Trasferimenti - principio di buona fede - applicabilità.
Con sentenza n. 11597 del 28-07-2003 la Cassazione Civile afferma il principio per il quale nell’esecuzione del contratto di lavoro il comportamento del datore di lavoro deve conformarsi al principio di correttezza e buona fede, di cui all'art. 1375 c.c., da applicarsi anche ai trasferimenti. In quest’ultimo caso l’applicazione del suddetto principio comporta che ove il datore di lavoro abbia a disposizione diverse soluzioni organizzative, per lui paritarie, egli debba scegliere quella meno gravosa per il dipendente, specie ove questi adduca e comprovi serie ragioni familiari.
Svolgimento del processo
Con ricorso in data 4 settembre 1997 Mario Di Bartolomeo ha convenuto la s.p.a. Poste Italiane avanti al Pretore di L'Aquila, giudice del lavoro, esponendo: dipendente dell'allora Ente Poste Italiane dal 1986 come operatore di recapito in servizio presso l'agenzia di Sulmona, aveva chiesto al medesimo Pretore, con precedente ricorso del marzo 1997, il riconoscimento del diritto all'utilizzo di un mezzo fornito dall'Ente per il recapito della corrispondenza; di avere successivamente dichiarato la propria indisponibilità a continuare a servirsi del mezzo proprio per l'espletamento del servizio d'istituto; che il datore di lavoro lo aveva trasferito presso il C.P.O. di L'Aquila. Tanto premesso,, insorgeva avverso tale provvedimento, del quale denunciava l'illegittimità per l'insussistenza dei presupposti giustificativi, per il suo carattere di ritorsione, e perché gli precludeva ogni possibilità di assistenza al figlio minore, invalida al 100% a seguito di patologia cardiaca. Chiedeva di essere reintegrato nell'originaria sede lavorativa, e la condanna di parte convenuta al risarcimento dei danni conseguiti alla descritta condotta, da liquidarsi nei limiti di giustizia.
Si costituiva in giudizio l'Ente Poste Italiane che si opponeva alla domanda rilevando come il disposto trasferimento era motivato dalla necessità di impiegare il Di Bartolomeo presso una zona urbana, dove non fosse indispensabile l'uso del mezzo proprio per il disbrigo delle relative mansioni.
All'esito dell'espletata attività istruttoria, il Giudice del lavoro del Tribunale di L'Aquila, con sentenza 19 agosto 1999 n. 149, accoglieva la domanda e, dichiarata l'illegittimità del provvedimento di trasferimento condannava parte convenuta alla reintegrazione del dipendente presso l'agenzia di Sulmona ed al risarcimento del danno, quantificato in complessive L. 20.000.000.
L'appello dell'Ente Poste Italiane è stato accolto dal Tribunale di L'aquila che, con sentenza 23 febbraio/11 aprile 2000 n. 66, in riforma della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda.
Il ragionamento del Tribunale si è sviluppato attraverso i seguenti passaggi logico-giuridici:
1) l'unico presupposto di legittimità del trasferimento del lavoratore da un'unità produttiva ad un'altra, richiesto dall'art. 2103 c.c., è la sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, e pertanto il controllo giudiziale resta circoscritto al nesso di causalità tra il provvedimento di trasferimento e le predette ragioni poste a fondamento della scelta imprenditoriale, senza che sia sindacabile il merito di tale scelta al fine di valutarne l'idoneità o di sindacare l'opportunità del provvedimento e la scelta fra più soluzioni organizzative egualmente ragionevoli, salva una diversa disposizione della contrattazione collettiva e l'applicazione dei principi di correttezza e di buona fede. Citava al riguardo il precedente di questa Corte 18 novembre 1998, n. 11634.
2) Il Di Bartolomeo aveva posto in essere un'aspra controversia (definita con la sentenza del Pretore di L'Aquila,, in funzione di giudice del lavoro, con la quale era stata respinta la domanda del medesimo Di Bartolomeo) diretta ad ottenere l'assegnazione di un autoveicolo da parte del datore di lavoro, all'esito della quale aveva dichiarato la propria indisponibilità ad utilizzare il proprio automezzo per il recapito della posta, determinazione che aveva comportato inevitabili disservizi nell'andamento dell'attività dell'Ente. Da ciò il Tribunale desumeva che il disposto trasferimento deve essere ritenuto legittimo in quanto diretto alla salvaguardia delle ragioni organizzative e produttive di cui all'art. 2103 c.c. e dell'art. 28 del C.C.N.L.. Né rileva, secondo il Tribunale, che il lavoratore avrebbe potuto essere collocato nella zona di Sulmona, in ambito di utenza per il quale non era richiesto l'uso di autoveicolo per la consegna della posta, trattandosi di questione di merito o di opportunità che non soggiace al sindacato del giudice (ed essendovi, d'altra parte, ragioni pseudo-disciplinari ostative alla permanenza del lavoratore nell'area di Sulmona, in considerazione delle concrete modalità di attuazione della protesta operata dal Di Bartolomeo e dei disservizi che ne erano conseguiti).
