Disconoscimento di paternità.
Corte cost.
14-05-1999 (C.C. 10-05-1999), n. 170 - Pres. Granata - Rel. Contri
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art.
244, primo e secondo comma, del codice civile, promosso con ordinanza emessa il
15 luglio 1997 dal Tribunale di Venezia nel procedimento civile vertente tra F.
W. e P. S. ed altri, iscritta al n. 419 del registro ordinanze 1998 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie
speciale, dell'anno 1998.
Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 1999
il Giudice relatore Fernanda Contri.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Venezia dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 244, primo e secondo comma, del codice civile, nella
parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell'azione di
disconoscimento della paternità, nel caso di impotenza di generare, decorra per
il marito dal giorno in cui il medesimo sia venuto a conoscenza della propria
incapacità di procreare; il giudice a quo chiede inoltre che la Corte estenda la eventuale
declaratoria di illegittimità costituzionale al primo comma della medesima
norma, nella parte in cui non prevede che il termine assegnato alla moglie
decorra dalla data in cui essa sia venuta a conoscenza della impotenza di
generare del marito.
Secondo la prospettazione del rimettente, la norma in
esame sarebbe irragionevole e lesiva del diritto di azione dei coniugi, ai
quali non è attribuito il diritto di provare l'impotenza del marito, anche
successivamente al decorso rispettivamente di un anno per il padre e di sei
mesi per la madre dalla nascita del figlio legittimo ed entro il termine,
rispettivamente, di un anno per il padre e di sei mesi per la madre dal momento
in cui essi ne siano venuti a conoscenza; la citata norma contrasterebbe
inoltre con il diritto inviolabile dei medesimi coniugi all'accertamento
giudiziale del rapporto biologico di paternità nei confronti del figlio
legittimo.
2. - La norma in esame è stata più volte sottoposta a
scrutinio di legittimità costituzionale da questa Corte, che ha avuto modo di
pronunciarsi in relazione ad ognuna delle diverse formulazioni della
disposizione impugnata che si sono succedute nel tempo.
Anteriormente alla riforma del diritto di famiglia, la Corte, con sentenza n. 249
del 1974, dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 244 cod. civ., la quale era stata prospettata, in termini analoghi a
quelli dell'odierna ordinanza, con riferimento all'ipotesi di impotenza di
generare; il rimettente dell'epoca lamentava infatti la violazione dell'art. 24
della Costituzione, poiché la norma non consentiva al marito di esercitare
l'azione, qualora egli fosse venuto a conoscenza del proprio stato di impotenza
in epoca successiva al decorso del termine, allora trimestrale, dalla nascita
del figlio.
La Corte affermò che la brevità del termine e la decorrenza di
esso da un fatto certo ed obiettivo, quale è la nascita, rispondevano
all'esigenza della certezza giuridica dei rapporti familiari, in funzione della
quale assumeva particolare rilievo il favor legitimitatis; al contrario,
consentire la decorrenza del termine da un evento difficilmente controllabile
sarebbe equivalso a vanificare il termine stesso e a rendere possibile
l'esperimento dell'azione in qualsiasi momento.
La questione della decorrenza del termine per la
proposizione dell'azione di disconoscimento fu nuovamente affrontata da questa
Corte e dichiarata non fondata con la sentenza n. 64 del 1982, in relazione
all'ipotesi dell'adulterio e sotto il profilo della disparità di trattamento
tra il padre e il figlio. La infondatezza della questione fu pronunciata
essenzialmente in base alla considerazione del perdurante rilievo del favor
legitimitatis, che aveva indotto il legislatore a differenziare, quanto alla
decorrenza del termine, il trattamento del padre rispetto a quello del figlio,
facendo decorrere per quest'ultimo l'azione dal compimento della maggiore età o
dal momento in cui il medesimo figlio fosse venuto successivamente a conoscenza
dei fatti. Pur rilevandosi nella intervenuta riforma del diritto di famiglia
uno spostamento d'accento dal favor legitimitatis al favor veritatis, si
ritenne tuttavia che il legislatore, lasciando il termine di decadenza
dell'azione del padre correlato alla conoscenza della nascita, avesse voluto
porre al favor veritatis un limite giustificato dai pericoli e dagli
inconvenienti di uno sconvolgimento di rapporti familiari protrattisi per lungo
tempo, senza accordare ad esso il valore di un principio assoluto.
Con la sentenza n. 134 del 1985 si è invece pervenuti
alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 244 cod. civ.,
nella parte in cui non dispone, per il caso previsto dal numero 3) dell'art.
