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Dipendente da ente pubblico locale -Demansionamento- Responsabilità dell’ente locale per risarcimento danno alla professionalità, per omissione ed avvallo dell’illecito comportamento mobbizzante, in solido con il dipendente-mobber.

 Il Tribunale di Trieste ribadisce il principio in base al quale anche il datore di lavoro pubblico  è tenuto ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del prestatore di lavoro ed è responsabile anche per il fatto illecito dei propri dipendenti.

Tribunale di Trieste (sez. lav. 1° grado)  10 dicembre 2003  

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 14 febbraio 2002 e notificato il 25.2.2002 P. Stefano esponeva di essere dipendente della Camera di Commercio Industria e Artigianato di Trieste (di seguito CCIAA) dal 1980 e di essere inquadrato attualmente al livello D ?posizione D4 del ccnl ? VIII qualifica funzionale del dPR 347/83, conseguita nel 1987;

descriveva la struttura della CCIAA distinta in settori di attività, comprensivi dei servizi a loro volta distinti in uffici, precisando che ne era segretario generale il dott. A.F., come tale preposto alla gestione del personale;

descriveva la progressione di carriera e le funzioni espletate precisando che nel 1983 era responsabile dell?ufficio che curava le pratiche relative ai procedimenti sanzionatori di competenza dell?UPICA;

 che nel 1987, aveva conseguito la VIII q.f. e il ruolo di capo servizio IV che comprendeva vari uffici (ufficio protesti cambiari, affari economici, albi e ruoli, borsa valori, borsa merci, centro elaborazione dati, e incombenze relative a Fiere e mostre) ed era alle dirette dipendenze del vice segretario generale godendo di una indennità economica prevista per i funzionari che dirigevano unità operative complesse;

che nel 1989 era stato trasferito al settore III con la qualifica di capo servizio V, comprensivo dell?ufficio Studi e documentazione, UPS, Industria, Trasporti e Affari Economici, oltreché segretario della sezione Trasporti Aerei Marittimi e Terrestri e della sezione Turismo e responsabile amministrativo dei consorzi costituiti dalla CCIAA e successivamente dei gruppi di imprese (ruolo per il quale era alle dirette dipendenze del Presidente); che girava il mondo promuovendo l?economia di Trieste, predisponendo e curando le relative iniziative (partecipazione a fiere, allestimenti di stands, curando i rapporti con fornitori e funzionari);

che svolgeva anche attività nell?ambito della formazione professionale, dell?ufficio provinciale industria, della raccolta di usi e consuetudini e delle sanzioni amministrative;

che il proprio ufficio era allora collocato al primo piano, riservato agli uffici direttivi più importanti ed egli godeva di massima stima e considerazione per la professionalità con cui svolgeva il proprio ruolo;

dichiarava che dopo l?arrivo del dott. A.F. nel 1993-1994, non avendo accettato la proposta di assumere il ruolo di capo della sua segreteria, aveva cominciato a essere destinatario di una serie di provvedimenti che oltre a privarlo progressivamente delle sue mansioni, e delle relative indennità, ne avevano svilito il ruolo professionale e avevano inciso sensibilmente sulla salute: elencava quindi analiticamente i provvedimenti e i comportamenti del dott. F.;

ricordava che all?esito di un procedimento d?urgenza dal medesimo avviato con ricorso del 17.11.2001 per l?accertamento del demansionamento e delle vessazioni subite, in particolare a seguito della emanazione dell?ordine di servizio n. 18 del 15 ottobre 2001, che lo aveva privato di ogni incarico sino ad allora svolto limitando le sue mansioni a quelle di ?responsabile dei procedimenti relativi a sanzioni amministrative?, il Giudice del lavoro, accogliendo parzialmente la domanda, aveva ordinato alla CCIAA l?assegnazione al ricorrente di mansioni equivalenti al suo livello di inquadramento (vd ordinanza del 15.1.2002), ma il provvedimento non aveva determinato sostanziali modifiche nelle mansioni assegnate;