La sentenza impugnata prosegue con l'affermazione che il comportamento datoriale è legittimo anche sotto il profilo che, quando nel comportamento del dipendente può essere configurabile al tempo stesso sia un fatto rilevante sotto il profilo disciplinare, sia una delle ragioni tecniche, organizzative e produttive che consentono, a norma dell'art. 2103 c.c., il trasferimento del dipendente medesimo, il datore di lavoro può legittimamente far ricorso all'uno o all'altro di detti provvedimenti senza che, se abbia optato per il secondo, questo possa essere ritenuto illegittimo in quanto sanzione atipica rispetto ai provvedimenti in materia disciplinare. Citava al riguardo Cass. 26 marzo 1998, n. 3207.
Alla luce dei principi sopra enunciati, il Tribunale concludeva che il trasferimento del Di Bartolomeo dall'agenzia di Sulmona (ove per il disbrigo delle mansioni affidategli di portalettere, era necessario, nella zona a lui assegnata, l'uso di automezzo) alla sede di L'Aquila (dove il recapito della corrispondenza non necessita di automezzo, trattandosi di area urbana) trova giustificazione nell'esigenza di garantire la funzionalità del servizio che il lavoratore non era in grado di assicurare nella sede di Sulmona.
Infine il Tribunale escludeva che la situazione familiare del lavoratore potesse essere presa in considerazione, per difetto di prova della situazione protetta di cui alla legge n. 104 del 1992.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Di Bartolomeo, con tre motivi.
La intimata società si è costituita con controricorso, resistendo.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. e dell'art. 1375 c.c., nonché dell'art. 39 Cost., ultimo comma, seconda parte, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) censura la sentenza impugnata sotto i seguenti gradati profili:
1) per non avere giustificato il presupposto di tutto il ragionamento, e cioè che sia legittima la pretesa del datore di lavoro che il lavoratore fornisca lo strumento di lavoro, e quindi illegittimo il rifiuto del lavoratore di utilizzare il mezzo proprio. Come ripreso anche nel secondo motivo, imputa al Tribunale di non essersi fatto carico di spiegare quale sia la norma che configura come illecito il rifiuto del dipendente di utilizzare un proprio autoveicolo per l'espletamento del servizio;
2) omessa motivazione nella misura in cui non tiene in alcuna considerazione la possibilità di svolgimento del servizio di recapito senza autoveicolo nella zona n. 2 di Sulmona centro, emersa nel corso della istruttoria, in quanto vacante;
3) contraddittorietà della motivazione, per avere, da una parte, evocato i principi di correttezza e buona fede, e dall'altra non esaminando, sotto tale profilo, la mancata applicazione presso la zona n. 2 di Sulmona centro, scoperta.
Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2106 c.c., dell'art. 39 Cost., ultimo comma, seconda parte, e dell'art. 7, 1 comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 ( art. 360 c.p.c., n. 3); nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 437 c.p.c. ( art. 360 c.p.c., n. 4), censura la sentenza impugnata per avere affermato una rilevanza disciplinare del comportamento del dipendente, mai sostenuta dalle Poste, in contrasto con la mancata applicazione dell'art. 34 C.C.N.L. attinente alla materia disciplinare, ed alla stessa sentenza, che aveva parlato solo di aspra protesta.
Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 33, 5 comma, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 ( art. 360 c.p.c., n. 3), censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la sussistenza delle condizioni di cui alla legge n. 104 del 1992, senza avere svolto gli accertamenti richiesti, sulla base di idonea allegazione e corredo documentale dell'infermità del minore.
I tre motivi, da esaminare unitariamente per la loro connessione, sono fondati.
Si deve premettere che l'azienda, con l'accoglimento della richiesta del lavoratore, di svolgere il servizio a piedi, ne ha riconosciuto la legittimità. Essa inoltre non ha mai dedotto un obbligo del Bartolomeo di svolgere il servizio di istituto con l'uso di un autoveicolo personale, né ha dedotto che via sia una norma contrattuale che lo preveda. infine non ha mai prospettato profili di rilevanza disciplinare.
