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Aggiudicazione appalto - stipulazione del contratto – recesso.

La Corte di cassazione ribadendo il principio per il quale l’aggiudicazione della gara tiene luogo della stipulazione del contratto, ha ritenuto illegittimo il recesso dell’aggiudicatario effettuato sul presupposto del rifiuto della P.A. di stipulare il contratto. L’ illegittimità del recesso legittima la domanda, da parte della stazione appaltante, di risarcimento danni  derivanti dal riaffidamento non tempestivo dei lavori. Si tratterebbe, in particolare, dei danni derivati dai maggiori costi sopportati dalla p.a. nella stipulazione del nuovo contratto per la realizzazione dell'opera pubblica, ovvero per l'esecuzione d'ufficio. Si tratta di una conclusione che è peraltro imposta dalla chiara lettera dell'art. 340 340, L. 20/03/1865 n. 2248, il quale  disponendo che l'appaltatore "sarà passibile del danno che provenisse all'Amministrazione dalla stipulazione di un nuovo contratto o dall'esecuzione d'ufficio" impone di ritenere, che il danno da essa previsto e disciplinato è appunto esclusivamente quello che la committente subisce nello stipulare un nuovo contratto o nel provvedere mediante l'esecuzione d'ufficio, fermo restando il diritto dell'appaltante di ottenere il risarcimento del danno ulteriore e diverso, secondo le norme comuni.

Svolgimento del processo

La F.lli Mirto s.p.a. (infra, Società), aggiudicataria a seguito di licitazione privata di un appalto per la costruzione di 25 alloggi popolari nel Comune di S. Giuseppe Jato (di seguito, Comune), con citazione del 17 dicembre 1981 conveniva in giudizio detto Comune innanzi al Tribunale di Palermo, dolendosi dell'inadempimento degli obblighi assunti da quest'ultimo - primo tra questi, quello di stipulare il contratto d'appalto - e chiedendo l'accertamento del suo diritto al recesso e la condanna del convenuto al pagamento dei lavori eseguiti, nella misura di L. 15 milioni, nonchè alrisarcimento dei danni, al rimborso della cauzione e dei successivi esborsi ed al risarcimento dei danni.

Nel giudizio si costituiva il Comune, contestando la fondatezza della domanda e chiedendo, in riconvenzionale, che il Tribunale dichiarasse illegittimo il recesso unilaterale della Società, condannandola al risarcimento dei danni.

Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Palermo, con sentenza non definitiva del 14 marzo 1985, rigettava la domanda, ritenendo il processo verbale di aggiudicazione dei lavori equivalente, ad ogni effetto, alla stipulazione del contratto e, come precisato nella sentenza qui impugnata, "che per effetto della mancata esplicazione della riserva relativa al periodo di sospensione dei lavori, intercorrente dal 09/07/1980 al 20/10/1981, la relativa pretesa era preclusa per l'intervenuta decadenza ritualmente eccepita", e, quindi, escludeva il diritto di recesso unilateraledella Società, ex art. 4 del Capitolato generale di appalto, giudicando legittima la rescissione in suo danno effettuata dal Comune.

Il Tribunale di Palermo, con sentenza definitiva del 2 giugno 1990, quantificava in L. 15.149.581 l'importo dei lavori eseguiti, con gli interessi legali e con esclusione del compenso revisionale e del maggior danno ex art. 1224 c.c.; inoltre accoglieva la riconvenzionale proposta dal Comune ai sensi della L. del 1865, n. 2248, art. 340, All. F, quantificando i danni nella differenza tra il costo originario dell'opera e quello valutato all'attualità, "condannando la Società a pagare alla stazione appaltante la somma di L. 641.381.860, pari alla differenza tra le partite di dare ed avere, con gli interessi legali dal provvedimento di rescissione al soddisfo, ed alle spese di giudizio".

Avverso la sentenza proponeva appello la Società, chiedendone l'integrale riforma e l'accoglimento della domanda.

Il Comune si costituiva nel giudizio, chiedendo il rigetto dell'impugnazione.

Ricostituitosi il contraddittorio, la Corte d'appello di Palermo, con sentenza del 25 settembre 2001, in parziale accoglimento dell'appello, condannava il Comune a pagare la somma di L. 15.149.581, oltre interessi legali dalla domanda; rigettava la riconvenzionale di risarcimento del danno proposta dal Comune e dichiarava interamente compensate tra le parti le spese del doppio grado.

Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso il Comune, affidato a due motivi; non ha svolto attività difensiva l'intimata.

Motivi della decisione

1.- Il ricorrente, con il primo motivo, denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 340 L. 20/03/1865 n. 2248 - Insufficiente e contraddittoria motivazione", deducendo che la Corte territoriale avrebbe confermato l'illegittimità della condotta della Società, ritenendo anch'essa esistente il diritto al risarcimento dei danni ex art. 340 c.c. citato. Tuttavia ha invece accolto il motivo di appello con il quale la Società aveva contestato il criterio di quantificazione del danno, riferito all'ipotetico costo di realizzazione dell'opera, anche in assenza di un nuovo affidamento dei lavori per la sua realizzazione. Secondo la Corte palermitana, il danno del Comune non sarebbe infatti risarcibile poichè, "nonessendo i lavori più stati appaltati, il diritto al risarcimento del danno derivante dalla nuova stipulazione non è per l'effetto mai sorto e (...) ove si opinasse diversamente si accorderebbe invece ad un arricchimento del tutto ingiustificato, concedendo un danno in concreto non sopportato".

Ad avviso del Comune, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente interpretato l'art. 340 c.c. citato, dato che questa norma tutelerebbe in ogni caso la P.A. nel caso di illegittima rescissione del contratto da parte dell'appaltatore, non considerando che, secondo l'orientamento di questa Corte, in detta ipotesi non sarebbe deducibile un concorso di colpa dell'amministrazione appaltante, qualora non sia stata tempestivamente bandita una nuova gara, tenuto conto dell'insindacabilità del potere di discrezionale di procederead una nuova gara, stabilendone il tempo (Cass., n. 424 del 1976; n. 9359 del 1995). La Corte territoriale non avrebbe quindi potuto "entrare nel merito del comportamento posto in essere dal Comune" e "ritenere, conseguentemente, il venir meno del suo diritto al risarcimento del danno (sicuramente subito) sul solo presupposto della mancata stipulazione di un nuovo contratto di appalto".

Inoltre, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata, da un canto, avrebbe violato il divieto della sindacabilità delle opzioni e delle scelte della P.A., dall'altro non avrebbe considerato che, una volta affermata la rilevanza della mancata stipulazione di un nuovo contratto di appalto, avrebbe dovuto accertare quali cause la avevano determinata. Infatti, a suo avviso, l'instaurazione da parte della Società di un giudizio diretto a far accertare l'imputabilità allastazione appaltante della risoluzione del contratto ha costretto quest'ultima a cautela nel procedere al riaffidamento dei lavori;

inoltre, la vicenda si è svolta agli inizi degli anni '80, caratterizzati da una elevata inflazione, produttiva, nel periodo 1981-1985, di un incremento del costo di realizzazione dell'opera pari al 99%. Questo dato non è stato affatto valutato dalla Corte d'appello, nonostante esso costituisca la ragione per la quale il Comune non ha potuto realizzare gli alloggi, vieppiù a causa della perdita dei finanziamenti e dell'impossibilità di recuperarli, anche a causa della durata del giudizio, con la conseguenza che plurime circostanze non hanno permesso di "rimettere in piedi un appalto per il quale occorre una cifra 5 volte superiore a quella iniziale". In altri termini, una volta che il giudice di secondo grado aveva ritenuto erroneamente sindacabile la condotta della P.A., avrebbecomunque dovuto accertare le ragioni che hanno costretto il Comune ad abbandonare la realizzazione dell'opera pubblica, identificandole nelle vicende seguite alla illegittima rescissione del contratto da parte della Società, in quanto ciò gli avrebbe evitato di "affermare, con sicura leggerezza, che il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni si rivelerebbe quale un indebito arricchimento del Comune".

Il ricorrente sostiene, infine, che non sarebbe possibile comprendere in base a quali elementi, non desumibili dagli atti del processo, la Corte territoriale abbia ricavato il convincimento che la mancata realizzazione dell'opera sia frutto di una determinazione della P.A. scorretta e in mala fede, finendo con il premiare l'illegittima condotta della Società.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia "omessa o insufficiente motivazione su un punto determinante della controversia", osservandoche, in considerazione della proposizione "della domanda come formulata e precisata sin dal 1 grado di giudizio, non era e non può essere limitata all'ipotesi L. del 1865, n. 2248, ex art. 340, all.

