Mobbing e straining: definizione e caratteri distintivi – individuazione.
Con la decisione sottoriportata
il Tribunale di Bergamo coglie
l’occasione per distinguere tra mobbing e "straining":si tratta di
termini utilizzati dalla psicologia del lavoro per indicare due condizioni
diverse. In particolare, si legge nella sentenza che “si parla di mobbing nel caso in cui la condotta lesiva si
manifesti attraverso caso di per una
serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo”; con il termine
"straining" si fa invece riferimento ad "una situazione di
stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un'azione
che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione
che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante.
Tribunale Bergamo Civile Sentenza del 20 giugno 2005, n. 286
REPUBBLICA ITALIANA TRIBUNALE DI BERGAMO IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO II Tribunale di Bergamo in funzione di giudice monocratico del lavoro
in persona della dott.ssa Monica Bertoncini ha pronunciato la seguente SENTENZA
nella causa di lavoro n. 711/02 R. G. promossa con ricorso depositato il
04.06.2002 Da: Is. Pa. con il proc. dom. avv. P. Lu. Bo. del foro di Be. giusta
procura a margine del ricorso depositato ATTORE contro: Ad. Tr. SRL in persona
del legale rappresentante pro-tempore con il proc. dom. Avv. Gi. Ga. del foro
di Be. giusta procura a margine della memoria depositata CONVENUTA Oggetto:
risarcimento danni causa chiusa a sentenza il 21.04.2005 CONCLUSIONI: Parte
ricorrente: come da ricorso depositato in data 04-06.2002 Parte convenuta: come
da memoria depositata in data 28.10.2002
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso regolarmente notificato Is. Pa. conveniva in
giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo in funzione di giudice del lavoro, la Ad. Tr. s.r.l. per sentir
accertare la dequalificazione posta in atto nei suoi confronti a decorrere dal
luglio 1998 e per sentirla conseguentemente condannare al risarcimento del
danno subito pari ad una mensilità retributiva per ogni mese di mansioni
dequalificanti o in quella diversa ritenuta di giustizia, oltre interessi
legali rivalutazione monetaria, nonché per sentir accertare il danno alla
salute arrecato dai comportamenti di "mobbing" posti in essere nei
suoi confronti e per sentir quindi condannare la convenuta al risarcimento dei
danni subiti, da determinarsi in via equitativa. A fondamento di tali pretese
la ricorrente, premesso di aver iniziato a lavorare per la Ad. Tr. s.r.l. sin dal
1989 con mansioni di impiegata I° livello CCNL terziario addetta alla gestione
del recupero crediti, esponeva che con comunicazione del 1.7.1998 era stata
formalmente assegnata a mansioni di "analista sistemista", ma che in
realtà, era stata completamente privata delle proprie mansioni. In proposito,
Is. Pa. precisava di essere stata trasferita in una sorta di ripostiglio, con
mobili in disuso senza PC e telefono, di essere stata lasciata nella più
assoluta inattività, senza contatti con altro personale e con l'esterno, stante
la proibizione ricevuta in tal senso. La ricorrente, nell'aggiungere di essersi
dimessa il 31.3.2001 e nell'affermare di aver subito un vero e proprio danno
alla salute derivante dalla condotta posta in essere nei suoi confronti, che
qualificava come "mobbing", agiva in questa sede per conseguire il
risarcimento dei danni conseguenti alla dequalificazione ed alla lesione della
integrità psico-fisica subita, rassegnando le sopra precisate conclusioni. Si
costituiva regolarmente in giudizio la Ad. Tr. s.r.l., resistendo alla domanda di cui
chiedeva il rigetto. La convenuta esponeva che nel luglio 1998, nell'ambito di
un'ampia revisione dei ruoli avviata dalla nuova compagine sociale, era stata
assegnata a Is. Pa. la mansione di "analista sistemista", ma costei
si era rifiutata di apprendere anche le più elementari nozioni relative alla