che a tale demansionamento si erano accompagnate continue vessazioni da parte del dott. F. che gli aveva assicurato che ?avrebbe sudato sangue?, consistenti nel privarlo dei propri collaboratori, nel bersargliarlo con abnormi rilievi disciplinari, nel negargli senza motivo ferie e permessi, nel contestargli addebiti poco prima della partenza per le ferie, promuovendo coloro che erano stati suoi subalterni e impartendogli il compito di assisterli, togliendogli importanti incarichi retribuiti, riducendolo alla totale inattività lavorativa e spostandone l?ufficio in stanze piccole e poco illuminate, togliendogli in sintesi il riconoscimento formale del ruolo ricoperto e la dignità stessa di essere ricompreso nell?ambito di un ufficio; comportamenti che il ricorrente elencava analiticamente, e collegava ai problemi di salute che si andavano manifestando e aggravando;

rilevava che simili comportamenti vessatori erano stati adottati anche nei confronti di quei dipendenti che non erano graditi al segretario generale, mentre erano stati favoriti, in modo arbitrario, coloro che godevano della sua simpatia (citando a mero titolo di esempio la carriera professionale della sig. Z.);

esponeva che con delibera n.179 del 22 settembre 2000 la Giunta Camerale aveva evidenziato che alcuni episodi verificatisi all?interno della CCIAA (nei confronti di _______) si potevano sospettare di mobbing, che l?atteggiamento del dott. F. era stato poco lineare e aveva invitato quest?ultimo ad adeguare con sollecitudine le situazioni esistenti alle precedenti indicazioni impartite dalla Giunta; che in data 20 novembre 2000 subentrava al Presidente Donaggio il nuovo presidente sig. Antonio P. e il primo piano, dove c?era l?ufficio della Presidenza e del segretario generale, era stato svuotato di tutti gli uffici direttivi, trasferiti al terzo piano, segnando, anche dal punto di vista logistico, una drastica separazione con il personale; che i comportamenti vessatori erano proseguiti giungendo anche alla privazione di qualsiasi attività svolta dal dott. P. ed estranea al ruolo di responsabile delle funzioni amministrative, assegnatogli con ordine del 15.10.2001.

Chiedeva, a causa delle vessazioni subite dal 1995 di essere risarcito dei danni biologici, esistenziali e morali essendo state violate le norme di cui agli artt. 2043, 2049, 2087, 2103 cod.civ, 2 e 32 e 41 della Cost, 572, 582 e 590 cod.pen; riteneva la CCIAA solidalmente responsabile con il segretario generale, autore materiale degli illeciti; chiedeva il riaffidamento delle mansioni che gli erano state tolte per effetto di ordini di servizio illegittimi, dei quali chiedeva la disapplicazione al giudice del lavoro; e in ogni caso l?assegnazione di mansioni equivalenti al proprio livello di inquadramento e il risarcimento del danno per l?umiliante demansionamento subito.

Chiedeva nelle conclusioni l?accoglimento delle domande riportate in epigrafe.

  Il Giudice fissava udienza di discussione per il 21 giugno 2002 poi differita al 29 novembre 2002.

 

 

Con memoria del 19 novembre 2002 si costituiva in giudizio anche il dott. Arcangelo F. eccependo in via preliminare la nullità del ricorso in quanto era stata totalmente omessa

rilevava in ordine al dedotto demansionamento che gli ordini di servizio impugnati appartenevano tutti agli atti di c.d. microrganizzazione e, quindi, dovevano considerarsi atti di gestione che il Segretario generale aveva adottato con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro, per cui inconferente dovevano considerarsi gli eccepiti vizi di eccesso di potere o violazione di legge;

contestava l?asserito demansionamento rilevando al contrario che i compiti affidati al dott. P. avevano valorizzato appieno la sua capacità professionale; contestava altresì e analiticamente la sussistenza delle vessazioni eccependo come tutti i provvedimenti adottati fossero stati espressione del doveroso esercizio del potere organizzativo del Segretario Generale; contestava infine il danno lamentato perché non provato né sostanzialmente allegato e rilevava l?insussistenza del nesso causale; chiedeva quindi l?accoglimento delle conclusioni in epigrafe trascritte.

  Motivi della decisione  

  Ed invero, il datore di lavoro, anche pubblico, è obbligato ad adottare le misure necessarie a tutelare l?integrità fisica e morale del prestatore di lavoro (art. 2087 cod.civ) ed è responsabile anche per il fatto illecito dei propri dipendenti (art. 1228 cod.civ).