F", il risarcimento non poteva essere limitato a questa ipotesi, avendo esso chiesto il risarcimento di "tutti i danni cagionati dall'inadempimento alle obbligazioni contrattuali (...) per il riappalto dei lavori o per l'esecuzione d'ufficio (...) oltre i maggiori danni", inoltre, indipendentemente dalla formalistica lettura dell'art. 340 c.c. citato, il Comune avrebbe dovuto essere risarcito dei danni "comunque allo stesso derivati dall'inadempimento" della Società, quantificati nel corso del giudizio nel maggiore importo occorrente per la realizzazione dei lavori alla data del 1985, e che comunque consisterebbero anche nellamancata realizzazione dell'opera, ascrivibile anch'essa alla Società. 2.- I due motivi possono essere trattati congiuntamente, in quanto connessi sotto il profilo logico-giuridico, sono infondati e devono essere rigettati in linea preliminare è opportuno osservare che la sentenza impugnata precisa che la pronuncia di primo grado ha accolto la "domanda riconvenzionale di danni L. del 1865, n. 2248, ex art. 340, All. F avanzata dal Comune" (pg. 5), con affermazione da reputarsi incontroversa, poichè lo stesso ricorrente, analogamente, deduce che in primo grado era stata accolta la "domanda di risarcimento danni L. del 1865, n. 2248, ex art. 340, All. F riconvenzionalmente proposta" (pg. 3 del ricorso). In appello il Comune di S. Giuseppe Jato, come ancora risulta dalla pronuncia, si è limitato a chiedere il rigetto del gravame. La Corte d'appello di Palermo, nel pronunziarsi sul gravame proposto dalla F.lli Mirto s.p.a. ha quindi deciso la domanda di danni proposta dal ricorrenteai sensi della norma sopra indicata.

Tanto premesso, va ricordato che la L. del 1865, n. 2248, art. 340, All. F, dispone che la P.A., nel caso di inadempimento dell'appaltatore, può rescindere il contratto, attribuendole, in considerazione delle connotazioni pubblicistiche del contratto, un potere di autotutela in forza del quale può risolverlo con determinazione unilaterale.

Il primo comma identifica i presupposti di ordine sostanziale che legittimano la rescissione del contratto. Il secondo comma disciplina gli effetti della risoluzione, stabilendo che, qualora la P.A. eserciti il potere di autotutela, "l'appaltatore avrà ragione soltanto al pagamento dei lavori eseguiti regolarmente e sarà passibile del danno che provenisse all'Amministrazione dallastipulazione di un nuovo contratto o dall'esecuzione d'ufficio".

Quest'ultima disposizione non è stata particolarmente approfondita dalla dottrina, che ha comunque sottolineato come alla risoluzione - sia essa pronunciata dal giudice, ovvero conseguente dall'esercizio del potere di autotutela - si riconnetta l'obbligo del risarcimento dei danni subiti dalla committente secondo quanto disposto dalle norme comuni. Ciò vuoi dire che, come accade d'ordinario, la parte adempiente ha diritto al risarcimento del danno, costituendo la anticipata risoluzione del rapporto un evento potenzialmente generatore di un pregiudizio patrimoniale (in riferimento alla disciplina ordinaria, Cass., n. 482 del 2001; n. 7052 del 1990), secondo un principio da coordinare con quelli che governano le azioni risarcitorie, in base ai quali può affermarsi "che la risoluzione non implica che il danno sussista in ogni caso, dovendo esso essere provato da parte del danneggiato nella sua reale esistenza, nel suoammontare e quanto alla derivazione, secondo i principi della regolarità causale, dall'inadempimento imputabile all'altra parte" (Cass., n. 7829 del 2003; sull'onere della prova del danno cfr. anche Cass., n. 8278 del 1999). Il principio, in riferimento all'appalto pubblico, risulta enunciato, sia pure in relazione ad un profilo soltanto analogo a quello in esame, da una non recente sentenza delle Sezioni Unite, secondo la quale l'inadempimento dell'appaltatore di opere pubbliche legittima la dichiarazione di rescissione del contratto da parte della stazione appaltante, ma non anche l'incameramento dei decimi cauzionali "in difetto della prova di un inadempimento colposo dell'appaltatore dal quale siano derivati concreti danni" (cosi nella massima di Sez. Un., n. 2856 del 1973), proposizione quest'ultima peculiarmente significativa, in quanto rende palese l'imprescindibilità dell'esistenza di un dannoeffettivo e della prova del medesimo.