nuova attività. Pertanto la società preso atto della indisponibilità della
ricorrente, l'aveva assegnata al recupero dei crediti, ma anche in questo caso
la lavoratrice aveva dimostrato scarso impegno, rifiutando reiteratamente
l'evasione delle pratiche affidatele. La Ad. Tr. s.r.l., nel precisare di aver tollerato
tale atteggiamento in considerazione dell'anzianità di servizio della
ricorrente e dell'intenzione di costei di dimettersi al raggiungimento dell'età
pensionabile, negava di averle assegnato un ufficio non idoneo allo svolgimento
del lavoro, così come escludeva di aver posto in essere nei suoi confronti atti
discriminatori. Concludeva pertanto per il rigetto di ogni domanda. La causa,
istruita testimonialmente e tramite CTU medico-legale, è stata discussa e
decisa, all'udienza odierna mediante separato dispositivo di cui veniva, data
pubblica lettura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
II, ricorso è fondato. L'istruttoria testimoniale ha
confermato come la ricorrente, dipendente della convenuta sin dal 1989 con
mansione di "recuperatrice", a partire dall'ottobre 1998 ed a seguito
del mutamento della compagine sociale della società, abbia subito un grave
demansionamento, con l'assoluta privazione di tutte le mansioni svolte sino ad
allora. In particolare, la teste Bo., dipendente della convenuta dal 1994 al
2001, nel chiarire di aver svolto le stesse mansioni di Is. Pa., essendo
entrambe addette al recupero crediti, ha spiegato che il loro lavoro consisteva
nell'esaminare la documentazione, capire come si era originato il credito,
prendere quindi contatti con il debitore ed avviare la trattativa per il
recupero dell'importo (v. deposizione Bo., Ub.). La ricorrente, al pari della
teste, aveva facoltà di transigere e concedere dilazioni, seguendo anche la
fase finale che si svolgeva tramite l'intervento di un esattore (v. deposizione
Bo.). Entrambe si occupavano prevalentemente del recupero crediti di grosse,
aziende e disponevano di una scrivania con telefono, PC e calcolatrice (v.
deposizione Bo.). La teste ha poi riferito che nell'aprile del 1998 il titolare
della società, con cui i dipendenti avevano un ottimo rapporto sia
professionale che personale, comunicò di aver venduto l'azienda al sig. Po. ed
in quella occasione la ricorrente "chiese al subentrante quali fossero le
sue strategie imprenditoriali", ma costui "si innervosì e divenne
rosso, non rispose e si sciolse l'assemblea" (v. deposizione Bo.). In
seguito, vi furono diversi meeting per informare il personale delle nuove
strategie e per effettuare alcuni test, meeting a cui Is. Pa. non fu mai
invitata (v. deposizione Bo.). In una successiva riunione del giugno 1998 la
ricorrente prese la parola, insistendo per avere spiegazioni sulle strategie
aziendali, ed quindi il nuovo titolare, Po., se ne andò sbattendo la porta e
convocando in direzione Is. Pa. (v. deposizione Bo. e Ub.). Successivamente,
quelle che erano le "recuperatrici" divennero "coordinatrici di
un gruppo che lavorava all'esterno ed a cui veniva affidata la pratica",
per cui il loro compito divenne quello di tenere il rapporto con il cliente,
che seguiva direttamente il debitore, e di curare la parte organizzativa e
logistica, supervisionando le attività del personale esterno che si occupava
direttamente degli aspetti operativi inerenti al recupero del credito (v.
deposizione Bo., Mi. e Ub., la quale ha aggiunto che con il mutamento di
gestione cambiò "un po'" tutto sia in relazione alla metodica di
lavoro che all'armonia e al clima generale"). La ricorrente venne spostata
in un ufficio separato e lontano dagli altri, che veniva utilizzato come
ripostiglio di mobili dismessi, e non le venne affidata più alcuna pratica (v.
deposizione Bo., Mi. e Ub.). Si trattava di un ufficio isolato, collocato in
fondo al corridoio, e mentre tutti gli altri uffici erano stati modificati ed
ampliati, quello rimase nelle medesime condizioni (v. deposizioni Ub. e Bo.).
