano Papandrea per C. M. ed altro e per l’Associazione Hera Onlus, per la Associazione Sos Infertilità Onlus e per Cittadinanzattiva Toscana Onlus.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sentenza 21 gennaio 2008, n. 398 (reg. ord. n. 159 del 2008) – con la quale, su rinvio dal Consiglio di Stato, in accoglimento del sesto motivo del ricorso proposto dalla Warm (World Association Reproductive Medicine), ha annullato le disposizioni delle linee guida, approvate con d.m. 21 luglio 2004 – ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 2 e 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui prevede, ai fini della applicazione della procedura della procreazione medicalmente assistita, la formazione di un numero limitato di embrioni, fino ad un massimo di tre, da impiantare contestualmente, e vieta la crioconservazione di embrioni al di fuori delle limitate ipotesi ivi previste.

Il Collegio rimettente ravvisa la rilevanza della questione di costituzionalità nel giudizio a quo nella circostanza che la ulteriore censura, ad opera della medesima ricorrente, delle predette linee guida – per contrasto con l’art. 32, secondo comma, e con gli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui non consentono la crioconservazione degli embrioni al fine dell’impianto se non in ipotesi del tutto eccezionali e ne prevedono la formazione in un numero limitato fino ad un massimo di tre, da impiantare contestualmente – pur proposta avverso un atto a contenuto generale di fonte secondaria, tocca, in realtà, l’art. 14, commi 2 e 3, della legge n. 40 del 2004, di cui le citate norme regolamentari costituiscono letterale e pedissequa espressione, con la conseguenza che la contestazione delle disposizioni delle linee guida non potrebbe che passare attraverso una questione di legittimità costituzionale della norma di legge che ne costituisce il fondamento.

Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente – premesso che la finalità cui è ispirata l’intera legge n. 40 del 2004, secondo quanto si desume, in particolare, dall’art. 1, è quella di assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti nella procedura di procreazione assistita, compreso il concepito, e che, ai sensi dell’art. 4, comma 2, lettera a), nel fare ricorso alle relative tecniche, è necessario ispirarsi al principio della gradualità, per evitare interventi aventi un grado di invasività tecnica e psicologica più gravoso (di quanto necessario) per i destinatari – ritiene che, non fornendo la legge n. 40 una definizione del termine «embrione», con esso si intenda fare riferimento ad un significato il più ampio possibile, vale a dire alla situazione che si determina a partire dalla fecondazione dell’ovulo.

Svolte tali considerazioni preliminari, il Collegio rimettente richiama l’art. 14 della legge n. 40 del 2004, intitolato «Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni», ove, al comma 2, si stabilisce che le tecniche di produzione degli embrioni «non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» e, al comma 3, si afferma che nel caso in cui «il trasferimento nell’utero degli embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione è consentita la crioconservazione degli embrioni stessi fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile».

Rileva il giudice a quo che la preoccupazione manifestata dalle due disposizioni citate sembra essere essenzialmente quella di pervenire ad un unico impianto allo scopo precipuo di evitare la crioconservazione che sarebbe, invece, indispensabile nel caso in cui dovesse essere prodotto un numero di embrioni superiore a quello effettivamente impiantabile, ed in ogni caso superiore a tre: la ragione di tale previsione risiede, probabilmente – avverte il rimettente – nella circostanza che con la tecnica della crioconservazione molti embrioni possono andare perduti.

Detta disciplina sembra al rimettente contrastare con l’art. 3 Cost. per violazione del canone di ragionevolezza, ed ancora con il medesimo art. 3 per quanto attiene alla parità di trattamento, oltre che con l’art. 32 Cost. nella misura in cui consente pratiche che non bilancerebbero adeguatamente la tutela della salute della donna con quella dell’embrione.

Ed invero, osserva il giudice a quo, ammettere – come ha fatto la legge n. 40 del 2004, all’art. 14, comma 2 – la possibilità di un impianto di più embrioni (fino ad un massimo di tre), nella consapevolezza che alcuni di essi potranno disperdersi, significa accettare che per una concreta aspettativa di gravidanza è necessario procedere ad un impianto superiore all’unità e accettare, altresì, che alcuni di tali embrioni, o anche uno solo, oltre a quello che dà luogo ad una gravidanza, possano andare dispersi.

Nelle situazioni appena descritte, la legge consente che la tutela dell’embrione affievolisca per lasciare spazio al fine perseguito, che è quello di consentire il ricorso ad una tecnica di procreazione medicalmente assistita garantita da concrete speranze di successo.

Ora, se finalità della legge è quella di individuare un giusto bilanciamento tra la tutela dell’embrione e quella dell’esigenza di procreazione, sarebbe irragionevole la previsione che impone la produzione di embrioni in numero tale da rendere possibile l’effettuazione di un unico impianto e comunque in numero non superiore a tre, così come il sostanziale divieto di crioconservazione, ammessa nella sola ipotesi di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna insorto successivamente alle fecondazione.

La legge n. 40 del 2004 non avrebbe dovuto escludere la possibilità di consentire l’accertamento delle molte variabili che accompagnano la vicenda della procreazione assistita, quali ad esempio la salute e l’età della donna interessata e la possibilità che ella produca embrioni non forti, intendendo con ciò non quelli che sono capaci di produrre una «razza migliore» – idea espressamente e giustamente vietata dalla legge n. 40 del 2004 – ma semplicemente quelli che si possono rivelare più idonei a realizzare il risultato della gravidanza e della procreazione.

Né rileverebbe, in contrario, la previsione della variabilità da uno a tre degli embrioni impiantabili, sulla scorta del comma 2 dell’art. 14 della legge n. 40 del 2004, in quanto detta previsione tenderebbe ad assicurare concrete possibilità di gravidanza alle persone di medie condizioni fisiche, mentre non fornirebbe la medesima possibilità nei confronti delle donne non giovani o di quelle che non riescono a produrre contestualmente tre embrioni di buona qualità nei sensi prima precisati. E in ciò si rivelerebbe, inoltre, la disparità di trattamento dovuta alla circostanza che situazioni diverse sarebbero sottoposte allo stesso trattamento predeterminato per legge.

La predeterminazione del numero degli embrioni producibili e successivamente impiantabili, imposta dalla norma in modo aprioristico e a prescindere da ogni concreta valutazione del medico curante sulla persona che intende sottoporsi al procedimento di procreazione medicalmente assistita, non sarebbe in linea con quel bilanciamento di interessi che la legge n. 40 del 2004 sembrerebbe voler perseguire.