Tale responsabilità concorre con quella personale e diretta del dipendente autore del comportamento illecito ex art. 2043 cod.civ, tanto da imporre il contestuale richiamo dell?art. 2049 cod.civ  e, nel caso di pubblica amministrazione, anche dell?art. 28 Cost. secondo il quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità si estende allo Stato e agli enti pubblici.

L?azione è stata legittimamente e ritualmente proposta, con la procedura del rito del lavoro, nei confronti di entrambi i responsabili, CCIAA e dott. A. F., il quale ultimo, seppure potenzialmente e autonomamente legittimato ad una azione ordinaria, e litisconsorte non necessario nel procedimento promosso contro la CCIAA , è stato opportunamente convenuto in questo giudizio spiegando peraltro una difesa che si affianca e sostiene quella proposta dalla CCIAA di cui è Segretario Generale.

Le azioni infatti sono connesse per l?oggetto e per il titolo (risarcimento del danno da mobbing), essendo comune il fatto posto a fondamento della domanda di risarcimento, e unico, per imprescindibili esigenze di economia processuale, deve essere l?accertamento giudiziale, da svolgersi avanti al giudice del lavoro secondo i principi di cui all?art. 40 del codice di procedura civile.

Il fatto denunciato si articola, secondo la prospettazione dedotta nel ricorso, in una successione di episodi che hanno origine sin dal 1995:

la deduzione è coerente con la nozione di mobbing rilevabile in giurisprudenza secondo la quale i caratteri identificativi del fenomeno mobbing sono rappresentati da una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali posti in essere dal datore di lavoro (o da un suo preposto) che trovano una ratio unificatrice nella volontà di recare danno al prestatore di lavoro, di svilirne la personalità e professionalità, di isolare, emarginare, infastidire, indurre nel destinatario situazioni di disagio, difficoltà, disistima verso se stesso, fino al desiderio di lasciare il posto di lavoro;

essi, lungi dal consistere in comportamenti tipizzati, possono manifestarsi in vario modo, anche subdolamente mediante provvedimenti in sé formalmente legittimi, oppure mediante la privazione di poteri normalmente conferiti alla posizione professionale, con un trasferimento ?punitivo?, o, ancora, con la squalificazione professionale, il demansionamento, o atteggiamenti umilianti o che rendano penosa la prestazione;

ne sono elementi essenziali, quindi, l?aggressione o persecuzione di carattere psicologico, la frequenza e sistematicità e durata nel tempo, l?andamento progressivo, le conseguenze patologiche gravi per la vittima.

  

In entrambi i casi, la definizione giurisprudenziale del fenomeno mobbing impedisce di considerare gli episodi gli uni separati dagli altri e di frazionare nel tempo la condotta.La  la considerazione è rilevante alla luce delle eccezioni sollevate dai resistenti:non è possibile infatti separare i fatti enucleati in ricorso nei due periodi, quello antecedente al 30 giugno 1998 (che rientrerebbe, secondo l?eccezione di difetto di giurisdizione e di decadenza nella giurisdizione del giudice amministrativo) e quello successivo al 30 giugno 1998 (giurisdizione del giudice ordinario) secondo il discrimine introdotto dall?art. 69 comma 7 D.lgs 30 marzo 2001 n. 165:

  B- 1) L?elemento soggettivo

   Va in generale osservato che le controversie dirette ad accertare fattispecie di mobbing comportano per loro stessa natura una penetrazione psicologica dei comportamenti, al di là di atti che possono presentarsi anche come legittimi e inoffensivi, in modo da indagarne il carattere eventualmente vessatorio, ossia dolosamente diretto a svilire, nuocere o ledere la dignità personale e professionale di un dipendente.

  La coscienza e volontà del mobber si pone rispetto al fatto non solo come elemento essenziale e costitutivo dell?illecito, ma come elemento idoneo persino a darvi significato: in altri termini, senza il dolo specifico del mobber gli atti potrebbero tutti apparire legittimi e leciti.

