Massima - È sanzionato a titolo di appropriazione indebita il comportamento del liquidatore che, anteriormente all'approvazione del bilancio finale di liquidazione, provveda a determinare a conseguire l'importo relativo ai compensi la cui entità non sia stata oggetto di precedente quantificazione. L'ingiustizia del profitto è conseguente all'azione volta ad ottenere un vantaggio indebito ovvero un diritto non ancora maturato.
Sent. n. 6080 dell'11 febbraio 2009 (ud. del 9 gennaio 2008) della Corte Cass., Sez. II penale
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Sent. n. 6080 dell'11 febbraio 2009 (ud. del 9 gennaio 2008)
della Corte Cass., Sez. II penale - Pres. Esposito, Rel. Manna
Società - Liquidazione - Organi - Liquidatore - 2389 c.c.
- Compenso - Determinazione - Corresponsione - Appropriazione indebita -
Art. 646 c.p. - Ammissibilità - Condizioni
Massima - È sanzionato a titolo di appropriazione indebita il
comportamento del liquidatore che, anteriormente all’approvazione del
bilancio finale di liquidazione, provveda a determinare a conseguire
l’importo relativo ai compensi la cui entità non sia stata oggetto di
precedente quantificazione. L’ingiustizia del profitto è conseguente
all’azione volta ad ottenere un vantaggio indebito ovvero un diritto non
ancora maturato.
Motivi della decisione - 1- Con sentenza 9.6.08 la Corte d’Appello di
Torino confermava la condanna emessa dal Tribunale di Chivasso il 10.11.2006
- a carico di O.E. per il delitto di appropriazione indebita aggravata ex
art. 61 c.p., n. 11 perchè, in qualità di liquidatore della I. S.r.l., aveva
incamerato fondi della società senza autorizzazione alcuna dell’assemblea
dei soci - per complessivi Euro 61.796,68 imputandoli al compenso che gli
sarebbe spettato per l’opera professionale prestata fino a quel momento
(gennaio 2002).
Ricorreva l’O., per il tramite del proprio difensore, contro detta
sentenza, di cui chiedeva l’annullamento per erronea applicazione dell’art.
646 c.p. con riferimento alle modalità di liquidazione del compenso
spettante al liquidatore della società e per omessa motivazione su un punto
già devoluto con l’appello, nel senso che, contrariamente a quanto statuito
dalla Corte territoriale, il credito vantato a titolo di compenso
professionale era certo, liquido ed esigibile: in particolare, era esigibile
perché - sebbene la liquidazione della società fosse ancora in itinere -
detto credito andava liquidato, anche per esigenze di bilancio, con la
chiusura annuale dell’esercizio, tanto che in mancanza di effettive
pagamento il debito della società doveva essere iscritto nei ratei passivi.
Né - sempre ad avviso del ricorrente - il compenso doveva essere
necessariamente liquidato secondo la procedura di cui all’art. 2389 c.c.,
vuoi per essere detta, norma inapplicabile ai liquidatori perché non
richiamata, dall’art. 2497 c.c., vuoi perché la sua violazione avrebbe dato
luogo - semmai - a responsabilità ai sensi dell’abrogato art. 2630 c.c.,
comma 2, n. 1, e non già ex art. 646 c.p., anche perché ogni eventuale
contestazione dell’importo poteva essere avanzata in sede di reclamo al
Tribunale da ogni singolo socio, ferma restando altresì l’esperibilità
dell’azione civile di responsabilità.
2- Il ricorso è inammissibile ancor prima che manifestamente infondato.
Si premetta che è pacifico che l’imputato, prima di ultimare il proprio
incarico e di ottenere l’approvazione del proprio operato da parte
dell’assemblea dei soci, si è autoliquidato ed ha incassato complessivi Euro
61.796,68 prelevati dai fondi della I. S.r.l. imputandoli al compenso che
gli sarebbe spettato per l’opera professionale prestata fino a quel momento
(gennaio 2002), compenso che non era stato predeterminato all’atto della
nomina.
Si premetta ancora che in virtù di insegnamento giurisprudenziale antico
e costante da lunghissimo tempo (cfr. Cass. n. 45992 del 7.11.2007, ud.
7.12.2007; Cass. n. 9225 del 6.7.1988, dep. 5.7.1989; Cass. n. 1746 del
22.11.1985, dep. 26.2.1986; Cass. n. 6564 del 14.12.1982, dep. 14.7.1983;
Cass. n. 1382 del 23.4.1969, dep. 30.6.1969; Cass. n. 856 del 29.5.1967,
dep. 12.09.1967; Cass. n. 1672 del 25.11.1966, dep. 3.5.1967) - dal quale
non vi è motivo alcuno per discostarsi - il soggetto attivo del reato p. e
p. ex art. 646 c.p., non può ritenere scriminata la condotta contestatagli
(né invocare un asserito carattere non ingiusto del profitto) eccependo un
credito che non sia certo, liquido ed esigibile; infatti resta ingiusto il
profitto che l’agente intenda realizzare in virtù di una pretesa che avrebbe
dovuto far valere, proprio perché non compiutamente definita nelle
specifiche necessarie connotazioni di certezza, liquidità ed esigibilità,
soltanto con i mezzi leciti e legali postigli a disposizione
dall’ordinamento giuridico.
