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Mansioni superiori - differenze retributive - applicabilità.
La Corte di Cassazione, sez. lav., con sentenza n. 91 dell'8 gennaio 2004, aderisce a quell’orientamento giurisprudenziale che sostiene la valenza retroattiva dell'art. 15 del D.Lgs. 29 ottobre 1998 n. 387 (provvedimento con cui sono state emanate varie disposizioni "integrative e correttive" del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, e successive modificazioni, e del D.Lgs. 31 marzo 1998 n. 80), con il quale è stato soppresso il divieto di corresponsione delle differenze retributive nel pubblico impiego nel caso di adibizione del dipendente a mansioni superiori.
Tale interpretazione risulta conforme all’orientamento accolto dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto applicabile anche al pubblico impiego il principio della proporzionalità della retribuzione rispetto alla qualità e quantità del lavoro svolto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Trento, alcuni dipendenti dell'Inps, inquadrati nel 6° livello, e precisamente A.D.B., F.P., S.G., G.C., I.V., C.M., B.G., E.L., C.G. e L.B., chiedevano che, previo accertamento delle svolgimento da parte loro di mansioni corrispondenti alla qualifica di 7° livello funzionale a partire dalle date distintamente specificate per ciascuno dei ricorrenti, l'Inps fosse condannato ad inquadrarli in detto 7° livello e a corrispondere loro il relativo superiore trattamento economico, nei limiti della prescrizione.
L'Inps, eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e, nel merito, la prescrizione sia del diritto all'inquadramento superiore che di quello alle differenze retributive, sosteneva che le domande erano infondate, poiché nel pubblico impiego, in difetto di specifiche previsioni normative, lo svolgimento di mansioni superiori non attribuisce alcun diritto, né ai fini dell'inquadramento, né ai fini del trattamento economico.
Il giudice adito, con sentenza non definitiva, accoglieva l'eccezione di difetto di giurisdizione con riferimento ai diritti rivendicati che erano sorti anteriormente al 1 luglio 1998 e rigettava la domanda di riconoscimento del diritto all'inquadramento nel 7° livello per la parte in cui la fattispecie acquisitiva si sarebbe perfezionata in epoca posteriore al 30 giugno 1998, ma anteriore al 16 dicembre 1999, data di stipulazione del c.c.n.l. per il comparto degli enti pubblici economici.
Con la successiva sentenza definitiva il medesimo giudice rigettava la domanda di inquadramento nel livello superiore con riferimento alle mansioni espletate successivamente a tale ultima data, mentre accertava che nel periodo dal 1 luglio 1998 (data di inizio della giurisdizione del giudice ordinario) al 24 settembre 1999 (data del ricorso) i ricorrenti - ad eccezione di G.B., il cui rapporto era cessato prima del 30 giugno 1998 - avevano esercitato mansioni riconducibili alla 7° qualifica funzionale e riconosceva il diritto dei medesimi alle conseguenti differenze retributive.
La sentenza definitiva era appellata dall'Inps che contestava l'effettivo svolgimento di mansioni superiori ed anche che da tale svolgimento potesse derivare il diritto ad una maggiore retribuzione.
La Corte d'appello di Trento, confermava la sentenza impugnata, osservando, per quanto ancora rileva, che non era condivisibile la tesi dell'Inps, secondo cui, in caso di svolgimento di mansioni superiori, non era riconoscibile il diritto a differenze di retribuzioni, in base alla previsione dell'art. 56 del D.Lgs. n. 29 del 1993, nel testo di cui all'art. 25 del D.Lgs. n. 80 del 1998, fin quando la disposizione che escludeva ogni rilevanza dello svolgimento di mansioni superiori fino alla disciplina della materia in sede di stipulazione di nuovi contratti collettivi non era stata eliminata dall'art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998.
In senso contrario il giudice di secondo grado faceva riferimento all'orientamento secondo cui, nell'ambito del pubblico impiego, lo svolgimento di mansioni superiori, sebbene non attribuisca il diritto al riconoscimento della relativa qualifica, comporta tuttavia il diritto alla corresponsione della relativa retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost. e dell'art. 2126 c.c.
Contro questa sentenza l'Inps propone ricorso per Cassazione.
Le controparti resistono con controricorso e propongono ricorso incidentale.
L'Inps ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
L'Inps denuncia violazione dell'art. 25 del D.Lgs. n. 80 del 1998, dell'art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998 e dell'art. 56 del D.Lgs. n. 29 del 1993 (ora art. 52 del T.U. approvato con il D.Lgs. n. 165 del 2001).
Lamenta che il giudice di secondo grado abbia palesemente violato il disposto del sesto comma dell'art. 56 del D.Lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui prevedeva in relazione al pubblico impiego cd. privatizzato, prima che le relative parole fossero state eliminate dall'art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998, la inidoneità in ogni caso dello svolgimento di mansioni superiori anche ai fini del diritto alla corrispondente retribuzione, fino all'attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi.