Va infatti evidenziato che, come in altri casi, anche in quello in esame, i comportamenti adottati dal mobber non si estrinsecano sempre e necessariamente in conclamati soprusi, ma spesso si nascondono, in modo più sottile e insidioso, in provvedimenti che il Segretario Generale giustifica in forza del suo potere-dovere di controllo e di organizzazione dell?ufficio e del personale;

in sé considerati, isolatamente nel tempo e nello spazio gli uni dagli altri, potrebbero a una visione superficiale o ingenua apparire inoppugnabili, indiscutibili, volti unicamente a garantire un servizio, e quindi legittima manifestazione del potere-dovere organizzativo e disciplinare del dirigente, preposto dal datore di lavoro alla gestione del personale.

  La loro reale natura di atti vessatori è tradita e svelata da una serie di elementi quali la frequenza, la sistematicità, la durata nel tempo, la progressiva intensità, e, sopra e dentro tutti, la coscienza e volontà di aggredire, disturbare, perseguitare, svilire la vittima, che ne riporta un danno, anche alla salute psico-fisica.

  E? quindi importante sapere quale fosse la volontà del dott. A.F. e quale il suo reale porsi nei confronti del dott. S.P.

  E? importante saperlo prima di enucleare i fatti e gli atti.

  Nel caso in esame il dolo del mobber è stato svelato, all?esito della istruttoria, mediante un elemento che ha illuminato, come un fascio di luce, tutta la serie di atti e comportamenti sino ad allora acquisiti al giudizio e già dotati peraltro di un proprio significato.

  Il dato è emerso, tanto chiaramente quanto inaspettatamente per le Parti, nel corso dell?esame dell?ultimo teste, offerto dalla Camera di Commercio, all?udienza dell?11 luglio 2003:

  h) La tutela normativa del demansionamento

  L?attenzione riservata al demansionamento, ben lungi dall?essere determinata dal considerarlo un fatto autonomo rispetto al contesto dei rapporti, è piuttosto giustificata dall?avere il divieto di dequalificazione professionale, nel nostro ordinamento, una puntuale previsione e una specifica tutela che trovano nell?art. 2103 del cod.civ  e nell?art. 52 D.lgs 30 marzo 2001 n. 165 la loro diretta fonte.

Stabilisce l?art. 52 d.lgs 165/2001: il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell?ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale di procedure concorsuali o selettive.

Non si dubita che il datore di lavoro abbia diritto di mutare le mansioni in ragione dell?esigenze dell?organizzazione del proprio servizio, ma l?esercizio dello ius variandi è limitato dal rispetto del principio di equivalenza violato ogniqualvolta le nuove mansioni comportino uno stravolgimento e depauperamento del patrimonio professionale del lavoratore.

In tale prospettiva non vi sono differenze tra l?art. 52 D.Lgs.165/2001 e l?art. 2103 cod. civ., correttamente richiamato dal ricorrente: non si discute infatti qui della possibilità di un superiore inquadramento, per il quale nel settore pubblico non vige l?automaticità propria del lavoro privato (e solo in tal senso l?art. 2103 c.c. non è applicabile), ma di dequalificazione professionale per cui non solo l?art. 2103 ben può essere invocato, ma soprattutto soccorre la giurisprudenza maturata per la sua interpretazione e applicazione.

  La giurisprudenza è costante nell?affermare che la norma dell?art. 2103 cod civ è violata non solo quando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori ma anche quando il medesimo sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazioni di compiti costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto (Cass 6.11.2000, n. 14443).

  La violazione degli artt. 2103 cod. civ. ? art 52 L .165/2001 è dunque pienamente provata.

  D) Il danno

Il danno da mobbing va accertato e quantificato considerando una serie di pregiudizi connessi non solo alle modalità in cui si è estrinsecato ma anche alla tipologia del lavoratore che ne è vittima.

In altri termini vanno considerate non solo gli effetti diretti delle azioni di mobbing (demansionamento, con tutti i connessi riflessi giuridici, patrimoniali e non patrimoniali, turbamento, isolamento organizzativo, stress, disistima, patologie psico-fisiche, con i relativi effetti nella vita professionale, personale e familiare) ma anche la personalità per così dire ?di partenza? del lavoratore, atteso che, come risulta ormai condiviso dagli studiosi del mobbing, il disagio patogeno colpisce maggiormente il lavoratore che ha investito psicologicamente di più sul lavoro, che ama la sua professione, che la svolge con passione e solerzia, e proprio per questo vive con maggior dolore una condizione di emarginazione e di svuotamento delle proprie funzioni.