In altre parole in tal caso il profitto è pur sempre ingiusto perché
l’azione risulta posta in essere per conseguire quello che non è dovuto o
non è ancora dovuto.
Ciò detto, il tenore del ricorso è del tutto inidoneo ad inficiare il
passaggio decisivo ed ineludibile della motivazione dell’impugnata sentenza,
laddove si afferma la mancanza di certezza, liquidità ed esigibilità del
credito vantato dall’imputato a titolo di compenso per la sua attività di
liquidatore della I. S.r.l. (in particolare perché - sempre secondo la
precisa affermazione a riguardo resa dalla Corte territoriale - al
liquidatore non è dato poter quantificare da sé il proprio compenso.
A tale conclusione l’impugnata sentenza perviene sia condividendo quanto
asserito dal Giudice di prime cure, secondo cui ex art. 2276 c.c. ai
liquidatori di società per azioni si applicano le norme relative agli
amministratori, compreso l’art. 2389 c.c., sia rilevando che, ove mai si
fosse ritenuto non estensibile ai liquidatori il disposto del art. 2389 c.c.
(come sostenuto dall’imputato), comunque sarebbe stato applicabile quanto
meno l’art. 1709 c.c. in tema di mandato, in virtù del quale non vi era
alternativa all’accordo delle parti (id est con l’assemblea dei soci) o alla
determinazione ope iudicis del compenso, concernendo il parere di congruità
espresso dal Consiglio dell’Ordine dei commercialisti solo la regolarità
formale del compenso richiesto e non quella sostanziale, non avendo detto
Consiglio dell’Ordine il potere di liquidare il compenso in discorso.
A riguardo, invece, il ricorrente insiste su una pretesa inapplicabilità
dell’art. 2389 c.c., ma non chiarisce quale sarebbe a suo avviso la norma
cui agganciare l’asserito potere di autonoma liquidazione del compenso, né
spiega perché mai, pur in ipotesi di non estensione dell’art. 2389 c.c., non
troverebbe applicazione nemmeno l’art. 1709 c.c. in tema di mandato.
In altre parole, il ricorso è inammissibile perché con esso il
ricorrente non esamina specificamente - per confutarle - tutte le
considerazioni svolte dal provvedimento impugnato.
In proposito è appena il caso di ricordare che è inammissibile - per
mancanza della specificità del motivo prescritta dall’art. 581 c.p.p., lett.
c) - il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della
correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle
poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, che non può ignorare le
affermazioni de provvedimento censurato senza cadere nel vizio di
aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c),
all’inammissibilità del ricorso (cfr. Cass. n. 19951 del 15.5.2008, dep.
19.5.2008; Cass. n. 39598 del 30.9.2004, dep., 11.10.2004; Cass. n. 5191 del
29.3.2000, dep. 3.5.2000; Cass. n. 256 del 18.9.1997, dep. 13.1.1998).
In altre parole, il ricorrente avrebbe dovuto specificamente censurare
tale passaggio sostenendo con adeguati argomenti non solo la pretesa
esigibilità del proprio credito, ma anche la sua certezza e liquidità.
I rilievi di cui sopra precedono logicamente l’esame delle doglianze
fatte valere dal ricorrente, in ogni caso manifestamente infondate vuoi
perché l’autoliquidazione era in conflitto di interessi con la società che
lo stesso ricorrente in quel momento rappresentava, vuoi perché non può
attribuirsi rilievo alcuno - per escludere, a monte, l’applicabilità
dell’art. 646 c.p. - all’esistenza dei concorrenti e paralleli rimedi
civilistici che l’ordinamento appresta in favore dei soci nei confronti del
liquidatore, noto essendo che la possibilità di tutelare in sede civile un
diritto da altri leso di per sé non esclude la perseguibilità in sede penale
dell’autore della lesione medesima.
3- Ex art. 616 c.p.p. la pronuncia di inammissibilità comporta la
condanna del ricorrente alle spese processuali ed al versamento a favore
della Cassa delle ammende di una somma che stimasi equo quantificare in Euro
1.000,00 alla luce dei profili di colpa che emergono dal ricorso, secondo i
principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.
Segue altresì la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di
assistenza e costituzione in favore della costituita parte civile.
P.Q.M. - La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale,
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese; processuali ed al versamento di Euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.
Condanna il ricorrente al rimborso in favore della parte civile delle
spese di assistenza e costituzione di essa parte civile I. S.r.l. in persona
de legale rappresentante, che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre
IVA, CPA e spese generali.