Il Collegio rimettente lamenta, altresì, il vulnus al diritto alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione. Infatti, la limitazione del numero degli embrioni producibili e contestualmente impiantabili e il divieto della crioconservazione degli stessi – se non nella circoscritta ipotesi prima descritta – comporterebbero che nell’ipotesi, tutt’altro che improbabile, di un tentativo non andato a buon fine, sia necessario assoggettare la donna ad un successivo trattamento ovarico, ossia ad una pratica medica che comporta in sé il rischio della sindrome da iperstimolazione ovarica e che trova nella legge, e non in esigenze di carattere medico, il suo fondamento. Pratica che, a prescindere da ogni valutazione delle conseguenze sul piano fisico e psicologico della paziente ad essa sottoposta, sarebbe in contrasto con gli stessi principi ispiratori della legge in esame, ed in particolare con quello della «minore invasività», espressamente enunciato nell’art. 4, comma 2, lettera a).

1.1. – Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita la Warm, parte del giudizio a quo, che ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale sollecitata dal Collegio rimettente, sviluppando argomentazioni adesive a quelle di cui all’atto introduttivo del giudizio di costituzionalità.

In particolare, con riferimento al ritenuto contrasto delle norme impugnate con l’art. 32 Cost., si rileva nell’atto di costituzione che il limite, imposto dalla legge n. 40 del 2004, di tre ovociti inseminabili si pone in contrasto con la tutela della salute della donna, riducendo irragionevolmente le possibilità di successo del trattamento di procreazione medicalmente assistita, impedendo al biologo di selezionare, tra quelli formatisi, gli embrioni più idonei a svilupparsi in un feto e di crioconservare quelli in eccesso per un futuro trasferimento, e costringendo la donna a sottoporsi a nuovi interventi di stimolazione ovarica e di prelievo chirurgico degli ovociti. D’altra parte, si evidenzia nella memoria di costituzione il rischio opposto, quello, cioè, di successo del processo di fecondazione, con possibile insorgenza di una gravidanza plurigemellare, che, a sua volta, comporta rischi per la salute della donna e del concepito.

Per altro verso, la Warm sottolinea che la normativa in questione elimina la discrezionalità della valutazione del medico – unico ad essere in grado di individuare il miglior bilanciamento tra rischi e benefici per la donna e per l’embrione, nel momento in cui si trovi ad applicare il trattamento sanitario di fecondazione assistita – in violazione dell’art. 3 Cost., per la discriminazione che si opererebbe tra le donne in buona salute, per le quali maggiore è la facilità di attecchimento degli embrioni, e quelle che non lo sono per età o condizioni fisiche.

Infine, la Warm ravvisa nelle disposizioni censurate un vizio di irragionevolezza interna, sotto il profilo della incoerenza teleologica, per essere i mezzi predisposti incongrui rispetto alla ratio legis, per il fatto che dette disposizioni, nel consentire la formazione, ed il contestuale unico impianto, per il divieto di crioconservazione, del numero massimo di tre embrioni, ammettono, ed anzi auspicano, che solo uno di essi attecchisca, con conseguente dispersione degli altri, derogando, in tal modo, all’obbligo di tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti nella procedura.

La irragionevolezza emergerebbe, altresì, nella comparazione con la disciplina della interruzione volontaria della gravidanza, poiché la tutela dell’embrione, cui si ispira il divieto di crioconservazione e di soppressione di cui all’art. 14 della legge n. 40 del 2004, scomparirebbe una volta effettuata con successo la inseminazione, essendo consentito l’aborto, almeno fino al novantesimo giorno di gravidanza.

Infine, sarebbe irrazionale la previsione del numero massimo di tre embrioni impiantabili, in quanto privo di alcun supporto medico-scientifico.

L’associazione costituita richiede, altresì, la dichiarazione di illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 14 della legge n. 40 del 2004, che prescrive il divieto di soppressione e crioconservazione degli embrioni, la cui sopravvivenza, in presenza dell’accoglimento della questione di legittimità costituzionale dei commi 2 e 3 dello stesso articolo, determinerebbe una estensione dei divieti, senza ammettere alcuna possibilità di deroga.

1.2. – Nel giudizio innanzi alla Corte si sono altresì costituite la Federazione Nazionale dei Centri e dei Movimenti per la vita italiani ed il Comitato per la tutela della salute della donna – intervenuti ad opponendum nel giudizio principale – concludendo entrambi per la inammissibilità o la infondatezza della questione.

La prima ha eccepito la inammissibilità della questione, sotto il profilo del difetto di rilevanza, per non essersi il TAR rimettente pronunciato sulla carenza di interesse diretto della Warm nel giudizio, avendo erroneamente ritenuto che sulla relativa questione si fosse formato il giudicato, come stabilito dal Consiglio di Stato in sede di appello. Il Collegio rimettente avrebbe, inoltre, preso in considerazione alcuni motivi del ricorso della Warm respinti nella precedente sentenza e non riproposti.

Nel merito, la Federazione costituita ha rilevato che il limite massimo di tre embrioni è stabilito dalla legge n. 40 del 2004 ai fini della tutela della salute della donna e degli stessi embrioni, avuto riguardo alle difficoltà connesse alle gravidanze multiple. In sostanza, la legge n. 40 attuerebbe un ragionevole bilanciamento tra l’interesse della coppia alla genitorialità e il diritto alla vita del concepito, espressamente affermato dall’art. 1 della legge stessa. Del resto, anche la tutela della salute della donna sarebbe meglio garantita da una stimolazione "soffice" che non da una stimolazione forte, effettuata allo scopo di avere a disposizione un numero abbondante di ovociti. Infine, anche la discrezionalità del medico dovrebbe rispettare le regole derivanti dalla esigenza di tutela dei diritti umani fondamentali.

Il Comitato per la tutela della salute della donna ha, a sua volta, eccepito la inammissibilità della questione in quanto sollevata con sentenza anziché con ordinanza, in violazione delle norme sul processo costituzionale. Il TAR rimettente – si rileva nella memoria – da un lato ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, dall’altro ha definito in parte il giudizio con decisione impugnabile innanzi al Consiglio di Stato.

Altro profilo di inammissibilità della questione viene adombrato nel mutamento del quadro normativo per effetto dell’intervento delle nuove linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita, di cui al d.m. 11 aprile 2008, che avrebbe determinato la estinzione del giudizio amministrativo e, con esso, travolto il giudizio di costituzionalità.

Nel merito, il predetto Comitato ha insistito per la infondatezza della questione, rilevando che l’affievolimento del diritto alla vita dell’embrione non sarebbe materia disponibile da parte del legislatore ordinario, avuto riguardo al fondamento costituzionale di tale diritto, e che, inoltre, la limitazione a tre del numero massimo di embrioni impiantabili corrisponderebbe al numero massimo di embrioni suscettibili, secondo la scienza medica, di dar luogo alla gravidanza.

1.3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso, a sua volta, per la inammissibilità della questione, in quanto sollevata con sentenza, e, nel merito, per la sua infondatezza. Al riguardo, osserva l’Autorità intervenuta che essa si risolve in una critica alle scelte discrezionali del legislatore, che ha, invece, a suo avviso, effettuato una ragionevole comparazione tra l’interesse della donna al buon esito della procedura di procreazione medicalmente assistita e la tutela dell’embrione.