2.1.- Con specifico riferimento all'art. 340 c.c. citato, una prima pronuncia di questa Corte ha osservato che "non si può ammettere sotto nessun profilo che in un contratto di appalto pubblico la pubblica amministrazione, per alleviare il danno subito in conseguenza dell'abbandono dei lavori da parte dell'imprenditore o del supplente, abbia l'obbligo giuridico di stipulare a trattativa privata un nuovo contratto con altra impresa estranea", sicchè non le si può imputare, sotto il profilo dell'art. 1227 cod. civ., di non avere usato l'ordinaria diligenza atta ad evitare o diminuire il danno, in quanto non è identificabile con la colpa, sia pure sottol'aspetto d'inosservanza dell'ordinaria diligenza, il mero uso di una facoltà legittima e del potere discrezionale (Cass., n. 956 del 1965). Una successiva sentenza, richiamata anche dal ricorrente, ha sottolineato che "la pubblica amministrazione non può essere sindacata nel suo potere discrezionale di indire una nuova gara per il riappalto, dovendo essa, nel suo sovrano apprezzamento del pubblico interesse, valutare l'opportunità o meno di indire una nuova gara, e, in caso affermativo, stabilire il tempo di essa" (Cass., n. 424 del 1976).

La lettura delle sentenze permette di accertare che, nel primo caso, non era affatto in discussione l'esistenza del danno conseguente dalla stipulazione di un nuovo contratto, essendo in questione esclusivamente la circostanza che, ad avviso dell'appaltatore, il danno derivato appunto dalla conclusione del nuovo negozio avrebbepotuto essere evitato se la P.A. "non avesse rifiutato l'offerta di certa cooperativa Guglianese, di continuare essa i lavori". Nel secondo caso la contestazione mossa dall'appaltatore alla P.A. era di non avere "indetto tempestivamente la gara per il riappalto". Dunque, appare chiaro che nelle fattispecie decise era in sostanza incontroversa l'esistenza del danno conseguito appunto dalla stipula di un nuovo contratto avente ad oggetto il riappalto dei lavori ed era, invece, in questione la modalità del riappalto e la tempestività con la quale l'amministrazione vi aveva provveduto.

Una più recente sentenza, richiamata a conforto dalla pronuncia impugnata, alla quale ha fatto riferimento anche il ricorrente, ha peraltro ritenuto che "il principio già affermato da questa Corte (...) secondo cui, in tema di appalto di opere pubbliche, nel giudizio promosso dall'Amministrazione committente control'appaltatore, dopo la rescissione del contratto, ai sensi della L. 20/03/1865, n. 2248, artt. 332 e 340, All. F., per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alle inadempienze dell'appaltatore, non è deducibile un concorso di colpa dell'Amministrazione medesima per non avere tempestivamente bandito una nuova gara per il riappalto dei lavori in considerazione dell'insindacabilità del suo potere discrezionale di . indire una nuova gara e di stabilire il tempo, merita alcune precisazioni".

Infatti, secondo questa pronuncia, "l'insindacabilità, da parte del giudice ordinario, dell'esercizio del potere discrezionale della P.A., quanto ai tempi scelti ed ai mezzi adoperati, trova pur sempre un limite esterno nel principio generale del neminem laedere" e"l'uso del potere discrezionale della P.A. deve essere conforme al canone generale di correttezza e buona fede" (Cass., n. 9359 del 1995). Al fine che qui interessa non rileva il profilo della condotta che la P.A. è tenuta ad osservare ed i limiti entro i quali la stessa è sindacabile da parte del giudice ordinario, quanto l'implicita, tuttavia chiara, esclusione della possibilità di ritenere che l'art. 340 c.c. citato preveda l'esistenza di un danno in re ipsa derivante dall'inadempimento, diverso ed ulteriore rispetto a quello conseguente dalla stipulazione di un nuovo contratto.