Volendo separare, ai fini di una quantificazione, i singoli effetti del mobbing  si distingue il demansionamento in sé considerato dagli altri effetti pregiudizievoli cagionati dal mobbing

1)  Il demansionamento subito dal dott. P. rappresenta un caso di svuotamento quasi totale di ruolo e di mansioni, e si colloca dunque al ben di là della ipotesi ? esaminata dalla giurisprudenza ? di sensibile ?riduzione del campo di intervento (o riduzione quantitativa delle mansioni) che è stato causa di svilimento del ruolo del lavoratore e della sua immagine professionale all?esterno?.

  Al riguardo la giurisprudenza ha ritenuto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni si traduca in una dequalificazione professionale, bensì quella in cui la sottrazione di mansioni sia tale ? per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell?ambito aziendale ? da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un conseguenziale impoverimento della sua professionalità.

La riduzione di mansioni, non compensata dal conferimento di mansioni alternative e qualitativamente omogenee a quelle sottratte, la privazione, nel caso del dott. P delle mansioni qualificanti e di ogni potere direttivo, la mancata assegnazione di incarichi che ne confermino il ruolo e giammai consentano l?avanzamento di carriera, integrano gli estremi di una grave forma di dequalificazione professionale.

  Le conseguenze pregiudizievoli sono molteplici (c.d plurioffensività del demansionamento) perché relative

  -       alla potenzialità economica (c.d danno patrimoniale puro)

-       alla salute psico-fisica (danno biologico e morale)

-       alla dimensione professionale (danno d?ordine professionale e d?immagine), che viene valutata come autonoma categoria di pregiudizio in quanto relativa alla dignità del lavoratore nel contesto lavorativo: si tratta di lesione alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro e il danno che ne deriva alla vita professionale e di relazione dell?interessato, secondo la prevalente giurisprudenza, riveste indubbia dimensione patrimoniale e lo rende suscettibile di valutazione equitativa (vds Cass sez lav 1.6.2002 n. 7967; Cass 2.1.2002 n. 10; Cass sez lav 20.1.2001, n.835)

 

Con riguardo specificamente al danno professionale, considerato una autonoma categoria di pregiudizio, la quantificazione del danno avviene in giurisprudenza avendo riguardo a una percentuale della retribuzione mensile, determinata tenendo conto della gravità della dequalificazione, della durata, dell?importanza della stessa, dell?età del lavoratore e prendendo a base la retribuzione percepita durante il demansionamento.

 2) Ma il mobbing ha pregiudicato l?equilibrio personale e professionale del dott. P, ha danneggiato la sua salute psico-fisica, alterata da situazioni di elevato stress, che sono state causa di malattia o di aggravamento di stati patologici già in atto, ha cagionato dunque un danno biologico e non patrimoniale.

  Va ricordato che il danno non patrimoniale risarcibile è ravvisabile ogni volta che al dipendente siano derivate lesioni personali, fattispecie corrispondente, nella sua oggettività, alla astratta previsione di una figura di reato (art. 582, 590 c.p.), senza che sia necessario anche il preventivo accertamento in sede penale della concreta fattispecie di reato:

in tal senso si pronunciata la Corte di cassazione (Cass 22.2.2002 n. 4129, Cass 12 maggio 2003, n.7281 e 7282) e ancor più di recente la Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003 che ha esteso la portata stessa dell?art. 2059 c.c ricomprendendo nell?astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d?animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell?interesse costituzionalmente garantito all?integrità psichica e fisica della persona, conseguente a un accertamento medico; sia infine il danno ?esistenziale? derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona .

I certificati medici prodotti dal dott. P in ordine alle sue condizioni di salute, i ricoveri al Pronto soccorso in ospedale, con acuirsi dei fenomeni di aumento di ipertensione arteriosa, sembrano assumere i sintomi di una resistenza del dipendente al progetto del segretario generale di rendergli la vita impossibile, di “rovinarlo” sul piano personale e professionale.