Ciò precisato, è la stessa sentenza impugnata che riconosce, conformemente alla costante giurisprudenza di questa Corte, che il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di lavoro, di cui all'art. 1375 c.c., costituisce il limite nell'esercizio dei poteri imprenditoriali, e quindi anche nell'applicazione funzionale dell'art. 2103 c.c. in tema di trasferimenti.
E' ben vero che, come ricordato dalla sentenza impugnata, l'art. 2103 c.c. richiede come unico presupposto di legittimità la sussistenza di "comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive", restando pertanto circoscritto il controllo giudiziale all'accertamento del nesso di causalità tra il provvedimento di trasferimento e le predette ragioni poste a fondamento della scelta imprenditoriale, senza che sia sindacabile il merito di tale scelta al fine di valutarne l'idoneità o inevitabilità (Cass. 18 novembre 1998 n. 11634, cui "adde" Cass. 9 giugno 1993, n. 6408 e Cass. 28 novembre 1994, n. 10122).
Ma è altresì vero che quando il datore di lavoro ha a disposizione diverse soluzioni organizzative, per lui paritarie (ipotesi non considerata nelle sentenze citate), il principio di buona fede nella esecuzione del contratto gli impone di scegliere quella meno gravosa per il dipendente, specie ove questi adduca e comprovi serie ragioni familiari (Cass. 12 luglio 2001 n. 9459, in tema di rilevanza dei figli da curare nella scelta della sede del trasferimento del dipendente).
La motivazione della sentenza impugnata risulta pertanto contraddittoria sotto due distinti profili: per non avere apprezzato, in relazione al principio di diritto enunciato dell'esercizio dei poteri imprenditoriali secondo buona fede, e qui precisato, l'esistenza di una zona urbana in Sulmona, vacante, dove il Bartolomeo avrebbe potuto svolgere a piedi la propria attività di portalettere, con minore aggravio rispetto alla città di L'Aquila.
Al riguardo il Tribunale non poteva prendere in considerazione profili disciplinari, mai prospettati dall'azienda (sicché risulta fondato il secondo motivo di ricorso), che ha deciso il provvedimento sulla base del solo art. 2103, profilo sotto il quale doveva essere esclusivamente valutato il provvedimento.
In secondo luogo, il Tribunale non poteva esimersi dal valutare la correttezza del provvedimento sotto il profilo allegato dal lavoratore, dell'esistenza di un figlio minore handicappato che egli aveva l'obbligo di curare.
Al riguardo l'art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 configura, nei commi 1-7, speciali diritti, in tema di assenze dal lavoro, di scelta del luogo di lavoro e di trasferimento, per quei lavoratori che assistono familiari in una situazione di gravità definita dall'art. 3 ed accertata con le procedure di cui all'art. 4 stessa legge.
Il giudice d'appello ha affermato che non vi è alcuna prova della ricorrenza nella specie delle condizioni di cui alla legge n. 104 del 1992, senza precisare se intendeva riferirsi alla gravità dell'handicap, al suo accertamento, al rapporto familiare, all'esigenza di assistenza.
Avendo il ricorrente prodotto documentazione sanitaria al riguardo, questa costituiva una pista probatoria che il Tribunale aveva l'obbligo di esplorare, secondo antica giurisprudenza di merito, e poi di legittimità, ormai consolidata (da ultimo Cass. 6 luglio 2000 n. 9034).
Si deve inoltre osservare che una situazione di bisogno familiare, la quale non rivesta la gravità o che non sia stata accertata secondo la legge n. 104 del 1992, può essere rilevante se dedotta e funzionale al giudizio di correttezza e buona fede nell'esercizio dello "jus variandi", nei limiti del principio di diritto sopra enunciato.
Il ricorso va pertanto accolto, la sentenza impugnata cassata, e gli atti trasmessi alla Corte d'appello di Roma, la quale deciderà la causa attenendosi al seguente principio di diritto:
"Il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di lavoro, di cui all'art. 1375 c.c., da applicarsi anche ai trasferimenti, comporta che ove il datore di lavoro abbia a disposizione diverse soluzioni organizzative, per lui paritarie, egli debba scegliere quella meno gravosa per il dipendente, specie ove questi adduca e comprovi serie ragioni familiari".
Il giudice del rinvio provvederà altresì alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Roma.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 2 dicembre 2002.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 28 LUG. 2003