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In materia di compensazione tributaria, in difetto di una specifica normativa, devono trovare applicazione i principi dettati dal codice civile (artt. 1241 e seguenti).
Pubblicata il 10/01/2010
Sent. n. 22872 del 25 ottobre 2006 (ud. del 24 febbraio 2006) della Corte Cass., Sez. tributaria - Pres. Saccucci, Rel. Altieri
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Sent. n. 22872 del 25 ottobre 2006 (ud. del 24 febbraio 2006)
della Corte Cass., Sez. tributaria - Pres. Saccucci, Rel. Altieri
Imposte e tasse - Compensazione - Art. 8 dello Statuto del contribuente -
Regolamenti attuativi - Assenza - Irrilevanza - Norme codicistiche -
Applicabilità - 109) del D.P.R.
22 dicembre 1986, n. 917
(Commenta 2)
Massima - L'esercizio del potere regolamentare in materia di
compensazione tributaria, previsto dall'art. 8 dello Statuto del
contribuente (L. 27 luglio 2000, n. 212), non può considerarsi condizione
necessaria per l'operatività della compensazione; ne consegue che, in
difetto di una specifica normativa, devono trovare applicazione i principi
dettati dal codice civile (artt. 1241 e seguenti).
Svolgimento del processo
1. Con avviso di accertamento notificato il 30 marzo 1996 l'Ufficio
delle imposte dirette di Piombino rettificava la dichiarazione di M.B.,
titolare di impresa di costruzioni, contestandogli di aver non
correttamente valutato le rimanenze dei beni in corso di costruzione al 31
dicembre 1992 (lire 1.400.000.000), rinviando la contabilizzazione dei
costi alla futura realizzazione dei ricavi, ma omettendo di dichiarare,
quali componenti positivi del reddito, i compensi percepiti per la vendita
di immobili in quel periodo.
Le riprese effettuate erano, specificamente, le seguenti:
- lire 3.403.500.000 per maggiori ricavi da vendita di 26
appartamenti (valore registrato lire 2.083.000.000), cui doveva aggiungersi
un importo di lire 274.497.000 per prestazioni di servizi (preliminari) non
fatturati per sottofatturazione, sulla base di valutazione UTE;
- lire 161.166.000 per maggiori ricavi per lavori commissionati a
terzi, a fronte di costi non contabilizzati;
- lire 2.723.000.000 per costi indeducibili.
In forza di tali riprese, sommando all'utile di bilancio dichiarato la
differenza tra variazioni in aumento e variazioni in diminuzione e
riconosciuti costi non contabilizzati, l'ufficio rideterminava il reddito
d'impresa in lire 6.530.076.000, con maggiore Ilor per lire 559.267.000 ed
Irpef per lire 1.719.361.000. Con lo stesso provvedimento irrogava sanzioni
per lire 4.829.638.000.
M.B. impugnava l'accertamento dinanzi alla Commissione tributaria
provinciale di I grado, sostenendo:
- i costi portati a rimanenza non erano relativi agli immobili per
cui erano stati stipulati gli atti di vendita nel 1991, ma ad altri
immobili;
- erano stati dichiarati tra i ricavi di ciascun anno gli acconti
percepiti negli anni in cui si erano svolti i lavori, in considerazione
degli stati di avanzamento, senza riportare alcuna rimanenza. L'assunto
dell'ufficio avrebbe portato ad una doppia imposizione, in quanto ai ricavi
maturati negli anni precedenti il rogito e già tassati si aggiungerebbe la
tassazione dell'intero prezzo risultante dall'atto registrato;
- la stima UTE era irrilevante, dovendosi qualificare come ricavi i
corrispettivi della cessione dei beni, e non il valore di questi ultimi,
stante la divergenza tra il valore indicato dall'UTE e quello stabilito con
convenzione col comune, trattandosi di zona PEP;
- la ricostruzione effettuata sulla base dei movimenti bancari non
era attendibile. In quanto la stessa si riferiva a soggetti non conviventi;
in ogni caso, in relazione a tali ricavi dovendo portarsi in deduzione i
costi evidenziati dall'ufficio ancorché non contabilizzati.
Chiedeva, infine, la riduzione al minimo delle sanzioni irrogate.
