Demansionamento
Ai sensi dell’art.56 del d.Lgs 165/2001, il dipendente pubblico deve essere
adibito alla mansioni per le quali è stato assunto o a quelle considerate
equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai
contratti collettivi, a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che
abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di
procedure concorsuali o selettive.
Nell’ambito delle mansioni afferenti lo specifico profilo professionale,
l’amministrazione può discrezionalmente assegnare al dipendente quelle che
ritiene più confacenti alle sue caratteristiche.
In sostanza, al lavoratore non possono essere assegnate mansioni inferiori e
ciò neppure se formalmente rimanga inalterata la sua collocazione
nell’amministrazione di appartenenza.
L’amministrazione datrice di lavoro può, nell’ambito della sua potestà
organizzativa, esercitare nei confronti del dipendente lo ius variandi ( il
diritto cioè di adibire il personale a mansioni diverse ) purchè le nuove
mansioni siano equivalenti a quelle di assunzione, consentendo al lavoratore
l’utilizzo della professionalità acquisita e l’arricchimento del patrimonio
professionale, e purchè, naturalmente ciò non determini una riduzione del
trattamento economico.
Costituisce illegittimo demansionamento non solo l’assegnazione a mansioni non
corrispondenti all’inquadramento contrattuale del lavoratore, ma altresì la
sottrazione di tutte o della maggior parte delle mansioni precedentemente
esercitate, determinando un danno alla professionalità del lavoratore.
A fronte dell’assegnazione a mansioni inferiori, alla stregua dei criteri sopra
evidenziati, o di una prolungata e forzata inoperatività, il lavoratore può
agire in giudizio, previo esperimento del tentativo obbligatorio di
conciliazione, per richiedere la condanna del datore di lavoro alla
reintegrazione nelle mansioni precedentemente svolte nonché al risarcimento del
danno subito. In particolare, ove durante il tempo occorrente per ottenere una
decisione definitiva il lavoratore possa subire, per effetto del
demansionamento, un danno grave e irreparabile, compromettendone lo sviluppo
professionale e pregiudicando i risultati già acquisiti, questi può ricorrere
allo strumento cautelare, può cioè richiedere con un provvedimento d’urgenza
l’immediato reintegro nelle mansioni di competenza.
Il lavoratore che subisce il demansionamento può in ogni caso chiedere il
risarcimento del danno subito. Si tratta nella fattispecie di un danno alla
professionalità, all’immagine, nonché di un danno da perdita di chance.
Tale danno viene, di regola, calcolato in via equitativa, sebbene la
giurisprudenza si sia oramai orientata nel senso di far riferimento, nella
liquidazione, ad una quota della retribuzione mensile, crescente con il
perdurare del tempo della lesione della professionalità.
In ordine ai presupposti per il risarcimento del danno da demansionamento si
sono formati in giurisprudenza tre orientamenti .
Secondo un primo orientamento nel caso di illegittimo demansionamento che
comporti pregiudizio alla vita professionale e di relazione, è possibile il
risarcimento del danno derivante dal pregiudizio di natura non patrimoniale
subito da liquidarsi in via equitativa ex art.1226 cc. Ciò purchè il lavoratore
provi l’effettiva sussistenza del danno, tale prova viene dunque a costituire
un presupposto indefettibile anche nel caso di liquidazione in via equitativa.
( vedi sul punto Cass. 1026/97). In sostanza, alla stregua di questa
interpretazione, il danno non è conseguenza automatica del comportamento
illegittimo, ma il lavoratore deve fornirne la prova alla stregua degli
ordinari criteri di riparto dell’onere della prova.
Secondo un altro orientamento, il comportamento del datore di lavoro che
adibisca il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è
stato assunto viola più profili che solo in parte hanno rilievo economico. Tale
condotta infatti, oltre a violare il disposto dell’art.2103 del codice civile,
lede un diritto fondamentale quale quello del lavoratore alla libera
esplicazione della professionalità nel luogo di lavoro e nella vita di
relazione. Tale lesione ha risvolti patrimoniali suscettibili di essere
risarciti alla stregua di una valutazione equitativa. Quest’indirizzo afferma
che il risarcimento può essere riconosciuto anche nell’ipotesi in cui sia
mancata la dimostrazione del pregiudizio professionale.
Un terzo orientamento intermedio, infine, ritiene che il giudice, nel caso di
violazione dell’art.2103 cc, può desumere l’esistenza del danno in base agli
elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione o ad altre
circostanze di fatto.In sostanza il Giudice può procedere ad una valutazione
equitativa rispetto alla quale non sarebbe ostativa un’eventuale consulenza
tecnica con esito negativo né l’eventuale erroneità dei parametri risarcitori
forniti dal danneggiato stesso.