L'ufficio della ricorrente era inoltre privo degli strumenti di lavoro, c'erano
solo oggetti dismessi e da buttare, Is. Pa. non aveva il PC, né il telefono e
neppure figurava nell'elenco telefonico dei dipendenti aziendali (v.
deposizione Mi., Ub. e doc. 3 fasc. ricorrente). In tali condizioni era
sostanzialmente impossibile lavorare, dal momento che tutta l'attività della
Ad. Tr. s.r.l. era informatizzata, per cui senza computer non era possibile
fare niente (v. deposizione Mi.), L'ufficio venne dotato di un telefono e di un
terminale solo nell'ultimo periodo, quando veniva utilizzato anche da una
collaboratrice della società, Ca., ma in ogni caso la ricorrente rimase sempre
inattiva, posto che sulla sua scrivania non vi erano pratiche per lavorare,
come ebbero modo di constatare molti suoi colleghi (v. deposizione Ub. e Mi.,
il quale ha confermato che con il passaggio di gestione la ricorrente venne
inserita nell'ufficio dei programmatori, benché si trattasse di una soluzione
poco comprensibile, in quanto Is. Pa. "di informatica non capiva
niente", mentre "era brava nel suo lavoro" di recuperatrice). La
totale inattività di Is. Pa. è confermata dalla circostanza, riferita da alcuni
testi, per cui costei trascorreva le sue giornate dedicandosi all'hobby
dell'astrologia (v. deposizione Bo., Mi., Ub.). La condizione della ricorrente
venne inoltre percepita dagli altri come un "monito", tant'è che
costoro temevano di "poter fare la stessa fine" (v. deposizione Ub.).
In proposito, la teste Bo. ha raccontato di essere stata sorpresa dal nuovo
capo a parlare con la ricorrente ed in quella occasione le venne detto di non
andare più a trovarla (v. deposizione Bo.), nella medesima situazione si trovò
il collega Mi. che evitava di andare dalla ricorrente in quanto il capoufficio,
ing. Ro., "aveva la porta aperta e controllava il passaggio", ed un
paio di volte in cui era andato a trovarla dovette allontanarsi immediatamente
alla vista del Ro., per "evitare la ramanzina" (v. deposizione Mi.,
il quale ha aggiunto che i rapporti con lei si diradarono "sia perché era
inutile parlare con lei che non partecipava al lavoro sia perché Ro. non
voleva"). Le circostanze riferite dai suddetti testi, precise e pienamente
concordanti tra loro, rendono credibili tali deposizioni, mentre analoghe
considerazioni non possono svolgersi per le affermazioni rese dalla teste Ve.,
la quale, pur sostenendo che l'ufficio di. Is. Pa. era dotato di computer e
telefono, ha ammesso di non essere mai entrata nella sua stanza, per cui non è
dato comprendere su che basi sia stata resa tale dichiarazione (v. deposizione
Ve.). La Ve.
neppure aveva conoscenza diretta della mansioni assegnate alla ricorrente
avendole descritte in maniera estremamente generica, così come si è limitata ad
affermare di aver ''sentito dire nell'ambiente" che a Is. Pa. era stato
proposto di diventare "customer manager'' e che costei "si
rifiutò" (v. deposizione Ve.). Neppure dalla testimonianza della Ca.
possono trarsi utili elementi, posto che costei svolgeva il proprio lavoro
prevalentemente fuori dall'azienda, ove si recava solo in caso dì necessità (v.