D'altra parte il richiamo a taluni orientamenti della giurisprudenza amministrativa circa gli effetti dello svolgimento di mansioni superiori era irrilevante in riferimento alla chiarezza del successivo dato normativo e, comunque, era criticabile, poiché di segno diverso era la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato.
Ne consegue, secondo il ricorrente, che la pretesa avversaria avrebbe potuto essere presa in considerazione solo per il periodo successivo al 22 novembre 1998, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 387 del 1998 (considerato anche che il c.c.n.l. del comparto, sottoscritto il 16 febbraio 1999, non conteneva nessuna disposizione in materia).
I ricorrenti in via incidentale, denunciando la violazione dell'art. 112 c.p.c., lamentano il mancato esame della loro eccezione di inammissibilità dell'appello, motivata in relazione alla mancata impugnazione della sentenza non definitiva, con cui, "in ordine alla domanda concernente il diritto al trattamento economico superiore sorto per effetto del concreto svolgimento delle mansioni superiori avvenuto a far data dal 1° luglio 1998", aveva disposto con separata ordinanza per il proseguimento della causa, così pronunciandosi sul dies a quo della decorrenza.
Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti, avendo ad oggetto la stessa sentenza.
Preliminarmente è necessario rilevare che il giudice di primo grado, con la sentenza definitiva, dato atto nelle premesse che il rapporto di lavoro di B.G. era cessato in data 31 marzo 1998 e che, peraltro, la sua domanda era stata formulata con puntuale riferimento a tale circostanza, non aveva neanche preso in considerazione la posizione della medesima ai fini del riconoscimento di differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori a partire dal 1 luglio 1998.
Poiché non risulta che la sentenza sia stata appellata dalla G., è evidente che le relative statuizioni sono coperte dal giudicato e che, così come in realtà sussisteva un difetto di interesse dell'Inps ad appellare nei suoi confronti la sentenza di primo grado, così lo stesso istituto non è interessato ad impugnare la sentenza di appello nei confronti della G. e quest'ultima non ha interesse al proposto ricorso incidentale.
Quest'ultimo ricorso, peraltro, deve essere rigettato anche con riferimento alle altre parti.
Premesso che l'impugnazione riguarda una questione processuale in ordine alla quale sussiste piena cognizione della Corte di Cassazione, deve rilevarsi che la censura è basata su un'interpretazione erronea della sentenza non definitiva di primo grado.
Il giudice, infatti, parlando di "domanda concernente il trattamento economico superiore sorto per effetto del concreto svolgimento delle mansioni superiori avvenuto a far data dal 1.7.1998", non ha certo inteso provvedere in alcun modo sul merito, ma solo indicare gli elementi necessari per delimitare la parte della domanda su cui si sarebbe provveduto nell'ulteriore corso del giudizio, come specificato nella parte finale dello stesso alinea del dispositivo.
Del resto la tesi sostenuta dai ricorrenti in via incidentale non trova alcun riscontro nella motivazione della sentenza non definitiva di primo grado o nella motivazione dell'ordinanza in pari data, con cui si è disposta l'ammissione di una prova sulla questione di fatto relativa allo svolgimento di mansioni superiori.
E' infondato anche il ricorso principale.
Nel presente giudizio di legittimità è rilevante stabilire se abbia o meno efficacia retroattiva l'art. 15 del D.Lgs. 29 ottobre 1998 n. 387 (provvedimento con cui sono state emanate varie disposizioni "integrative e correttive" del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, e successive modificazioni, e del D.Lgs. 31 marzo 1998 n. 80) che recita: "All'articolo 56, comma 6, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, ultimo periodo sono soppresse le parole: "a differenze retributive".
La soluzione di detta questione interpretativa è anche decisiva, poiché l'istituto ricorrente in concreto ha censurato la sentenza impugnata solo per la violazione dell'art. 56, comma 6, del D.Lgs. n. 29 del 1993 e dell'art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998, sotto il profilo che, nel periodo dal 1° luglio 1998 al 21 novembre 1998, era proprio la vigenza della norma prevedente l'esclusione del diritto a differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori ad ostare alla rilevanza in tal senso delle prestazioni lavorative e a viziare la sentenza impugnata.
E' in questione il testo dell'art. 56 del D.Lgs. n. 29 del 1993 introdotto dall'art. 25 del D.Lgs. n. 80 del 1998, al fine di disciplinare, nell'ambito dell'impiego pubblico "privatizzato", le mansioni dei lavoratori, materia precedentemente regolata in parte dall'art. 56 e in parte dall'art. 57.