Costituitosi in giudizio, l'ufficio opponeva che il contribuente aveva
fatto erroneo riferimento all'art. 60 del Tuir, avendo optato per la
valutazione delle rimanenze ex art. 60, comma 5, scelta che aveva
comunicato all'ufficio; da ciò discendeva che, non avendo l'ufficio
rettificato il valore delle rimanenze, non ricorreva alcuna imposizione;
che, inoltre, anche secondo la ricostruzione fatta dal contribuente, vi
sarebbe stato un versamento inferiore all'imposta dovuta, in quanto la
soluzione scelta avrebbe finito con l'incidere sulla progressività.
Ribadiva l'impossibilità di fare riferimento alla contabilità degli anni
pregressi, avendo il contribuente presentato domanda di condono tombale
fino al 1990, e che il totale dei ricavi era inferiore a quello sostenuto.
Quanto al valore degli immobili ceduti, l'ufficio rilevava che dalla stima
UTE non si evinceva la posizione del fabbricato in zona PEP; sulla
prospettata distinzione tra ricavi e corrispettivi, che la stessa non aveva
rilevanza, trattandosi di operazioni soggette ad Iva; che le acquisizioni
bancarie erano legittime in forza dell'art. 18 della L. n. 413 del 1991.
Con successiva memoria M.B. deduceva che, quanto alle rimanenze, aveva
operato di fatto, secondo il metodo di cui all'art. 60, imputando a ciascun
esercizio la quota di utile maturata, e ciò malgrado la richiesta
inoltrata, in relazione alla quale, peraltro, non era stato autorizzato,
come prescritto dal comma 5 dell'art. 60.
La Commissione adita accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo che
i corrispettivi per cessioni immobiliari si considerano realizzati alla
data di stipula del contratto, ai sensi dell'art. 75, comma 2, del Tuir;
che non fosse applicabile il valore della perizia UTE. Riconosceva,
pertanto, maggiori ricavi e congrua la percentuale di costi dell'80 per
cento, desumibile dalla documentazione fornita dal contribuente; riteneva,
inoltre, fondato il recupero della differenza tra maggiori ricavi e costi
non contabilizzati, rideterminando il reddito in lire 512.865.000.
La sentenza veniva impugnata da entrambe le parti.
Con sentenza 10 marzo-10 giugno 1999 la Commissione tributaria
regionale della Toscana, qualificato come incidentale l'appello del
contribuente, lo rigettava mentre accoglieva parzialmente il gravame
dell'ufficio.
Osservava che non poteva condividersi la scelta del contribuente di
anticipare l'imposizione registrando come ricavi il versamento degli
acconti, in quanto, secondo l'art. 75, comma 2, del Tuir, ai fini della
determinazione dell'esercizio di competenza, i corrispettivi della cessione
di immobili si considerano "conseguiti alla data della stipulazione
dell'atto".
Non poteva essere condiviso il rilievo del contribuente, secondo cui si
sarebbe determinata una doppia imposizione per avere egli dichiarato per
ciascun anno gli acconti percepiti in relazione agli stati di avanzamento
in quanto, effettuata una scelta contabile in violazione del dettato
normativo, non si può pretendere in sede contenziosa di ricostruire una
situazione di fatto svoltasi nell'arco di numerosi esercizi, che dovrebbe
risultare provata da schemi contabili riepilogativi predisposti dal
contribuente.
Quanto ai costi, gli stessi non potevano essere determinati in misura
superiore a quella fatta propria dall'ufficio, non potendosi applicare la
norma contenuta nell'art. 60, prevista solo per gli appalti.
Infine la Commissione, in applicazione dell'art. 12 del D.Lgs. 18
dicembre 1997, n. 472, rimetteva all'ufficio la determinazione delle
sanzioni.
Avverso tale sentenza M.B. ha proposto ricorso per cassazione, sulla
base di tre mezzi di annullamento.
L'Amministrazione finanziaria resiste con controricorso.
2. I motivi di ricorso
2.1. Col primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione
degli 127 del D.P.R. n. 917 del 1986,
il ricorrente lamenta che la sentenza sia incorsa in violazione del divieto
di doppia imposizione, non avendo tenuto conto del fatto che,
all'approvazione di ogni stato di avanzamento, erano stati sottoposti a
tassazione i corrispettivi ricevuti dai committenti, senza tenerne conto
nelle valutazioni delle rimanenze finali. All'atto del rogito era stata
fatturata solo la differenza tra prezzo di vendita e acconti ricevuti.