 

La successione di certificati, che segnano con propria drammatica frequenza, connessa – spesso in modo ravvicinato - a quella degli episodi esposti sub B 2) viene qui riportata rimettendosi al medico legale la loro valutazione e integrazione: i sintomi riscontrati e la cadenza delle visite vengono ritenuti sufficienti per determinare la necessità di un più approfondito accertamento tecnico ai fini della valutazione del danno:

 

a)  referto del medico cardiologo dd. 19 maggio 1997 che diagnostica un'ipertensione arteriosa diastolica, nota da circa due anni, attualmente importante;

b)  referto del cardiologo del 27 agosto 1997, che evidenzia il perdurare dell'ipertensione arteriosa unita a sintomi quali “stanchezza al cuore” e aumenta il dosaggio dei farmaci;

c)  referto del cardiologo del 10 settembre 1998 che evidenzia un "costante stato di stress" e disturbi al battito cardiaco negli ultimi mesi;

d)  referto del medico cardiologo del 16 agosto 1999 che raccoglie in dettaglio una serie di sintomi, pur diagnosticando una ipertensione arteriosa diastolica stabile nel tempo – si consiglia la visita oculistica;

e)  il 28 novembre 2000 di mattina il dott. P accusa malore e in particolare un dolore toracico di tipo parietale rilevato al Pronto Soccorso;

f)   del giorno successivo, 29 novembre 2000 è il referto del medico cardiologo, al quale viene riferito lo stato di stress vissuto negli ultimi mesi da parte del dr. P e del malessere notturno occorsogli nella notte antecedente.

g)  Il 27 febbraio 2001 lo stesso cardiologo rileva che la ipertensione arteriosa, attualmente non risulta ben controllata, mentre permangono sintomi di stress , e vengono prescritti farmaci più forti.

h)  Il 14 settembre 2001, alle ore 8 del mattino, il dott. P, su disposizione del medico di base, viene ricoverato al pronto soccorso a seguito di risveglio notturno (ore 4) causato da dolore retrosternale a barre.

Le analisi cardiologiche evidenziano ancora l’ipertensione arteriosa diastolica, dolore toracico di eziologia da definire, situazione di stress e lislipidemia.

Dopo una serie di esami specialistici vengono prescritte quattro settimane di riposo

Il dott. P rientra in servizio dalla malattia il 15 ottobre 2001, giorno in cui gli viene comunicato l’ordine di servizio n. 18/01.

  Va fermamente respinta la eccezione di parte resistente circa la inutilizzabilità di certificati medici perché “contengono un giudizio”:

  I certificati medici sono prove documentali dell’esame effettuato da un medico su un paziente in un determinato momento storico:

il medico chiamato a visitare un paziente raccoglie i sintomi, formula una valutazione, una diagnosi e una prognosi, che rientrano nella ordinaria espressione della sua professione;

  la valutazione dei sintomi, riferiti o rilevati da appositi esami, delle diagnosi e delle terapie è appositamente rimessa a un medico legale, nominato CTU il quale, in relazione alla successione degli eventi, riportata in sentenza, alla successione delle visite, registrata dai certificati, e necessariamente in base a ulteriori diretti esami e accertamenti, potrà esprimere il proprio giudizio medico legale sulla esistenza ed entità del danno.

   A tale fine viene dunque proseguita l’istruttoria come da ordinanza a verbale (ud. 23 settembre 2003).

 

 

P.Q.M.

 

Non definitivamente pronunciando nella causa di lavoro iscritta al n.98 del 2002 promossa da P. S.contro C.C.I.A.A.  

così provvede:

1)       dichiara che P Stefano ha subito un danno a causa del mobbing posto in essere nei suoi confronti dal dott. A. F., anche mediante il demansionamento delle funzioni;

  2)       condanna la CCIAA in persona del legale rappresentante e Arcangelo F. a risarcire a P.S. il danno subito a causa della condotta sub 1), danno che determina, in via equitativa, e per la parte relativa al demansionamento subito in una somma corrispondente al 100% della retribuzione mensile oltre interessi legali con decorrenza 15 ottobre 2001 e per la parte relativa al danno biologico e non patrimoniale subìto nella misura da determinarsi a mezzo CTU;

3)       condanna la CCIAA, in persona del legale rappresentante, ad assegnare al dott. P mansioni coerenti con la qualifica funzionale corrispondente al livello di inquadramento D4 – qualifica funzionale VIII del DPR 347/83;

  4)        dispone con separata ordinanza per la prosecuzione della istruttoria.

  Trieste 23 settembre 2003 (depositata il 10 dicembre 2003 col n. 840)

Il GIUDICE