Per quanto ora più direttamente interessa, è opportuno ricordare che il comma 2 dell'art. 56 prevede la possibilità di assegnare il prestatore di lavoro a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore, in caso di obiettive esigenze di servizio, nelle sole ipotesi, però, che sussista la vacanza del posto in organico o la necessità di sostituire un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto.
Il comma 5 qualifica come nulla l'assegnazione alle mansioni superiori al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, ma riconosce al lavoratore il diritto al trattamento economico della qualifica superiore, salva l'eventuale responsabilità per il relativo onere economico del dirigente che abbia disposto l'assegnazione, in caso di dolo o colpa grave.
Il comma 6, nel testo originario ex art. 25 del D.Lgs. n. 80 del 1998, recita: "Le disposizioni del presente articolo si applicano in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabiliti. I medesimi contratti collettivi possono regolare diversamente gli effetti di cui ai commi 2, 3 e 4.
Fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza, può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell'inquadramento professionale del lavoratore".
Può ricordarsi anche, quanto all'ultimo inciso, che nell'ultima parte del comma 1 è precisato che l'esercizio di fatto di fatto di mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione.
Ai fini dell'eventuale riconoscimento di un'efficacia retroattiva alla modifica del comma 6 disposta dall'art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998, appare importante rilevare che l'ultimo periodo di detto comma è indubbiamente una disposizione di carattere transitorio, così come, del resto, anche la prima parte dello stesso comma 6.
Le disposizioni normative transitorie del genere di quella in esame si caratterizzano per il fatto che l'arco temporale della loro applicabilità è precisata (più o meno esplicitamente) dalla disposizione stessa.
Così, quando nel sesto comma si dice "fino a tale data", si intende dire "dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 80 del 1998, che ha introdotto la relativa disposizione, fino alla attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali ecc." (le considerazioni che seguono varrebbero a fortiori se si attribuisse all'ultima parte del sesto comma una funzione interpretativa ed effetti retroattivi e quindi il momento iniziale del periodo di riferimento fosse spostabile fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 29 del 1993, o ancora indietro senza limiti).
Per tale aspetto simili disposizioni transitorie differiscono dalle disposizioni ordinarie.
Queste ultime, infatti, sono formulate in termini atemporali e la delimitazione della loro efficacia nel tempo deriva dal principio, recepito dagli artt. 11 e 15 delle preleggi (disposizioni sulla legge in generale), per cui, salvo diversa precisazione, esse operano con riferimento alle fattispecie costitutive verificatesi nell'arco di tempo della loro vigenza.
La particolare struttura e funzione delle disposizioni transitorie può avere riflessi in sede di interpretazione di norme che modifichino il loro testo.
Infatti, se la modifica testuale si inserisce non in una disposizione formulata in modo atemporale, ma in una disposizione che, in maniera più o meno esplicita, dica "nel periodo da x a y si applicherà la seguente regola ...", è evidente che, da un punto di vista della sua potenzialità logica ed espressiva, la modifica è idonea ad incidere sulla regolamentazione applicabile a tutto il periodo transitorio.
Nella specie, tale potenzialità formale della disposizione trova conferma in rilevanti elementi sostanziali, inerenti alle ragioni dell'intervento normativo correttivo.
Può senz'altro dirsi, infatti, che il legislatore ha preso atto dei gravi dubbi di costituzionalità prospettabili rispetto a una disposizione che, escludendo, indiscriminatamente, ogni possibile rilievo dello svolgimento di mansioni superiori sul trattamento economico del lavoratore dipendente da pubbliche amministrazione, si poneva in contrasto con un ampio indirizzo giurisprudenziale della Corte Costituzionale di segno diverso.
E, in effetti, la Corte Costituzionale con serie di sentenze e ordinanze, interpretative di rigetto, di rigetto, o dichiarative della manifesta infondatezza delle questioni sollevate (sentenze n. 57/1989, 296/1990, 236/1992, 101/1995, 115/2003; ordinanze n. 289/1996, n. 347/1996, 349/2001, 100/2002; cfr. anche la recentissima sent. n. 229/2003, dichiarativa di inammissibilità delle questioni sollevate), ha ritenuto l'applicabilità anche nell'ambito del pubblico impiego dell'art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, e la correlata non rilevanza ostativa, a norma dell'art. 2126 c.c., della illegittimità dei provvedimenti di assegnazione del dipendente a mansioni diverse e superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza.
In particolare nella prima pronuncia in materia è stata messa in collegamento l'applicabilità della citata norma costituzionale con la configurabilità di situazioni di ingiustificato arricchimento della Pubblica Amministrazione, nel caso in cui l'adibizione del dipendente a mansioni superiori oltre il limite temporale massimo specificato dalla normativa speciale applicabile al rapporto oggetto del giudizio non avesse riconoscimento sul piano economico.