Il ricorrente contesta che ricorresse un impedimento alla sanatoria
della scelta contabile operata. Da un lato, non possono essere considerate
prove di parte le fatture emesse, concordanti con i dati contabili. Tanto
che lo stesso ufficio non aveva formulato in proposito alcun rilievo,
stante l'assenza di certezza sull'identità degli immobili, desunta dal
nominativo del cliente. Ai fini dell'applicazione dell'art. 75, comma 2,
che stabilisce, ai fini della determinazione dell'esercizio di competenza,
che i corrispettivi si considerano conseguiti alla data in cui le
prestazioni sono ultimate, si deduce che, negli appalti infrannuali possono
considerarsi ultimate le prestazioni per cui sia intervenuta l'accettazione
del committente, coincidente con gli stati di avanzamento, momento in cui
matura la pretesa concordata di ricevere il corrispettivo proporzionale
(artt. 1665 e 1666 del codice civile). Viene, in proposito invocato il
principio affermato dalla sentenza di questa Corte n. 2989 del 23 settembre
1996.
2.2. Col secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione
degli 60 del D.P.R. n. 917/1986, il
ricorrente deduce che, avendo dichiarato e sottoposto a tassazione
corrispettivi sulla base di stati di avanzamento approvati dai committenti,
egli si è avvalso della procedura prevista dall'art. 60, commi 1 e 2, del
Tuir. La sentenza non spiegherebbe adeguatamente per quale motivo il
contratto non possa essere considerato come appalto, essendo stata l'opera
realizzata con l'organizzazione dei mezzi dell'impresa, a rischio
dell'imprenditore e verso corrispettivo.
L'autorizzazione richiesta ai sensi del comma 5 dell'art. 60 e mai
concessa, avrebbe consentito di operare secondo il comma 2 dell'art. 75, e
cioè di contabilizzare le rimanenze dei lavori non effettuati al costo e
tassare i corrispettivi interamente all'atto della consegna. Nella sentenza
si rileva che, secondo l'art. 9 del D.P.R. n. 42/1988, l'autorizzazione
doveva intendersi concessa tacitamente, dimenticando che l'autorizzazione
ha effetto solo se il metodo prescelto sia adottato per tutti i beni e i
servizi. Pertanto, essendosi egli attenuto, non alle regole contabili
previste dall'art. 60, comma 5, ma a quelle previste dai commi 1 e 2 dello
stesso articolo, la richiesta di autorizzazione risulta contraddetta da
facta concludentia.
2.3. Col terzo motivo il ricorrente, denunciando omesso esame di un
punto decisivo della controversia, lamenta che la Commissione tributaria
regionale non abbia esaminato le questioni da lui svolte sull'illegittimità
delle acquisizioni bancarie considerandola irrilevante perché aveva
comunque ritenuto legittimo l'operato dell'ufficio.
Sul punto il ricorrente rileva che le acquisizioni predette erano
illegittime, sia perché fondate su una non consentita applicazione
retroattiva dell'art. 18 della L. n. 413/1991, sia perché l'esercizio di
maggiori poteri di indagini bancarie non è consentito nei confronti di
prossimi congiunti non conviventi.
3. Motivi della decisione
3.1. I primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente, meritano
accoglimento, nei limiti e nei termini che saranno di seguito precisati.
Si deve premettere che nel primo motivo viene dedotta, pur senza
formale denuncia ex art. 360, n. 5), del codice di procedura civile, una
carenza di motivazione circa l'esatta ricostruzione dei contratti,
considerati come appalti dal contribuente e come vendite dall'ufficio. In
proposito il Collegio rileva che, sul punto, la sentenza contiene una mera
affermazione, che non consente un adeguato esercizio del controllo sulla
corretta applicazione della legge e sulla coerenza logica del ragionamento
da parte del giudice d'appello.
Non può, inoltre, essere condivisa la soluzione radicale compiuta dalla
Commissione tributaria regionale, secondo cui l'opzione esercitata circa un
regime di esposizione di ricavi per contratti a prestazioni plurime,
comportanti stati di avanzamento, non poteva essere modificata da un
comportamento concludente, dedotto nella difesa svolta nel processo
tributario. Secondo il Collegio l'esposizione come ricavi dei corrispettivi
fatturati in relazione agli stati di avanzamento dei lavori, anche se in
contrasto con una precedente dichiarazione di opzione o in mancanza di
questa, possa costituire valido presupposto per l'imputazione del ricavo
secondo il principio della competenza e cioè quando l'obbligazione di
pagamento era divenuta certa e definitiva.