A non diverso risultato interpretativo è giunta una ulteriore, più recente, sentenza la quale ha ribadito la necessità di accertare che l'inadempimento sia stato "causa esclusiva dei maggiori esborsiconseguenti alla seconda gara dovuti affrontare dalla committente" che - ha precisato la pronuncia -, "per vedere accolta la domanda, doveva fornire la prova di detto danno", sottolineando inoltre che, nella specie, "l'aggiudicazione delle opere non ultimate (...) per un prezzo maggiore del primo appalto costituiva un fatto del tutto pacifico" (Cass., n. 20324 del 2004, negando quindi che il danno possa essere escluso per il solo fatto che la gara per il riaffidamento dei lavori non sia stata "tempestivamente" svolta ed affrontando il profilo della sindacabilità della diligenza nell'indire una nuova gara).

Queste sentenze non confortano affatto un'interpretazione della norma in esame nel senso sostenuto dal ricorrente con tesi costituente il nucleo essenziale, ed in larga misura assorbente, delle sue censure - che dalla rescissione per inadempimento dell'appaltatore consegua ex se un danno pari all'astratto incremento dei costi dell'opera,indipendentemente dal riappalto dei lavori. Le pronunce hanno affrontato infatti il profilo del danno derivante dal riaffidamento non tempestivo dei lavori - che qui non interessa - e, soprattutto, specie le più recenti e la sentenza delle Sezioni Unite n. 2856 del 1973, hanno sottolineato che il danno oggetto della norma è quello costituito dai maggiori costi sopportati dalla p.a. nella stipulazione del nuovo contratto per la realizzazione dell'opera pubblica, ovvero per l'esecuzione d'ufficio. Si tratta di una conclusione che è peraltro imposta dalla chiara lettera dell'art. 340 c.c. citato, il quale - in armonia con la disciplina sopra richiamata, stabilita dalle norme comuni - disponendo che l'appaltatore "sarà passibile del danno che provenisse all'Amministrazione dalla stipulazione di un nuovo contratto o dall'esecuzione d'ufficio" impone di ritenere, come è reso palesesia dal tempo del verbo, sia dal puntuale ed esclusivo riferimento ai maggiori oneri sopportati in occasione della stipulazione del nuovo contratto o dell'esecuzione d'ufficio, che il danno da essa previsto e disciplinato è appunto esclusivamente quello che la committente subisce nello stipulare un nuovo contratto o nel provvedere mediante l'esecuzione d'ufficio, fermo restando il diritto dell'appaltante di ottenere il risarcimento del danno ulteriore e diverso, secondo le norme comuni.

2.2.- La sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che "il presupposto per la liquidazione del risarcimento ex art. 340 c.c. in esame" è "l'effettivo nuovo appalto dei lavori" e che "la misura del dovuto" va "determinata (...) con riferimento al concreto danno chesia provenuto all'Amministrazione dalla stipulazione del nuovo contratto" risulta dunque immune dal vizio denunciato.

E la pronuncia, avendo accertato, come è incontroverso anche in questa sede, che "un nuovo appalto, nonostante il lungo lasso di tempo trascorso, non è stato più stipulato", ha, conseguentemente, correttamente concluso che, "non essendo i lavori più stati appaltati il diritto al risarcimento derivante dalla nuova stipulazione non è per l'effetto mai sorto" (pg. 14). Risulta infatti chiaro che la pronuncia ha esattamente ritenuto che i danni risarcibili in forza del criterio recato dall'art. 340 c.c. citato sono quelli consistenti nei maggiori oneri sopportati dalla stazione appaltante in occasione della stipulazione di un nuovo contratto odell'esecuzione d'ufficio e che questa, trattandosi di danno emergente, abbia documentato di avere realmente sostenuto (in tal senso cfr. anche Cass., n. 20234 del 2004), escludendoli appunto perchè è incontroverso che i lavori non sono stati riappaltati, non già perchè ha ritenuto - come inesattamente sostenuto dal Comune - che la committente abbia tenuto una condotta "consapevolmente (...) scorretta ed in mala fede".