Appare molto significativa, poi, la costante prospettazione da parte della Corte Costituzionale della tesi secondo cui l'art. 33 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (T.U. impiegati civili dello Stato) è interpretabile nel senso che esso non pregiudica il trattamento economico del dipendente nei casi - non disciplinati dalla norma - di adibizione a mansioni superiori.
Anche talune precisazioni circa possibili limitazioni di operatività dell'art. 36 Cost. nel pubblico impiego, rispetto ad un'ipotizzata schematica applicazione di una regola correlante la retribuzione della categoria superiore allo svolgimento delle mansioni relative - cfr. soprattutto il rilievo particolare attribuito da Corte cost. n. 101/1995 alla sussistenza o meno del presupposto di una vacanza nell'organico o della necessità di sostituire dipendente con diritto alla conservazione del posto - non hanno posto in discussione la direttiva fondamentale della desumibilità, in linea di principio, dall'art. 36 Cost. e dall'art. 2126 c.c., del diritto del pubblico dipendente ad una retribuzione idonea a compensare le mansioni a cui lo stesso è stato effettivamente adibito, anche se con provvedimenti illegittimi.
Ne consegue che l'assoluta esclusione, da parte del nuovo art. 56, comma 6, del diritto a differenze di retribuzione nel caso di svolgimento di mansioni superiori rispetto al qualifica di appartenenza è giustificatamente apparsa al legislatore delegato, ad un più meditato esame, come una norma in contrasto con i principi costituzionali, da espungere quindi in occasione del primo intervento correttivo.
Tale essendo l'evidente ratio della disposizione correttiva, è giustificata l'interpretazione che attribuisce alla medesima la sua massima potenzialità rispetto alla sua ragione e alla sua funzione, e cioè un'efficacia retroattiva.
Al riguardo deve anche considerasi che, a seguito della contrattualizzazione dei rapporti lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, e in misura ancora maggiore dopo che, con la riforma attuata dal D.Lgs. n. 80 del 1998, è stato chiarito che tutte le determinazioni inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono adottate con atti di diritto privato (secondo comma, del nuovo art. 4 del D.Lgs. n. 29 del 1993, ora art. 5 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165), nel quadro di una ampia valorizzazione delle attribuzioni e delle responsabilità dei dirigenti, non appaiono più plausibili le ipotesi interpretative secondo cui il diritto del dipendente, destinatario di un provvedimento di assegnazione a mansioni superiori, ad una congrua retribuzione, potrebbe essere condizionato dalle circostanze obiettive (peraltro in genere non rientranti nell'ambito di una agevole possibilità di controllo da parte del dipendente stesso), relative alla sussistenza o meno di una vacanza nell'organico o della necessità di sostituire altro dipendente con diritto al conservazione del posto.
Del resto le implicazioni del nuovo quadro normativo si sono riflesse nell'art. 56, comma 5, che prevede espressamente il diritto al trattamento superiore a prescindere dalla legittimità dell'assegnazione alle mansioni superiori, spostando, per così dire, il rischio sul dirigente che ha disposto l'assegnazione (peraltro già il previgente art. 57, nel testo introdotto dall'art. 25 del D.Lgs. n. 546 del 1993 - pur non diventato mai concretamente operativo per l'effetto della norma transitoria del sesto comma e di una disposizioni che, via via, differirono la data ultima di differimento della entrata in vigore dell'art. 57: cfr. al riguardo Corte cost. n. 229/2003 - riconosceva, senza prevederne limiti, il diritto al trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori svolte, lasciando spazio alla eventuale responsabilità disciplinare e patrimoniale del dirigente).
D'altra parte proprio la consapevolezza delle potenzialità del quadro normativo complessivo aveva ispirato l'inserimento, nella disposizione transitoria che rinviava l'entrata in vigore dell'art. 56, della disposizione limitativa dei diritti dei dipendenti.
E' importante anche rilevare che la stessa Corte Costituzionale ha presupposto una possibile efficacia retroattiva di detto art. 25, nel momento in cui, con l'ord. n. 146/1999, ha restituito gli atti al giudice che aveva sollevato la questione di costituzionalità dell'art. 56, comma 6, ultimo periodo, affinché verificasse la perdurante rilevanza della questione, a seguito della soppressione del divieto di riconoscimento delle differenze retributive.
Deve, infine, sottolinearsi che l'attribuzione di efficacia retroattiva alla disposizione correttiva di cui all'art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998 assicura - diversamente della opposta interpretazione - la conformità ai principi costituzionali della normativa vigente precedentemente, e quindi è rispettosa del criterio interpretativo secondo cui deve preferirsi l'interpretazione che comporta un quadro normativo compatibile con le prescrizioni costituzionali.
Si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del giudizio.
P.Q.M.
Così deciso in Roma, il 3 luglio 2003.
Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2004