1.4. – Sono altresì intervenute l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, l’Associazione Cecos Italia e la S.I.S. Me.R. s.r.l., che hanno concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate dal T.A.R., con argomentazioni adesive ai contenuti del provvedimento di rimessione della questione.

1.5. – Hanno, quindi, depositato memorie le parti costituite, Warm e Federazione Nazionale dei Centri e dei Movimenti per la Vita italiani (che ha anche dubitato della sussistenza del requisito della incidentalità della questione sollevata) ed il Comitato per la tutela della salute della donna, insistendo nelle rispettive conclusioni. Quest’ultimo, in particolare, ha fatto presente che, nonostante la rimessione degli atti alla Corte, il giudizio a quo è proseguito, essendosi svolta una camera di consiglio a seguito della istanza di correzione di errore materiale proposta dalla Warm, nel senso di estendere la censura anche al comma 1 dell’art. 14 della legge n. 40 del 2004, ed essendo stata emessa una pronuncia, la sentenza n. 7956 del 2008, con la quale il TAR Lazio ha fornito una interpretazione autentica della precedente decisione con la quale aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale in esame. In subordine, il predetto Comitato ha chiesto alla Corte di restituire gli atti al giudice a quo perché valuti nuovamente la rilevanza della questione alla luce del sopravvenuto decreto del Ministro della salute dell’11 aprile 2008, che ha adottato le nuove linee guida in materia di procreazione assistita; e di valutare la sopravvenuta irrilevanza della questione per effetto dell’abrogazione delle precedenti linee guida.

Hanno depositato memoria, altresì, l’Avvocatura generale dello Stato, che ha insistito per la inammissibilità e l’infondatezza della questione, l’Associazione Cecos Italia e l’Associazione Luca Coscioni, oltre alle Associazioni Amica Cicogna Onlus, Madre Provetta Onlus, Cerco un bimbo, L’altra Cicogna Onlus e l’Associazione www.unbambino.it, che hanno, invece, concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale.

1.6. – Nell’imminenza della odierna udienza pubblica, la difesa della Warm ha depositato memoria, nella quale vengono analizzati i dati del Registro europeo relativi ai trattamenti effettuati nell’anno 2005, recentemente pubblicati a cura della Società Europea di Procreazione Medicalmente Assistita (ESHRE), che evidenziano il pregiudizio alla salute della donna, ed anche dell’embrione, che comporta l’applicazione della legge n. 40 del 2004, con particolare riferimento al divieto di formare più di tre embrioni ed al contestuale obbligo di trasferirli tutti, senza possibilità di crioconservarli.

Ha depositato memoria la Federazione Nazionale dei Centri e dei Movimenti per la vita italiani, che ha ribadito le conclusioni già rassegnate, ponendo in particolare evidenza la mancata censura dell’art. 1 della legge n. 40, che, nel definire il concepito come soggetto titolare di diritti, costituisce la base dell’intero impianto legislativo, e sottolineando che l’obiettivo, costituzionalmente obbligato, di evitare nel massimo grado possibile la distruzione di embrioni umani senza impedire la procedura di procreazione medicalmente assistita, è perseguito dal legislatore con scelte politiche ragionevoli.

Nella memoria si pone altresì in rilievo che la stimolazione "dolce", sufficiente per produrre un numero limitato di ovociti, tale da consentire la formazione di un numero massimo di tre embrioni, metterebbe al riparo dai rischi della iperstimolazione per la salute della donna.

Quanto all’argomento delle differenze di disciplina tra la legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), e la legge n. 40 del 2004, rileva la Federazione intervenuta la erroneità del paragone tra la situazione della donna la cui salute sia in pericolo a causa di una gravidanza non desiderata e quella della coppia che abbia richiesto l’applicazione della procedura di procreazione medicalmente assistita, tenuto anche conto della esigenza di evitare, nel primo caso, il ricorso all’aborto clandestino.

In definitiva, si osserva nella memoria, posto che l’inizio della vita si verifica con la formazione dell’embrione, la procreazione in vitro è fortemente desiderata e la decisione di effettuarla è frutto di una determinazione la cui maturità e fermezza è controllata anche dalle strutture sanitarie attraverso il colloquio preliminare previsto dall’art. 6 della legge in esame. La decisione della coppia che chiede di essere ammessa alla procreazione medicalmente assistita è anche una forma di assunzione di responsabilità verso il nuovo essere umano.

Anche il Comitato per la tutela della salute della donna ha depositato una memoria, nella quale ribadisce i rilievi di inammissibilità già svolti, e, nel merito, insiste per la infondatezza della questione sollevata dal TAR del Lazio, evidenziando il bilanciamento dei diritti di tutti i soggetti coinvolti nella PMA perseguito dalla legge n. 40 del 2004 e sottolineando i dati contenuti nell’ultima Relazione del Ministro della salute al Parlamento sullo stato di attuazione della legge, in cui si osserva che, dopo l’entrata in vigore della legge stessa, che limita il numero di embrioni che può essere creato per ogni ciclo di procreazione artificiale, si è verificato un crollo delle complicanze da iperstimolazione ovarica.

Si rileva, nella memoria, che sono la stessa scienza e tecnica a richiedere ormai una limitazione – spesso anche inferiore ai tre embrioni – al fine di garantire il buon esito dell’impianto. Al riguardo, si richiamano le linee guida elaborate dalla Human Fertilisation and Embriology Authority (HFEA), che sovrintende all’applicazione delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita nel Regno Unito, secondo le quali è opportuno procedere al trasferimento di non più di due embrioni nella generalità dei casi e di tre embrioni, al massimo, solo nel caso di donne ultraquarantenni.

Sulla questione della irrevocabilità del consenso all’impianto di embrioni, premesso che l’impianto è incoercibile e che la violazione dell’obbligo non comporta sanzioni a carico della donna, si rileva nella memoria che l’unica ragione che può indurre la donna, dopo aver deciso di sottoporsi alla tecnica di PMA, a modificare il proprio intendimento è la volontà di ricorrere alla procreazione assistita per selezionare gli embrioni migliori, scartando gli altri. In sostanza, con la sottoposizione della questione alla Corte costituzionale, si chiederebbe la introduzione di una soluzione eugenetica, la quale, tra l’altro, determinerebbe una completa deregulation nel settore della procreazione artificiale.

2. – Il Tribunale ordinario di Firenze, con ordinanza emessa il 12 luglio 2008 (r.o. n. 323 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 2, della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 3 e 32, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui impongono il divieto di crioconservazione degli embrioni soprannumerari, la necessarietà della creazione di un numero massimo di tre embrioni nonché dell’unico e contemporaneo impianto degli stessi; e dell’art. 6, comma 3, ultima parte, della stessa legge per contrasto con l’art. 32, secondo comma, Cost., laddove prevede la irrevocabilità del consenso da parte della donna all’impianto in utero degli embrioni creati.