235, che il termine dell'azione di disconoscimento decorra dal giorno in cui il
marito sia venuto a conoscenza dell'adulterio della moglie; l'iter
argomentativo di tale diversa pronuncia si fonda - oltre che su considerazioni
di ordine generale relative alla evoluzione della coscienza collettiva, nel
senso della accordata preminenza del fatto della procreazione sulla
qualificazione giuridica della filiazione e sulla constatazione della finalità,
voluta dal legislatore del 1975 e ulteriormente da quello del 1983, di favorire
il perseguimento del valore verità - sulla constatazione, in particolare, della
irragionevole esclusione del diritto del padre di agire per il disconoscimento,
nel caso di scoperta dell'adulterio oltre un anno dopo la nascita del figlio,
poiché, in tale ipotesi, l'azione sarebbe inutiliter data, con patente
violazione del diritto di agire in giudizio.
3. - La questione prospettata dall'odierno rimettente
è fondata.
L'art. 235, numero 2), del codice civile, nel
consentire l'azione di disconoscimento se nel periodo compreso fra il
trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima della nascita del figlio il
marito era affetto da impotenza, anche solo di generare, detta una disciplina
comune alle diverse forme nelle quali può manifestarsi l'impotenza, la cui
distinzione assume invece importanza fondamentale ai fini della verifica di
legittimità costituzionale della norma impugnata. Ed invero, in relazione
all'impotentia coeundi, immediatamente conoscibile, appare razionale la scelta
del legislatore di imporre il termine di un anno dalla nascita del figlio per
la proposizione dell'azione di disconoscimento, non essendo ipotizzabile
l'ignoranza di tale forma di impotenza.
L'impotenza di generare rappresenta, al contrario, uno
stato fisico che può rimanere per lungo tempo ignoto, poiché in una elevata
percentuale di casi consiste in un'affezione, che può essere priva di
sintomatologia e di manifestazioni esteriori; inoltre tale stato è
diagnosticabile solo attraverso esami clinici cui non si ricorre usualmente.
Dei diversi parametri costituzionali invocati dal
rimettente risulta palese la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Per un verso rispetto a tale forma di impotenza la
norma appare irragionevole, in quanto preclude l'esercizio dell'azione di
disconoscimento della paternità, decorso l'anno dalla nascita del figlio, se il
marito non sia stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell'azione
medesima e precisamente della propria incapacità di generare.
Per altro verso è irrimediabilmente leso il diritto di
azione quando si consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere
indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi
da cui sorge il diritto stesso; e ciò soprattutto in ipotesi, come quella di
specie, in cui è dato di comune esperienza che l'elemento costitutivo
dell'azione, rappresentato dall'impotenza di generare, può rimanere a lungo e a
volte anche definitivamente ignoto.
Questa Corte, nella richiamata sentenza n. 134 del
1985, ebbe già ad affermare, in relazione alla decorrenza del termine
nell'ipotesi di adulterio di cui all'art. 235, numero 3), cod. civ., la
oggettiva irrazionalità della disposizione impugnata, che impedisce al marito
di proporre il disconoscimento dopo essere venuto a conoscenza dell'avvenimento
da cui nasce il suo diritto di azione; detta norma si ritenne inoltre
inconciliabile con il principio in base al quale "la garanzia di cui
all'art. 24 della Costituzione deve estendersi alla conoscibilità del momento
di decorrenza del termine stesso al fine di assicurarne all'interessato
l'utilizzazione nella sua interezza". Le medesime considerazioni valgono
in relazione alla questione oggi in esame, nella quale ancora una volta viene
in rilievo l'incolpevole ignoranza di un fatto costitutivo dell'azione; determinare
in tale ipotesi la decorrenza del termine dall'evento nascita può in concreto
vanificare il diritto di azione, il che contrasta insanabilmente con i principi
costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti.
4. - Né potrebbe obiettarsi che il termine per
l'esercizio dell'azione, essendo subordinato alla conoscenza del fatto
costitutivo (il che potrebbe avvenire anche dopo molti anni dalla nascita del
figlio), può esporre il medesimo alla perdita del proprio status, a distanza di
tempo.
Il legislatore della riforma del diritto di famiglia
ha superato la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor
legitimitatis attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella
legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla
conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che
si acquisiscono con l'affermazione della verità naturale; anteriormente alla
riforma, infatti, la condizione deteriore del figlio naturale,
significativamente denominato "illegittimo", che non poteva nemmeno
ottenere il riconoscimento qualora uno dei genitori fosse coniugato,
costituiva, unitamente alla riprovazione sociale, una forte remora
all'accertamento della verità biologica della procreazione contrastante con
quella legale.