Vi è da considerare, infatti, che l'opzione e la revoca di regimi di
determinazione delle imposte, sia nel campo dell'imposizione diretta, che
dell'Iva, devono essere desunte da comportamenti concludenti del
contribuente o dalla tenuta delle scritture contabili, anche per rapporti
sorti prima dell'entrata in vigore del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 442. Il
Collegio richiama in proposito le sentenze della Sezione n. 9885/2002 e
n. 7011/2003.
Era necessario, quindi, procedere ad un esame circa l'esistenza e
l'inerenza dei testi in questione, non essendo sufficiente - come sostenuto
dall'ufficio - l'affermazione che la documentazione offerta (le fatture)
era di parte, senza consentire al contribuente di far valere i dati
emergenti dalle scritture contabili.
Tanto premesso, devono condividersi le censure svolte dal ricorrente
nel primo motivo circa la violazione del divieto di doppia imposizione, là
dove si lamenta che l'ufficio non avrebbe preso in considerazione, al fine
della quantificazione delle rimanenze, il fatto che gli acconti pagati in
relazione agli stati di avanzamento erano stati sottoposti a tassazione,
per cui, anche non condividendo la correttezza del criterio di esposizione
dei costi concretamente seguito dall'impresa, nella determinazione
dell'imposta complessivamente dovuta occorreva tenere conto, comunque, di
quella già corrisposta in relazione agli acconti. Tale conclusione discende
dall'applicazione del principio di compensazione, vigente nell'ordinamento
tributario anche prima dell'espresso riconoscimento contenuto nell'art. 8
dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212 del 2000). Nella
specie, ove si ritenga che la tassazione separata degli acconti abbia
comportato, in applicazione del criterio di progressività, una minor
tassazione complessiva di quella dell'intero corrispettivo contrattuale,
occorreva, comunque, sottrarre a tale importo la somma di quelli già
corrisposti in sede di fatturazione degli stati di avanzamento.
L'operatività de iure della compensazione nel campo tributario è stata
affermata dalla giurisprudenza della Corte nelle sentenze 10 febbraio 2001,
n. 1930, 13 dicembre 2004, n. 27761, e 26 novembre 2005, n. 17301. Aderendo
a tale principio il Collegio osserva che l'esercizio del potere
regolamentato in materia di compensazione, previsto dal citato art. 8, non
può considerasi condizione necessaria per l'operatività della
compensazione, ma attribuisce soltanto all'Amministrazione finanziaria la
possibilità di disciplinarne l'applicazione. Per cui, secondo il principio
affermato da questa Corte (sent. n. 14579/2001), in difetto di una
specifica normativa, devono applicarsi i principi dettati dal codice civile
(artt. 1241 e seguenti).
3.2. Deve, invece, essere rigettato il terzo motivo, in applicazione
dei principi più volte affermati da questa Corte circa la generale
inutilizzabilità, ai fini dell'accertamento tributario, dei risultati delle
indagini bancarie, i quali, ovviamente, devono essere valutati dal giudice
secondo le comuni regole in materia di prova, salva la presunzione posta
dall'articolo per i movimenti bancari compiuti direttamente dal
contribuente. In particolare, è stata più volte affermata l'utilizzabilità
di indagini compiute nei confronti di soggetti diversi dal contribuente
(sentenza 24 febbraio 2001, n. 2738), e in relazione a rapporti sorti prima
dell'entrata in vigore dell'art. 18 della L. n. 413/1991 (sentenze
n. 3880/2000 e n. 267/2001), trattandosi di norma che non incide sulla
fattispecie impositiva, ma regola la procedura di accertamento. Non si
tratta perciò di applicazione retroattiva delle norme.
3.3. L'accoglimento dei primi due motivi, nei termini sopra precisati,
comporta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra
Sezione della Commissione tributaria regionale della Toscana.
I giudici di rinvio dovranno:
a) riesaminare la questione della natura dei contratti, e cioè se
vendite o appalti, dando conto di tale esame con adeguata motivazione;
b) valutare se il contribuente abbia posto in essere comportamenti
concludenti, diretti ad esporre i ricavi conseguiti, attraverso il
pagamento di stati di avanzamento, e abbia formato adeguata prova, anche
attraverso le scritture contabili, della percezione di tali ricavi;
c) ove non si ritengano sussistenti i presupposti per la
dichiarazione dei ricavi con le modalità seguite dal contribuente, ai fini
della determinazione dell'imposta dovuta, di quella già pagata in occasione
delle fatturazioni parziali;
d) decidere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M. - la Corte di Cassazione accoglie, per quanto di ragione, il
primo ed il secondo motivo e rigetta il terzo; cassa e rinvia, anche per le
spese, ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale della
Toscana.