Si premette nell’ordinanza che C.S.A. e P.G., dopo avere ottenuto, in via d’urgenza, l’autorizzazione dallo stesso Tribunale a procedere alla diagnosi genetica preimpianto con crioconservazione dei residui embrioni risultati affetti dalla patologia della esostosi, da cui la donna era affetta, avevano acquisito relazioni mediche dalle quali si evidenziava che la previsione delle modalità predeterminate di esecuzione della PMA di cui all’art. 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004 erano irragionevoli ed inique nel caso concreto, in relazione alla salute della ricorrente e alla possibilità di creazione di embrioni malati pari a cinquanta per cento sicché, nella specie, il numero di embrioni necessari ad assicurare una adeguata percentuale di successo era pari a sei.

A seguito del rifiuto delle responsabili del Centro cui la coppia si era rivolta, motivato dal contrasto della richiesta con l’art. 14 della citata legge, i due si erano rivolti al giudice della cautela, chiedendo, tra l’altro, che questi autorizzasse il Centro a produrre un numero di embrioni adeguato a scontare il «rischio genetico» e «diagnostico» del caso concreto, non inferiore a sei unità, eccependo anche la illegittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 2, della legge n. 40 del 2004.

Il Tribunale adìto, premessa l’ammissibilità della proposizione della questione di legittimità costituzionale in sede cautelare, ha rilevato che l’assetto voluto dalla legge, con riguardo all’obbligo della creazione di un numero massimo di tre embrioni da impiantarsi con unico contemporaneo impianto ed il conseguente divieto di crioconservazione degli embrioni (c.d. embrioni sovrannumerari), crea grave nocumento alla salute della donna e, nello stesso tempo, non garantisce il fine che la legge medesima si propone come programmatico («favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana...»: art. 1, legge n. 40 del 2004), fornendo soluzioni contraddittorie e non ottimali. Infatti – osserva il giudice a quo – la legge impone, in caso di insuccesso, la necessità di procedere a plurime stimolazioni ovariche, in quanto prevede la esaustività di ciascun ciclo di produzione ed impianto, non consentendo la crioconservazione degli embrioni per successivi impianti, e comportando seri problemi per la salute della donna che si deve sottoporre a trattamenti ormonali plurimi, con conseguenze mediche accertate.

Di qui la lesione dell’art. 32, primo comma, Cost., sotto il profilo del diritto della salute della donna, pur nel bilanciamento con quella dell’embrione richiesto dall’art. 1 della legge n. 40 del 2004, atteso che, al di là della definizione giuridica del concetto di concepito, deve ritenersi, ad avviso del giudice a quo, la prevalenza del diritto alla salute dell’essere persona rispetto a ciò che ancora persona non è.

Si ritiene altresì leso il principio di ragionevolezza, estrinsecazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., in quanto si trattano in unico modo posizioni soggettive del tutto dissimili e che necessiterebbero di un approccio di cura diverso. Ridurre la fecondazione assistita ad un modello unico, valido per tutte le situazioni concrete che si presentano alla attenzione dei medici, equivarrebbe ad obliterare completamente quelle che sono le acquisizioni scientifiche, le quali indicano come i plurimi fattori che afferiscono alla coppia genitoriale incidono sulla scelta del trattamento da attuare, che quindi deve essere lasciato (come, d’altra parte, tutti i trattamenti medici, salvo sempre il consenso informato) alla discrezionalità del medico, che è il depositario del sapere tecnico del caso concreto.

La tecnica prescelta – rileva il rimettente – è irragionevole per la imposizione di una sola possibilità di impianto con un numero massimo di tre embrioni, in assenza di ogni valutazione dei vari fattori che accedono al singolo caso concreto e che ne condizionano l’esito (età, malattie, tipo di sterilità etc.) e comporta un pericolo ulteriore per la salute della donna e del feto conseguente all’aumento dei parti bi o plurigemellari.

Il rimettente deduce, altresì, la violazione dell’art. 32, secondo comma, Cost., che vieta i trattamenti sanitari obbligatori se non imposti per legge nel rispetto della dignità della persona umana. La predeterminazione di un protocollo sanitario unico, non configurato sulle necessità di cura della singola persona e sull’adesione allo stesso, comporterebbe la sottoposizione della persona a trattamento sanitario non voluto e non volto alla tutela della salute sua propria o della collettività. L’unica eccezione alla obbligatorietà dell’impianto che la legge n. 40 contempla è posta dall’art. 14, comma 2, cit., laddove si sospende il trasferimento nell’utero in caso di malattia della madre, non prevedibile al tempo della fecondazione e per il solo periodo necessario al superamento di tale stato di malattia. Ciò comporta anche, secondo il giudice a quo, un vulnus all’art. 32, secondo comma, Cost., ad opera della norma dettata dall’art. 6 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui sancisce la irrevocabilità del consenso ad accedere alle tecniche di fecondazione assistita dal momento della fecondazione dell’ovulo, con riferimento alla posizione della donna cui deve essere praticato l’impianto.

2.1. – Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti C.S.A. e P.G., parti private nel giudizio cautelare, concludendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate.

2.2. – Ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha dedotto la inammissibilità della questione in quanto sollevata nel corso di un procedimento cautelare, e, nel merito, ha concluso per la infondatezza, trattandosi di materia riservata alla discrezionalità legislativa.

2.3. – E’altresì intervenuta l’Associazione Sos Infertilità Onlus, assumendo di avere diritto di far valere le proprie ragioni dinanzi alla Corte in quanto la eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale si rifletterebbe direttamente sull’attività stessa dell’associazione che, come da statuto, ha per scopo quello della cura e dell’assistenza alle coppie infertili, e sostenendo la illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, per violazione degli artt. 3, 31 e 32 Cost.

2.4. – Analoghe considerazioni sono svolte da M.C. e G.R., intervenuti sulla base del convincimento di avere diritto di far valere le proprie ragioni nel giudizio, in quanto la eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale si rifletterebbe direttamente sulla loro condizione e sul processo dagli stessi instaurato innanzi al Tribunale ordinario di Firenze, con provvedimento di urgenza in ordine al quale è stata sollevata questione di legittimità costituzionale (ord. n. 382 del 2008); nonché dall’Associazione Hera Onlus, avente, fra i propri scopi statutari, il sostegno e la tutela delle coppie infertili.

2.5. – Infine, sono intervenute, fuori termine, l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, oltre alle Associazioni Amica Cicogna Onlus, Madre Provetta Onlus, Cerco un bimbo, L’altra Cicogna Onlus e l’Associazione www.unbambino.it, che hanno concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale.