deposizione Ca.). Parimenti inattendibile appare la deposizione del teste Pi.,
secondo cui la ricorrente, dopo essersi rifiutata di lavorare al reparto
informatico, venne riassegnata al recupero crediti e le vennero affidate alcune
pratiche da seguire (v. deposizione Pi.). Occorre infatti rilevare come il
teste abbia riferito che Is. Pa. "si rifiutò di eseguire questo lavoro,
perché riteneva che Ia pratica le dovesse pervenire già istruita", in
quanto "voleva limitarsi a fare l'ultima telefonata" (v. deposizione
Pi.). Non risulta tuttavia credibile che una persona come la ricorrente, con
dieci anni di esperienza nel lavoro di recupero credito e che aveva lamentato
insoddisfazione per il mutamento di mansioni (doc. 2 fasc. ricorrente), una
volta riassegnata ai vecchi compiti, si sia rifiutata di eseguirli. Peraltro è
assolutamente inverosimile che un datore di lavoro, per oltre due anni, tolleri
il comportamento di grave insubordinazione del proprio dipendente che si
rifiuta sistematicamente di svolgere le mansioni affidategli, soprattutto ove
si consideri che in tale lasso di tempo non è stata mossa alcuna contestazione
disciplinare verso Is. Pa. per il comportamento in questione. Ed in proposito
il teste Pi. non ha saputo, spiegare il motivo per cui non fu assunta alcuna
iniziativa disciplinare verso la ricorrente, confermando in ogni caso di averla
lasciata inattiva, non avendole più affidato alcun incarico (v. deposizione
Pi.). Deve quindi ritenersi che sia stata la datrice di lavoro a privare la
ricorrente delle precedenti incombenze, decidendo di modificare le mansioni che
costei aveva svolto ininterrottamente per quasi dieci anni e per le quali era
certamente qualificata, assegnandole un nuovo incarico, ma di fatto lasciandola
completamente inattiva, spostandola dall'ufficio che aveva sino ad allora
occupato e condiviso con i propri colleghi e trasferendola in un ufficio
isolato e dotato solo di materiale dimesso, senza strumenti per poter lavorare.
La condizione di totale e forzata inattività in cui Is. Pa. si è trovata
dall'ottobre 1998 (doc. 2 fasc. ricorrente) sino; al 31.3.2001 (data delle
dimissioni) integra una chiara violazione dell'art. 2103 c.c., la cui finalità
è quella di salvaguardare "il diritto del lavoratore alla utilizzazione,
al perfezionamento ed all'accrescimento del proprio corredo di nozioni di
esperienza e perizia acquisita nella fase pregressa del rapporto ed impedire
conseguentemente che le nuove mansioni determinino una perdita di potenzialità
professionali acquisite o affinate sino a quel momento, o che per altro verso
comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del
lavoratore" (così cass. civ. sez. lav. n. 10405/95). E' evidente che lo
stato di inattività cui la ricorrerete è stata costretta abbia determinato un
progressivo svuotamento del suo bagaglio professionale o delle conoscenze
acquisite, soprattutto tenuto conto che si è trattato di una assoluta
privazione delle mansioni, protrattasi per oltre due anni. Vanno poi
considerate le modalità attraverso le quali tale demansionamento è stato
attuato, isolando la lavoratrice, che si è vista trasferire dall'ufficio
condiviso con i colleghi da circa dieci anni per essere collocata in un locale
sprovvisto dei necessari strumenti di lavoro ed utilizzato, come deposito per i
materiali dismessi. Il comportamento illecito è stato quindi posto in essere
dal datore di lavoro con particolare ostilità ed avversione verso la
ricorrente, considerato che il lavoro, come più volte affermato dalla
giurisprudenza, non rappresenta solo un mezzo di guadagno, ma anche una forma
di estrinsecazione della personalità dell'individuo sul luogo di lavoro,
diritto tutelato dagli artt. 2 e 3 Cost. (v. cass. civ. sez. lav. n. 12553/03,
n. 15686/02 e n. 8835/91). La
Ad. Tr. s.r.l. va quindi condannata al risarcimento del danno
subito da Is. Pa. in conseguenza di tale illecita condotta, danno da liquidarsi
equitativamente utilizzando come parametro la retribuzione della ricorrente.