L'attribuzione di pari diritti ai figli naturali
rispetto a quelli legittimi, ad opera del riformato art. 261 del codice civile,
determinando il venir meno della posizione di privilegio di questi ultimi, ha
consentito l'acquisizione di status conformi alla realtà della procreazione,
senza più tema di gravi conseguenze pregiudizievoli legate alla condizione di
sfavore della filiazione naturale. Contemporaneamente le ipotesi di
accertamento della verità biologica sono state ampliate, sia mediante
l'eliminazione del divieto di riconoscimento dei figli "adulterini",
sia attraverso l'estensione della categoria dei soggetti legittimati
all'esperimento delle diverse azioni di stato, come si è verificato nell'ipotesi
dell'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, consentita
anche all'autore in mala fede del falso riconoscimento, o in quella del
disconoscimento di paternità, cui sono oggi legittimati anche la madre, il
figlio maggiorenne, il figlio che abbia compiuto i sedici anni e, con la
modifica introdotta dall'art. 81 della legge n. 184 del 1983 (Disciplina
dell'adozione e dell'affidamento dei minori), il pubblico ministero quando si
tratta di minori di età inferiore.
Le disposizioni normative che consentono di verificare
la conformità dello status alla realtà della procreazione hanno quindi
comportato l'affermazione del principio della tendenziale corrispondenza tra
certezza formale e verità naturale, la cui ricerca risulta agevolata dalle
avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall'elevatissimo
grado di attendibilità dei risultati delle indagini.
Nella crescente considerazione del favor veritatis non
si è ravvisata una ragione di conflitto con il favor minoris, poiché anzi la
verità biologica della procreazione si è ritenuta una componente essenziale
dell'interesse del medesimo minore, riconoscendosi espressamente l'esigenza di
garantire al figlio il diritto alla propria identità e precisamente
all'affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze nn. 216 e 112
del 1997), rispetto al quale può recedere l'intangibilità dello status,
allorché esso risulti privato del fondamento della presunta corrispondenza alla
verità biologica e quando risulti tempestivamente azionato il diritto.
Certamente il perseguimento del valore verità
determina il sacrificio della posizione familiare, affettiva e socio-economica
acquisita medio tempore dal figlio; tuttavia, la sofferenza del figlio
legittimo consapevole dell'apparenza solo formale del proprio status, contro la
quale nessuno dei soggetti legittimati abbia reagito, non è meno grave e
profonda rispetto a quella di chi sia posto innanzi alla verità della
procreazione.
5. - La dichiarazione di illegittimità costituzionale
va estesa, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, all'art.
244, primo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che anche
per la madre il termine per l'esercizio dell'azione di disconoscimento della
paternità a causa dell'impotenza solo di generare del marito decorra dal giorno
in cui essa sia venuta a conoscenza dell'anzidetta impotenza.
Mentre si giustifica la scelta del legislatore di far
decorrere il termine semestrale dalla nascita del figlio nelle ipotesi previste
dai numeri 1) e 3) dell'art. 235 del codice civile, in considerazione della
ovvia conoscenza, da parte della medesima moglie, delle circostanze della
procreazione, non altrettanto può dirsi nel caso di impotenza di generare del
marito; per quanto già affermato riguardo alle caratteristiche di tale forma di
impotenza, deve riconoscersi che anche la moglie può ignorare l'incapacità di
procreare del marito, sì che in questo caso le sarebbe precluso l'esercizio
dell'azione, in quanto la sola consapevolezza dell'adulterio non è elemento
sufficiente ad escludere la paternità del marito.
Una volta riconosciuto a favore della moglie un
interesse autonomo all'esercizio dell'azione in esame per tutte le ipotesi
contenute nell'art. 235, ciascuna delle quali, pur presupponendo l'adulterio, è
tuttavia caratterizzata da una propria causa petendi, costituisce evidente
lesione del diritto di azione correlare la decorrenza del termine, nell'ipotesi
prevista dal numero 2) dell'art. 235, alla nascita del figlio, anziché alla
conoscenza della impotenza del marito. Occorre precisare ancora che a
differenza della mancata coabitazione dei coniugi, dell'adulterio e del
celamento della gravidanza e della nascita - elementi costitutivi dell'azione
nei casi rispettivamente previsti dai numeri 1) e 3) dell'art. 235 - , di cui
la moglie ha sempre piena, diretta e completa cognizione, l'impotenza di
generare del marito è invece circostanza che può rimanere per lungo tempo
incognita, onde in tal caso il termine decorrerebbe nell'ignoranza, da parte
del titolare dell'azione, di un elemento costitutivo di essa.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 244,
secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che il termine
per la proposizione dell'azione di disconoscimento della paternità,
nell'ipotesi di impotenza solo di generare, contemplata dal numero 2) dell'art.
235 dello stesso codice, decorra per il marito dal giorno in cui esso sia
venuto a conoscenza della propria impotenza di generare;
dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 244, primo comma,
del codice civile, nella parte in cui non prevede che il termine per la
proposizione dell'azione di disconoscimento della paternità, nell'ipotesi di
impotenza solo di generare di cui al numero 2) dell'art. 235 dello stesso
codice, decorra per la moglie dal giorno in cui essa sia venuta a conoscenza
dell'impotenza di generare del marito.