2.6. – Nella imminenza della udienza, ha depositato memoria la difesa di C.S.A. e P.G., insistendo nelle conclusioni rassegnate. Si sottolinea, in particolare, nella memoria, per un verso, che il bilanciamento tra interesse alla tutela della salute della donna e quello alla tutela dell’embrione viene operato, nella legge n. 40 del 2004, in termini di contraddittorietà rispetto all’assetto dei valori della Costituzione come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale sin dalla sentenza n. 27 del 1975; per l’altro, che tra gli obiettivi perseguiti dalla legge in esame e le soluzioni predisposte allo scopo esiste una contraddittorietà che rischia di compromettere il risultato finale della soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità. Infatti, la opzione in favore di un modello terapeutico unico ed inderogabile, normativamente definito in modo tassativo, e non configurato sulle necessità di cura della singola persona, determina – si rileva nella memoria – una totale insensibilità alle esigenze poste dalla situazione concreta, con conseguente inidoneità al raggiungimento dei fini che la legge stessa si propone, ivi compresa la tutela dell’embrione. L’operatore sanitario, costretto ad adottare un protocollo uniforme a prescindere dalle caratteristiche della fattispecie concreta, viene esautorato di qualsiasi autonomia tecnica per la predisposizione della soluzione terapeutica adeguata alla situazione patologica cui è chiamato a dare risposta, in contrasto anche con principi e norme cogenti per il professionista nonché con le buone pratiche mediche, e, quindi, con il codice di deontologia medica.

Nella memoria si sottolinea, poi, che, sulla idoneità di scelte generali e di principio, tassativamente predeterminate dal legislatore, a regolare vicende attinenti a status e diritti fondamentali inerenti alla sfera personale dell’individuo, la giurisprudenza costituzionale si è ripetutamente pronunciata, evidenziando la irragionevolezza di soluzioni che prescindano dalla considerazione delle specificità del caso concreto. Al riguardo, si richiama la giurisprudenza in tema di adozione, con riguardo alla deroga al limite di età tra adottante e adottato.

Ulteriore elemento di irragionevolezza della normativa censurata si ritiene possibile individuare nel mutato contesto normativo (per effetto di alcune decisioni di merito e dell’approvazione delle nuove linee guida emanate in tema di procreazione assistita dal ministro della salute con d.m. 11 aprile 2008), circa l’ammissibilità della diagnosi preimpianto. Tale riconoscimento non avrebbe alcuna utilità pratica se la coppia fosse comunque vincolata all’obbligo di un unico e contemporaneo impianto di non più di tre embrioni e al divieto di crioconservazione.

Infine, nella memoria si individuano le ragioni della necessità di sottoporre a vaglio di legittimità costituzionale – come il rimettente ha fatto – anche l’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004, nella parte relativa alla irrevocabilità del consenso all’impianto una volta avvenuta la fecondazione, per esigenze di coerenza sistematica rispetto ad un assetto normativo che, con una censura limitata al solo art. 14, commi 1 e 2, potrebbe risultare comunque viziato da una disarmonia interna. Al riguardo, si rileva, in particolare, che, se pure la disposizione di cui si tratta pone un comando privo di specifica sanzione per l’ipotesi di violazione da parte della paziente, tuttavia, nell’ambiguità della legge, si finisce per rimettere all’interprete la eventuale scelta rispetto alla decisione di adottare misure coattive per far rispettare il comando violato.

2.7. – Sono state, infine, depositate memorie nell’interesse delle Associazioni Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, Amica Cicogna Onlus, Madre Provetta Onlus, Cerco un bimbo, L’altra Cicogna Onlus e Associazione www.unbambino.it.

3. – Il Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato, con ordinanza del 26 agosto 2008 (r.o. n. 382 del 2008), questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004, limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», per contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 Cost.; dell’art. 14, comma 3, della stessa legge, limitatamente alle parole «Qualora il trasferimento nell’utero degli embrioni non risulti possibile», «di forza maggiore», «non prevedibile al momento della fecondazione», «fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile», per contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.; dell’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non contiene, in fine, le parole «e, dalla donna, anche successivamente», per contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.; dell’art. 14, comma 4, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.

La questione è stata sollevata nel procedimento su ricorso ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. di due coniugi infertili ed affetti da malattie genetiche i quali, dopo aver fatto, ripetutamente ed inutilmente, ricorso alle tecniche di fecondazione assistita, avevano richiesto in via di urgenza che venisse emesso l’ordine di eseguire a loro favore la c.d. fecondazione in vitro, previa diagnosi pre-impianto, e che si provvedesse a trasferire nell’utero della signora C. gli embrioni creati in base alle direttive impartite dalla medesima paziente ed applicando le procedure dettate dalla scienza medica per assicurare il miglior successo della tecnica in considerazione dell’età e dello stato di salute della paziente, tenuto anche conto del rischio di gravidanze plurigemellari pericolose, provvedendo altresì a crioconservare per un futuro impianto gli embrioni risultati idonei e che non fosse possibile trasferire immediatamente.

Il rimettente, negata la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata delle norme di cui si tratta, per il carattere inequivocabile del dato normativo, ha motivato la rilevanza della questione nel giudizio a quo alla stregua della considerazione che le disposizioni della legge n. 40 del 2004 costituiscono chiaro ostacolo all’accoglimento delle richieste formulate dai ricorrenti. In proposito, rilevato che tali richieste hanno come presupposto la legittimità della c.d. diagnosi preimpianto – secondo il giudice a quo da considerare perfettamente consentita, con efficacia erga omnes, dopo la pronuncia del TAR del Lazio 21 gennaio 2008, n. 398 e dopo la emanazione delle nuove Linee guida di applicazione della legge n. 40 del 2004 – osserva il giudice a quo che questa Corte, con ordinanza n. 369 del 2006, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui faceva divieto di sottoporre l’embrione, prima dell’impianto, a diagnosi per l’accertamento di eventuali patologie, sul presupposto della necessità di verificare la costituzionalità anche di altri articoli della stessa legge (segnatamente della disciplina della «revocabilità del consenso solo fino alla fecondazione dell’ovulo», del «divieto di creazione di embrioni in numero superiore a quello necessario per un unico impianto, obbligatorio quindi per tutti gli embrioni», del «divieto di crioconservazione e di soppressione di embrioni»), non impugnati. Ne deduce il giudice a quo l’inutilità dell’affermazione del diritto dei ricorrenti a procedere a diagnosi preimpianto laddove non svincolati dall’obbligo di unico e contemporaneo impianto di non più di tre embrioni, dal divieto di crioconservazione degli stessi al di fuori della rigida ipotesi di cui all’art. 14, comma 3, della legge, e dall’irrevocabilità del consenso al trattamento di PMA allorquando sia avvenuta la fecondazione dell’ovulo. Vi è, secondo il rimettente, rilevanza delle dedotte questioni anche in ordine al periculum in mora, posto che i tempi di un giudizio ordinario (sicuramente più lunghi di un procedimento cautelare ante causam) costituiscono fattore di per sé idoneo a pregiudicare l’esigenza di tutela.