Pertanto, considerata la gravità del comportamento posto in essere nei
confronti di Is. Pa., desumibile dalla completa privazione delle mansioni,
dalla durata della dequalificazione, dall'anzianità aziendale della lavoratrice
e dalle modalità con cui è stato attuato, in maniera plateale quasi a
rappresentare un monito per gli altri dipendenti che intendessero esprimere le
proprie opinioni riguardo alle decisioni aziendali, il danno può essere
quantificato in Euro 500,00 per ogni mese di dequalificazione subita (pari a
circa l'80% della retribuzione netta della ricorrente). Non ritiene questo
giudice di accedere alla massima quantificazione, in misura pari ad una
mensilità di retribuzione per ogni mese di dequalificazione, dovendosi
considerare che la ricorrente, alla data delle dimissioni, ha conseguito la
pensione e quindi il danno alla professionalità risulta attenuato dal fatto che
non ha dovuto ricollocarsi sul mercato del lavoro. L'importo del risarcimento,
a tale titolo, ammonta quindi a complessivi Euro 15.000,00 (Euro 500,00 per i
due anni e sei mesi di dequalificazione), e poiché la liquidazione avviene ai
valori attuali ed è quindi comprensiva della rivalutazione monetaria su tale
somma competono gli interessi legali dalla data del fatto (ottobre 1998) sul;
capitale (previa devalutazione della somma sopra liquidata) per il primo anno
sul capitale e sul capitale annualmente rivalutato secondo i criteri di cui
all'art. 150 disp. Att. C.p.c. per gli anni successivi fino al saldo. Passando
quindi ad analizzare la domanda relativa al risarcimento del danno alla salute
conseguente a tale condotta, la stessa appare fondata, benché i fatti non siano
riconducibili alla fattispecie del "mobbing", come prospettato dalla
ricorrente, bensì a quella dello "straining". In proposito, va
ricordato che il "mobbing", nella definizione offerta dalla
psicologia del lavoro, cui gran parte della giurisprudenza di merito ha ormai
aderito, sia "una situazione lavorativa di conflittualità sistematica,
persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte
oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più
aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di
causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobizzato si trova
nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare
accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare
anche a invalidità psicofisica permanente" (v, da. ultimo anche Trib.
Forlì n. 28/05). Si ritiene inoltre in dottrina che il "mobbing" non
si caratterizzi per una singola azione, concretizzandosi in "una
strategia, un attacco ripetuto, continuato, sistematico, duraturo" tant'è
che sono state individuate cinque categorie entro cui ricondurre le azioni
mobbizzanti e precisamente: gli attacchi ai contatti umani (limitazioni alle
possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, rimproveri e
critiche frequenti, sguardi e gesti con significato negativo); l'isolamento
sistematico (trasferimento in un luogo di lavoro isolato, atteggiamenti
tendenti ad ignorare la vittima, divieti di parlare od avere rapporti con
questa); i cambiamenti delle mansioni (privazione totale delle mansioni, assegnazione
di lavori inutili, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima); gli
attacchi contro la reputazione (pettegolezzi, ridicolizzazioni, anche calunnie,
umiliazioni); la violenza o la minaccia di violenza (minacce od atti di
violenza fisica, anche a sfondo sessuale), altre azioni. Ciò che viene
evidenziato dai teorizzatori del fenomeno è che il "mobbing" non è costituito e non si
esaurisce in una singola condotta (ad esempio in un singolo demansionamento od
in una molestia sessuale), ma si traduce in una vera e propria aggressione, in
un accerchiamento della vittima, in un conflitto mirato contro una persona od
un gruppo di persone ove deve essere ben percepibile un intento persecutorio
(al fine di distinguerlo, a titolo esemplificativo, da tutte quelle situazioni
di tensioni naturalmente conseguenti da un cambiamento di gestione o di
organizzazione). Gli elementi caratterizzanti il "mobbing" sono
costituiti dalla frequenza (che serve a differenziare un singolo atto di
ostilità da quel conflitto sistematico e persecutorio che è il
"mobbing") e dalla rispettività nel tempo delle aggressioni.