La censura, nella parte in cui denuncia un vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento degli ulteriori danni che il Comune avrebbe subito quale diretta conseguenza dell'inadempimento - e cioè non riconducibili ad una condotta dell'appaltatore diversa rispetto all'inosservanza degli obblighi contrattuali, differenti ed appunto ulteriori rispetto a quelli conseguenti dalla stipulazione di unnuovo contratto, costituenti oggetto dell'art. 340 c.c. citato - consistenti nella "perdita dei finanziamenti, nella impossibilità di recuperare i finanziamenti e i residui non utilizzati" (così nel primo motivo, pg. 8) è, invece, inammissibile. Al riguardo va osservato che la sentenza in esame ha espressamente osservato che l'inesistenza del danno riconducibile alla norma da ultimo richiamata non fa escludere che "possano sussistere danni, quali perdita di finanziamenti, ratei di mutuo contratto da sopportare o indennità per espropriazioni da corrispondere, che vanno però risarciti secondo le regole generali", ed ha tuttavia espressamente affermato che questi "nella specie non sono stati nè dedotti nè provati e non possono quindi essere liquidati" (pg. 15). A fronte di questa puntuale affermazione, il ricorrente, nel denunciare il vizio di motivazione, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, quale configurato dalla consolidatagiurisprudenza di questa Corte (tra le molte e per tutte, Cass., n. 20397 del 2004; n. 11606 del 2004; n. 5842 del 2004; n. 3284 del 2003), non ha però affatto adempiuto l'onere di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non o male valutate che dovrebbero confortare la propria deduzione (e la sua stessa prospettazione), in ordine alla carenza o insufficienza della motivazione, così da permettere al Collegio di controllare ex actis la veridicità dell'assunto, prima di esaminarne il merito e, in realtà, non si è dato affatto carico di prendere in esame questa puntuale affermazione contenuta nella pronuncia, con conseguente inammissibilità, in questa parte, della censura.

Infine, il ricorrente sostiene altresì che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe carente ed insufficiente in quanto la Corte d'appello non avrebbe considerato che il mancato riappalto deilavori sarebbe stato determinato dalla instaurazione del giudizio da parte dell'appaltatore, che avrebbe imposto al Comune un "atteggiamento cauto in esito al riaffidamento" dei lavori, evitando "con decisioni intempestive, un possibile danno erariale". Secondo il "ricorrente, questa circostanza non sarebbe stata valutata dalla pronuncia (primo motivo) , la quale non avrebbe affatto considerato che è a causa di questa condotta dell'appaltatore - evidentemente diversa ed ulteriore rispetto al mero inadempimento delle obbligazioni contrattuali - che non sarebbe stata eseguita l'opera ed il Comune avrebbe subito un danno determinato dalla lievitazione dei costi, coincidente con il valore degli alloggi, e cioè un danno che riconosce non riconducibile alla previsione dell'art. 340, cit., ma del quale sostiene di avere egualmente chiesto l'accertamento e la liquidazione (secondo motivo). In ordine a questi profili delle censure va osservato - con considerazione preliminare ed assorbenterispetto ad ogni altra - che siffatta questione, posta in questi termini con il ricorso, con la quale si deduce un danno derivante non già dal mero inadempimento, ovvero dalla stipulazione di un nuovo contratto (che non vi è stata, secondo quanto è stato accertato dalla Corte d'appello), bensì da una ulteriore condotta dell'appaltatore, non risulta affatto trattata dalla sentenza impugnata. Pertanto, essa deve ritenersi sollevata, per la prima volta, in questa sede, in violazione del consolidato principio secondo il quale i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d'inammissibilità, questioni già comprese nel tema del decidere, non essendo deducibili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d'ufficio (tra le più recenti, Cass., n. 9765 del 2005;

n. 8523 del 2004; n. 6542 del 2004). Pertanto, il ricorrente, nell'osservanza del principio di autosufficienza aveva l'onere sia di allegare l'avvenuta deduzione della succitata questione avanti al giudice del merito, sia di indicare, specificamente, in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, riproducendola, al fine di permettere al Collegio di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Cass., n. 1063 del 2005;

n. 19254 del 2004; n. 5150 del 2003), sicchè non avendo il Comune ciò fatto la censura, in questa parte, è inammissibile.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato; nulla per le spese, non avendo l'intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2005.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2005