In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che la normativa di cui al comma 2 dell’art. 14, laddove impone la creazione di non più di tre embrioni ai fini di un loro unico e contemporaneo impianto, sia in contrasto con i precetti costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost., in quanto determina la reiterata sottoposizione della donna a trattamenti che, in quanto invasivi e a basso tasso di efficacia, sarebbero lesivi del principio di rispetto della dignità umana, in spregio a quanto previsto dall’art. 2 Cost. La disposizione in esame verrebbe, inoltre, a creare disparità di trattamento fra situazioni che eguali fra loro non sono e richiedono trattamenti differenziati, in violazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., oltre a violare il diritto fondamentale alla salute proclamato dall’art. 32 della Cost., determinando il forte rischio di reiterata sottoposizione della donna a trattamenti ad alto tasso di pericolosità per la sua salute fisica e psichica.

Il giudice a quo si chiede quale debba essere, una volta ammessa la c.d. diagnosi preimpianto, la sorte del divieto di crioconservazione e soppressione degli embrioni, la cui ragione di esistenza era sicuramente più che coerente con il preesistente divieto, che imponeva la sequenza creazione-trasferimento-impianto dell’embrione, in una situazione di irrevocabilità del consenso dalla donna fornito alla PMA, a tutto vantaggio di una situazione che lo stesso legislatore definisce di «tutela dell’embrione».

Secondo il rimettente, peraltro, la assoluta libertà di produzione sovrannumeraria di embrioni determinerebbe, a sua volta, una situazione che, pur se inserita all’interno dei ragionevoli presupposti normativi di cui agli artt. 1, 4 e 5 della legge, rischia di essere pur sempre foriera di problematiche non scevre da implicazioni di natura etica, giuridica, ed anche gestionale ed economica (solo se si pensa, ad es., che le Linee guida, sia nella loro versione originaria sia in quella attuale, prevedono che «gli embrioni che verranno definiti in stato di abbandono saranno crioconservati in maniera centralizzata con oneri a carico dello Stato»): donde la limitazione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge n. 40 del 2004 nel senso sopra indicato.

A tali censure si aggiunge quella rivolta all’art. 6, comma 3, della legge n. 40, che, a corollario delle norme precedenti, prevede che la volontà di sottoposizione al trattamento di PMA non possa essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal medesimo comma dopo che sia avvenuta la fecondazione dell’ovulo. I parametri di costituzionalità sono anche in tal caso gli artt. 2, 13 e 32 (quest’ultimo in tutta la sua estensione) Cost., cui si aggiunge l’art. 3 Cost., con la indicazione, quale tertium comparationis, del successivo comma 4, che espressamente attribuisce in ogni tempo al medico responsabile della struttura il potere di decidere di non procedere alla procreazione medicalmente assistita per motivi di ordine medico-sanitario, che nel loro ambito non possono non annoverare anche quelli più specificamente inerenti la salute fisica e psichica della donna.

L’intervento sull’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004 viene richiesto al fine di dare coerenza ad un sistema normativo che, con una censura limitata (per le ragioni sopra esposte) ai soli commi 2 e 3 dell’art. 14, permarrebbe comunque viziato da una sua disarmonia interna (evidenziata dalla Corte costituzionale, nella ordinanza n. 369 del 2006, anche con riferimento alla norma ora in questione). Se il sistema normativo che si chiede scaturisca dalla ottenuta liceità della diagnosi preimpianto e dalla richiesta censura di costituzionalità è improntato sulla superiorità riconosciuta alla tutela della salute della donna (sancita dalla legge n. 194 del 1978 sulla interruzione volontaria della gravidanza e che non può essere vanificata da una normativa come quella in esame), è allora conseguenza necessaria che, per ragioni di coerenza sistematica, sia la sola donna ad essere legittimata alla revoca del consenso al trattamento di PMA.

A conferma di quanto sopra, vi sarebbe la chiara disposizione (sia pure non di rango legislativo) contenuta in ciascuna delle versioni delle Linee guida (sezione «Crioconservazione degli embrioni: modalità e termini») a mente della quale «la donna ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati».

Infine, viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 4, della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione.

La disposizione in questione, secondo il rimettente, non è di immediata chiarezza: in particolare, non sarebbe chiaro se essa sia una norma sulla interruzione volontaria della gravidanza (come si evincerebbe dal ricorso al termine «gravidanze» e al richiamo alla legge n. 194 del 1978) – nel senso, cioè, di non impedire una interruzione volontaria della gravidanza riguardo a parte soltanto degli embrioni coinvolti (come rimedio ex post a non desiderate gravidanze gemellari da PMA) – o (come si evincerebbe dall’iniziale inciso «ai fini della presente legge sulla procreazione medicalmente assistita») una specificazione del divieto di crioconservazione o soppressione degli embrioni, di cui al comma 1 dell’art. 14. Correttamente – osserva il giudice a quo – i ricorrenti avevano evidenziato come il divieto abbia una sua giustificazione laddove, adottata la scelta di produrre più di un embrione (due o al massimo tre, secondo l’imposizione di cui si chiede la censura), si decida poi di impiantarne in numero minore, in violazione della regola del loro unico e contemporaneo impianto. Laddove, invece, venga a cadere la regola della produzione di non più di tre embrioni, del loro unico e contemporaneo impianto e del rigido divieto di crioconservazione, non avrebbe più senso nemmeno il divieto di riduzione embrionaria.

Una ragion d’essere della norma potrebbe permanere per il tramite del richiamo contenuto alla disciplina sulla interruzione della gravidanza, ma si tratterebbe di un richiamo a questo punto superfluo e ridondante, essendo già sufficiente quello contenuto nel primo comma dell’art. 14 (possibilità di soppressione di embrioni nei casi previsti dalla legge n. 194 del 1978).

Si chiede, infine, il rimettente se non si corra il rischio di una deriva eugenetica, in particolare di una «eugenetica negativa», intendendosi tale quella volta a far sì che non nascano persone portatrici di malattie ereditarie e non già a perseguire scopi di «miglioramento» della specie umana.

Altro, e non meno importante, dubbio è se davvero coppie al cui interno non vi sia sterilità o infertilità, ma che siano a forte rischio di trasmissibilità di malattie genetiche, non vengano a ricevere, per il fatto di non poter ricorrere a PMA e nell’ambito di essa a diagnosi preimpianto e a selezione embrionaria, un trattamento deteriore rispetto a coppie, sempre a forte rischio di trasmissibilità di malattie genetiche ma al cui interno vi sia sterilità o infertilità, che invece, ove accolte le prospettate questioni di legittimità costituzionale, a tutto quanto sopra potrebbero ricorrere.

Al riguardo, peraltro, il giudice a quo rileva come, data prevalenza al diritto alla salute della donna su ogni possibile situazione soggettiva dell’embrione, quello della «eugenetica negativa» finisca con l’essere un falso problema, non risolto, ed anzi aggravato dalla costrizione della donna, già sottoposta a stimolazione ovarica e ad intervento di impianto, a ricorrere poi ad interruzione, volontaria o meno che essa sia, della gravidanza.