Ciò premesso, il CTU nominato, dott. M. Eg., nell'analizzare la vicenda, mentre
ha ritenuto sussistenti alcuni parametri di riconoscimento del
"mobbing" (quali: l'ambiente lavorativo, in cui i fatti si sono
svolti; la durata della conflittualità, superiore ai sei mesi, tempo ritenuto
necessario per configurare un caso di "mobbing"; la tipologia delle
azioni ostili, alcune delle quali tipiche del "mobbing", come ad esempio
l'isolamento ed il cambiamento delle mansioni lavorative; il dislivello tra gli
antagonisti, in quanto la vittima si trova in posizione di inferiorità rispetto
alle decisioni dei superiori), non ha tuttavia ravvisato altri- elementi
caratterizzanti il "mobbing." (v. relazione CTU). In particolare, il
dott. Eg. ha escluso che la situazione della ricorrente sia stata scandita
attraverso fasi successive, in quanto il conflitto, dopo il cambiamento di
mansioni e l'isolamento, si è mantenuto sempre sullo stesso livello (v.
relaziona CTU). In proposito, secondo la psicologia, del lavoro il
"mobbing" presuppone che "la vicenda lavorativa conflittuale non
sia stabile, ma in evoluzione secondo una progressione di fasi casualmente
legate l'una all'altra" (v. relazione CTU). Il "mobbing" si
sviluppa quindi attraverso sei fasi, dalla cosiddetta "condizione
zero", di conflitto fisiologico normale ed accettato, alla "sesta
fase", di esclusione della vittima dal posto di lavoro (per dimissioni,
licenziamento od altra causa). Tuttavia, pur nell'assenza di alcuni elementi
tipici del "mobbing", il CTU ha ritenuto che il comportamento tenuto
nei confronti di Is. Pa., sia stato ugualmente fonte di un danno alla salute,
riconducibile a quel diverso fenomeno che la psicologia del lavoro definisce
"straining" (v. relazione CTU). In particolare, la differenza tra lo "straining" ed il
"mobbing" è stata individuata nella mancanza "di una frequenza
idonea (almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali
situazioni le azioni ostili che la vittima ha effettivamente subito sono poche
e troppo distanziate tempo, spesso addirittura limitate ad una singola azione
come un demansionamento o un trasferimento disagevole" (v. relazione CTU).
Pertanto, mentre il "mobbing" si caratterizza per una serie di
condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo "straining" è
sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di
un demansionamento) Lo "straining" è stato quindi definito come
"una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima
subisce almeno un'azione che ha come conseguenza un effetto negativo
nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è
caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona
che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato
appositamento contro una o più persone ma sempre in maniera discriminante"
(v. relazione CTU). In ogni caso, a prescindere dalle definizioni e dalle
classificazioni, il CTU ha accertato che il comportamento illecito tenuto dalla
Ad. Tr. S.r.l., come sopra ricostruito, ha determinato una lesione di carattere
permanente sull'integrità psicofisica della lavoratrice, la quale risulta aver
riportato un danno biologico permanente quantificato nella misura del 7/8% (v.
relazione CTU). Is. Pa., infatti, ancora oggi presenta "disturbi
alimentari e del sonno, insicurezza, tendenza all'isolamento e alla esclusività
degli affetti, fobia della folla, diffidenza generalizzata verso gli
estranei", una patologia diagnosticabile come "disturbo
depressivo-ansioso" (v. relazione CTU). La società convenuta è quindi
tenuta anche al risarcimento di tale danno, la cui liquidazione, vertendosi in
tema di lesioni inerenti la persona, in quanto priva di contenuto economico,
non può che avvenire equitativamente. Per quanto concerne la quantificazione
della danno subito da Is. Pa., questo giudice ritiene di poter far propria la
determinazione effettuata dal CTU sulla base di un rigoroso accertamento e di
argomentazioni immuni da vizi logici. Conseguentemente, il danno può essere
così quantificato: euro 7.155,26 per invalidità permanente già rivalutata ad
oggi (nella misura del 7%) ed euro 3.500,00 (pari a circa la metà del danno
biologico) per danno morale, somma che pare equa avuto riguardo alla gravità
della condotta illecita, desumibile dalla totale dequalificazione subita, dalla
sua durata, dall'anzianità della ricorrente. Per quanto concerne il
risarcimento del danno morale, trattandosi di danno non patrimoniale, questo
giudice ritiene di aderire all'interpretazione costituzionalmente orientata
dell'art. 2059 c.c. fornita dalla recente giurisprudenza, sia costituzionale
che di legittimità, secondo cui "il danno non patrimoniale conseguente
alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente
garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante
dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto,
la qualificazione del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in
cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere
riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsione
della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella
Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura
economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige al tutela, ed in tal
modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione
del danno non patrimoniale" (così cass. Civ. Sez. III n. 8827 del
31.5.2003; v. anche cass. Civ. Sez. III n. 8828 del 31.5.2003 e Corte Cost. n.
233 del 2003). E' allora evidente che, alla luce di tale recente orientamento
giurisprudenziale, il risarcimento del danno morale, come danno non
patrimoniale, nell'attuale sistema normativo prescinde dalla sussistenza di un
fatto qualificabile astrattamente come reato, essendo unicamente collegato alla
lesione di interessi costituzionalmente garantiti. Nella situazione esaminata,
venendo in considerazione quella sofferenza di carattere transitorio atta
comunque a determinare un turbamento psichico, si verte nell'ambito della
lesione del diritto all'integrità psico-fisica tu telata dall'art. 32 della Costituzione.
Non risulta infine documentata alcuna invalidità temporanea. Il risarcimento
del danno, alla salute ammonta pertanto a complessivi euro 10.655,26, e poiché
la liquidazione avviene ai valori attuali ed è quindi comprensiva della
rivalutazione monetaria su tale somma competono gli interessi legali calcolati
dalla data del fatto (ottobre 1998) sul capitale (previa devalutazione della
somma sopra liquidata) per il primo anno sul capitale e sul capitale
annualmente rivalutato secondo i criteri di cui all'art. 150 disp. att. c.p.c.
per gli anni successivi fino al saldo. Le spese processuali, liquidate come in
dispositivo, e quelle di CTU, liquidate con separato provvedimento, seguono la
soccombenza. P.Q.M. II Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica ed in
funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando sulla causa n.
711/02 R.G.: 1. condanna la
Ad. Tr. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro
tempore, al pagamento in favore di Is. Pa. della somma complessiva, di euro 10.655,26 a titolo di
risarcimento del danno biologico, oltre gli interessi legali calcolati dalla
data del fatto -ottobre 1998- sul capitale (previa, devalutazione della somma
sopra liquidata) per il primo anno sul capitale e sul capitale annullante
rivalutato secondo i criteri di cui all'art. 150 disp. att. c.p.c. per gli anni
successivi fino al saldo; 2. condanna la Ad. Tr. s.r.l., in persona del legale
rappresentante pro tempore, al pagamento in favore di Is. Pa. della somma
complessiva, di euro 15.000,00
a titolo di risarcimento.del danno per la
dequalificazione professionale, oltre gli interessi legali calcolati dalla data
del fatto -ottobre 1998- sul capitale (previa devalutazione della somma sopra
liquidata) per il primo anno sul capitale e sul capitale annualmente rivalutato
secondo i criteri di cui all'art. 150 disp. att. c.p.c. per gli anni successivi
fino al saldo; 3. Condanna la
Ad. Tr. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro
tempore, al pagamento in favore della ricorrente delle spese di rito che
liquida in complessivi euro 3.000,00 di cui euro 1.000,00 (omissis)