3.1. – Nel giudizio innanzi alla Corte, si sono costituiti C.M. e G.R., parti del giudizio di merito.

3.2. – Ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità e la infondatezza della questione, alla stregua di argomentazioni analoghe a quelle riferite con riguardo al giudizio introdotto con la ordinanza r.o. n. 323 del 2008.

3.3. – Sono altresì intervenute l’Associazione Hera O.N.L.U.S., l’Associazione Sos Infertilità Onlus, l’Associazione Cittadinanzattiva Toscana Onlus, l’Associazione Cecos Italia, l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, oltre alle Associazioni Amica Cicogna Onlus, Madre Provetta Onlus, Cerco un bimbo, L’altra Cicogna Onlus e l’Associazione www.unbambino.it, ciascuna delle quali ha aderito alla richiesta di declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.

3.4. – Nella imminenza della data fissata per la udienza pubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memorie nei giudizi introdotti con le ordinanze r.o. n. 323 e 382 del 2008, insistendo nelle conclusioni rassegnate.

La difesa erariale ha ribadito, esplicitandola, l’eccezione di inammissibilità delle questioni in quanto sollevate nel corso di procedimenti cautelari, rilevando che il contenuto del provvedimento richiesto finirebbe per produrre effetti immodificabili, con ricadute sulla rilevanza delle questioni medesime. In definitiva, l’Avvocatura generale evidenzia la mancanza di incidentalità delle questioni, in quanto la eventuale pronuncia di accoglimento concretizzerebbe la tutela richiesta innanzi al Tribunale rimettente.

Le questioni sarebbero poi inammissibili, in quanto concernenti un settore la cui regolamentazione giuridica richiede una attenta e prudente composizione degli interessi in giuoco attraverso una delicata opera di bilanciamento dei valori, nell’ambito di una valutazione politico-discrezionale di spettanza del legislatore.

Nelle memorie si deduce il vizio di fondo dal quale sarebbe affetto il ragionamento del giudice rimettente, consistente in ciò, che la sollevata questione dei commi 2 e 3 dell’art. 14 della legge n. 40, come motivata dallo stesso giudice, non toccherebbe il divieto di carattere generale di crioconservazione e soppressione di embrioni contenuto nel comma 1 dello stesso articolo, con la conseguenza che non avrebbe senso chiedere la eliminazione della eccezione alla regola del divieto contenuto nel comma 3.

Una ulteriore ragione di inammissibilità sarebbe da ravvisare nell’intento del rimettente di mettere in discussione l’impianto della intera legge. Ed ancora, le ragioni di eventuale illegittimità costituzionale coinvolgerebbero anche altre norme della legge n. 40. Infine, il rimettente porrebbe una questione meramente interpretativa.

Nel merito, le questioni sarebbero infondate. Premesso che il comma 2 dell’art. 14 della legge trasfonde le indicazioni contenute nella Risoluzione sulla fecondazione artificiale approvata dal Parlamento europeo il 16 marzo 1989 e si uniforma alla scelta del legislatore tedesco, l’Avvocatura dello Stato ritiene che le ordinanze di rimessione consistano in una critica alle scelte discrezionali del legislatore, che ha effettuato una comparazione di interessi fra quello della donna al buon esito della procreazione assistita e quello alla tutela dell’embrione. La ragionevolezza del limite numerico contenuto nel comma 2 dell’art. 14 è coerente, secondo l’Autorità intervenuta, con le conclusioni della scienza e della tecnica al fine di garantire il buon esito dell’impianto. La memoria contiene dei dati dell’Istituto superiore della Sanità dai quali risulterebbe che, successivamente alla entrata in vigore della legge n. 40, siano aumentati i centri, le coppie trattate e le gravidanze, e che l’elevato numero di gravidanze trigemine in Italia non sarebbe conseguenza diretta delle previsioni normative, ma da correlare alle modalità di attuazione della procedura in determinati casi.

Infine, nelle memorie si esclude l’assimilabilità della prescritta irrevocabilità del consenso all’impianto, disposta dal comma 3 dell’art. 6, ad un trattamento sanitario obbligatorio, che, invece, contempla quelle attività terapeutiche o diagnostiche volte a prevenire o curare malattie nell’interesse del soggetto destinatario, oltre che della salute collettiva. Né l’irrevocabilità del consenso è assistita da una procedura di esecuzione forzata.

Sono state depositate memorie nell’interesse di M.C. e G.R., nonché dell’Associazione Hera O.N.L.U.S., dell’Associazione Sos Infertilità Onlus, dell’Associazione Cittadinanza attiva Toscana O.N.L.U.S. e dell’Associazione Luca Coscioni, per la libertà di ricerca scientifica.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio (r.o. n. n. 159 del 2008) dubita, con sentenza, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 2 e 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui il loro disposto prevede, ai fini della applicazione della procedura della procreazione medicalmente assistita, la formazione di un numero limitato di embrioni, fino ad un massimo di tre, da impiantare contestualmente, consentendo, solo per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna, la crioconservazione degli embrioni stessi fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile.

Il Tribunale ordinario di Firenze (r.o. n. 323 del 2008) sospetta, con riferimento ai medesimi parametri costituzionali, la illegittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 2, della stessa legge n. 40 del 2004, nella parte in cui il loro disposto impone il divieto della crioconservazione degli embrioni soprannumerari, la obbligatorietà della creazione di un numero massimo di tre embrioni e dell’unico e contemporaneo impianto di embrioni comunque non superiore a tre, perché la predeterminazione di un protocollo sanitario unico comporterebbe la sottoposizione della donna a trattamento sanitario non voluto e non volto alla tutela della salute propria, né della collettività.

Lo stesso Tribunale dubita, altresì, della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultima parte, della stessa legge, laddove prevede la irrevocabilità del consenso da parte della donna all’impianto in utero degli embrioni creati, per violazione dell’art. 32, secondo comma, Cost., che vieta i trattamenti sanitari obbligatori, se non imposti per legge e nel rispetto della dignità della persona umana.

Il Tribunale ordinario di Firenze (r.o. n. 382 del 2008) censura l’art. 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004, limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», per contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione; l’art. 14, comma 3, della stessa legge, limitatamente alle parole «Qualora il trasferimento nell’utero degli embrioni non risulti possibile», «di forza maggiore», «non prevedibile al momento della fecondazione», «fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile», per contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione; l’art. 14, comma 4, della richiamata legge, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, in quanto tale norma determinerebbe la reiterata sottoposizione della donna a trattamenti che, in quanto invasivi e a basso tasso di efficacia, sarebbero lesivi del principio di rispetto della dignità umana; creerebbe disparità di trattamento fra situazioni che eguali fra loro non sono e richiedono trattamenti differenziati, in contrasto con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., violando il diritto fondamentale alla salute per il forte rischio di reiterata sottoposizione della donna a trattamenti ad alto tasso di pericolosità per la sua salute fisica e psichica.

Lo stesso Tribunale denuncia, infine, l’art. 6, comma 3, della stessa legge, nella parte in cui non contiene, in fine, le parole «e, dalla donna, anche successivamente», per contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione.

2. – I tre provvedimenti giurisdizionali sollevano questioni largamente coincidenti e ciò rende opportuna la riunione dei giudizi al fine della trattazione congiunta e della decisione con un’unica sentenza.

3. – Deve essere, preliminarmente, confermata l’ordinanza adottata, nel corso dell’odierna udienza pubblica, ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi dell’Associazione Cecos Italia, delle Associazioni Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, Amica Cicogna Onlus, Madre Provetta Onlus, Cerco un bimbo, L’altra Cicogna Onlus e www.unbambino.it, nonché della S.I.S.Me.R. s.r.l. (Società Italiana Studi di Medicina della Riproduzione s.r.l.), nel giudizio introdotto con ordinanza n. 159 del 2008; gli interventi dell’Associazione Sos Infertilità Onlus, dell’Associazione Hera Onlus, nonché di C.M. e G.R., nel giudizio introdotto con ordinanza n. 323 del 2008; gli interventi dell’Associazione Hera Onlus, dell’Associazione Sos Infertilità Onlus, dell’Associazione Cittadinanzattiva Toscana Onlus, dell’Associazione Cecos Italia, nonché delle Associazioni Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, Amica Cicogna Onlus, Madre Provetta Onlus, Cerco un bimbo, L’altra Cicogna Onlus e www.unbambino.it, nel giudizio introdotto con ordinanza n. 382 del 2008. Ciò in applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, secondo cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (ex plurimis, sent. n. 96 del 2008, ord. n. 393 del 2008, n. 414 del 2007).

4. – Occorre ora esaminare le eccezioni di inammissibilità prospettate dalle parti in relazione ai vari provvedimenti di remissione.

4.1. – L’eccezione di inammissibilità prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato e dal Comitato per la tutela della salute della donna per avere il TAR del Lazio sollevato le questioni con sentenza anziché con ordinanza, in violazione delle norme sul processo costituzionale, non è fondata.

Questa Corte ha, infatti, affermato – e il principio deve essere ribadito nella presente sede – che «la circostanza non comporta inammissibilità della questione, posto che, come si desume dalla lettura dell’atto, nel promuovere questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo ha disposto la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria della Corte costituzionale, sì che a tale atto, anche se autoproclamantesi "sentenza", deve essere riconosciuta natura di "ordinanza", sostanzialmente conforme a quanto previsto dall’art. 23 della legge n. 87 del 1953» (sentenza n. 452 del 1997).

4.2. – Altra eccezione di inammissibilità è prospettata, sempre con riferimento alla questione sollevata dal TAR, dalla Federazione Nazionale dei Centri e dei Movimenti per la vita italiani, sotto il profilo della rilevanza, per non essersi detto giudice pronunciato sulla carenza di interesse diretto della Warm (World Association Reproductive Medicine), ricorrente nel giudizio a quo, avendo erroneamente ritenuto che sulla relativa questione si sarebbe formato il giudicato, come stabilito dal Consiglio di Stato in sede di appello.

Neppure tale eccezione merita accoglimento, avendo il TAR non implausibilmente affermato che sulla legittimazione ad agire della Warm non vi era alcuno spazio di riesame, essendosi, sul punto, formato il giudicato, secondo quanto si evincerebbe dalla sentenza di rinvio del Consiglio di Stato.

4.3. – Parimenti non fondata è l’ulteriore eccezione di inammissibilità, sollevata dal Comitato per la tutela della salute della donna, a seguito del mutamento del quadro normativo per effetto dell’intervento delle nuove linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita, di cui al d.m. 11 aprile 2008, che avrebbe determinato la estinzione del giudizio amministrativo e, con esso, avrebbe travolto il giudizio di costituzionalità.

E’ infatti sufficiente rilevare l’operatività delle linee guida del 2004 fino al momento della loro sostituzione e, quindi, della pendenza del giudizio amministrativo, senza considerare che nessuna incidenza le sopravvenute linee guida possono esercitare su alcuna delle questioni sollevate.

4.4. – Con la memoria del Comitato per la tutela della salute della donna e della Federazione nazionale dei centri e dei Movimenti per la vita italiani è stata eccepita l’inammissibilità della questione sollevata dal TAR, in quanto priva del requisito della incidentalità, dal momento che l’oggetto del giudizio principale finirebbe per coincidere sostanzialmente con quello del giudizio di costituzionalità.

Anche tale eccezione non è fondata.

Ai fini dell’ammissibilità di una questione di costituzionalità, sollevata nel corso di un giudizio dinanzi ad un’autorità giurisdizionale, è necessario, fra l’altro, che essa investa una disposizione avente forza di legge di cui il giudice rimettente sia tenuto a fare applicazione, quale passaggio obbligato ai fini della risoluzione della controversia oggetto del processo principale. Nel caso di specie, non è dubbio che l’eventuale accoglimento delle questioni prospettate relativamente ai commi 2 e 3 dell’art. 14 della legge n. 40 del 2004 produrrebbe un concreto effetto nel giudizio a quo, satisfattivo della pretesa dedotta dalle parti private, poiché dovrebbero essere accolte le doglianze mosse contro le norme secondarie censurate (nello stesso senso, sul principio, sentenze nn. 303 e 50 del 2007).

4.5. – Con riguardo alle questioni sollevate con le ordinanze n. 323 e n. 382 del 2008 dal Tribunale ordinario di Firenze, la difesa erariale ne ha eccepito l’inammissibilità in quanto sollevate nel corso di procedimenti cautelari, rilevando, da un lato, che il contenuto del provvedimento richiesto finirebbe per produrre effetti immodificabili, con ricadute sulla rilevanza delle questioni medesime ed evidenziando, dall’altro, la mancanza di incidentalità delle questioni, in quanto la eventuale pronuncia di accoglimento concretizzerebbe la tutela richiesta innanzi al Tribunale rimettente.

L’eccezione non è fondata.

La giurisprudenza di questa Corte ammette la possibilità che siano sollevate questioni di legittimità costituzionale in sede cautelare, sia quando il giudice non provveda sulla domanda, sia quando conceda la relativa misura, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice fruisce (sentenza n. 161 del 2008 e ordinanze n. 393 del 2008 e n. 25 del 2006).

Nella specie, i procedimenti cautelari sono ancora in corso ed i giudici a quibus non hanno esaurito la propria potestas iudicandi: risulta, quindi, incontestabile la loro legittimazione a sollevare in detta fase le questioni di costituzionalità delle disposizioni di cui sono chiamati a fare applicazione (sentenza n. 161 del 2008).

5. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, della legge n. 40 del 2004 è stata sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 32, primo e secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Firenze c

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