Sei in Fallimento
Gli effetti della sentenza dichiarativa
Nei confronti del debitore
Gli effetti personali a carico del fallito possono distinguersi a seconda che pongano
a costui dei limiti in funzione delle esigenze della procedura fallimentare ovvero
li pongano per motivi di carattere sanzionatorio.
Rientra nella prima categoria la limitazione al diritto al segreto epistolare, sancita
dall’art. 48 L. F., come modificato dal D. Lgs. n. 5/06, secondo cui la corrispondenza
di ogni genere, ivi compresa quella elettronica, riguardante i rapporti inclusi
nel fallimento, deve essere consegnata dall’imprenditore o dall’amministratore della
società fallita alla curatela.
Nella medesima categoria deve altresì essere ricondotta la limitazione alla libertà
di circolazione e di soggiorno, di cui all’art. 49, nuova formulazione, L. F., in
base al quale il fallito è tenuto a comunicare al giudice delegato ogni cambiamento
della propria residenza o domicilio, al chiaro fine di garantire una pronta collaborazione
del fallito circa l’acquisizione di tutti gli elementi necessari alla ricostruzione
dell’attivo ed all’individuazione del passivo.
La seconda specie di limitazioni innanzi indicata riveste, invece, carattere sanzionatorio
e trova la propria fonte al di fuori della legge fallimentare, nel codice civile
e nella legislazione speciale. Si pensi, tra l’altro, all’incapacità ad essere tutore
o protutore, nonché ad essere amministratore o liquidatore di una s.p.a. ovvero
all’impossibilità di essere iscritto negli albi professionali. Tali effetti iniziano
a decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza di fallimento. L’annotazione
del fallimento stesso, peraltro,avviene anche presso altri albi o registri, come
quelli tenuti dalla Camera di Commercio locale.
In ogni caso, comunque, a seguito dell’apertura della procedura fallimentare, il
fallito non diventa incapace ad esercitare una qualsiasi attività imprenditoriale,
dal momento che detta incapacità può derivare soltanto dalla condanna del medesimo
soggetto per il resto di bancarotta fraudolenta o semplice.
Inoltre, a seguito della recente riforma in materia, tutte le limitazioni innanzi
illustrate che sorgono in capo al fallito vengono a cessare con la chiusura del
fallimento. A partire dal 16 gennaio 2006, infatti, è stato abrogato il pubblico
registro dei falliti, ove questi venivano iscritti per effetto delle sentenze di
fallimento e dal quale venivano cancellati solo a seguito del procedimento di riabilitazione,
abrogato anch’esso.
La sentenza dichiarativa di fallimento priva altresì il fallito dell’amministrazione
e della disponibilità dei beni in suo possesso, sempre con decorrenza dalla data
di deposito della sentenza stessa in cancelleria. Lo spossessamento del fallito,
peraltro, avviene sia in senso giuridico che materiale, poiché il curatore subentra
sia nell’amministrazione giuridica che nella disponibilità dei beni, cosicché il
patrimonio del fallito viene a separarsi dai suoi beni strettamente personali per
essere dato in garanzia ai creditori al fine di assicurarne il soddisfacimento in
sede di esecuzione concorsuale.
A tale spossessamento ed alla perdita della capacità di amministrazione e disposizione
del fallito fa riscontro anche la perdita della capacità processuale, sia attiva
che passiva, dello stesso in ordine ai rapporti di carattere patrimoniale rientranti
nel fallimento. Ne deriva pertanto che il fallito conserva la propria legittimazione
processuale limitatamente alle azioni di carattere personale ed a quelle relative
a rapporti patrimoniali che rimangano estranei al fallimento. Si può dunque concludere
che la perdita della capacità processuale del fallito, a seguito della dichiarazione
di fallimento, non è assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale
soltanto, e per essa al curatore, è concesso eccepirla.
Per i creditori
Affinché giunga a compimento la funzione propria della procedura fallimentare, ossia
la liquidazione del patrimonio del debitore e la ripartizione proporzionale di tutti
gli utili fra i creditori ammessi, debbono essere rispettati due presupposti fondamentali
sanciti dagli artt. 51 e 52 L. F., i quali stabiliscono il divieto di proseguire
le azioni esecutive individuali sul patrimonio del fallito e l’obbligo per tutti
i creditori che intendano far valere i loro diritti nei confronti del fallito, di
farlo esclusivamente nell’ambito della stessa procedura fallimentare attraverso
l’insinuazione al passivo dei rispettivi crediti.
Pertanto le azioni esecutive individuali proposte dopo la dichiarazione di fallimento
per crediti maturati durante il fallimento vanno dichiarate inammissibili su istanza
del curatore, unico soggetto legittimato, o d’ufficio (cfr. Cass. Sent. n. 17109/02),
mentre le azioni esecutive individuali proposte prima della dichiarazione di fallimento,
ma ancora in corso, devono essere dichiarate improcedibili (così Cass. Sent. n.
4742/97).
Il predetto principio del concorso, dettato dal citato art. 52 L. F., secondo cui
tutti i crediti nei confronti della massa fallimentare, anche se muniti di prelazione,
nonché ogni diritto reale e personale, debbano essere verificati nell’ambito della
procedura fallimentare, risponde alla chiara finalità di consentire un efficace
svolgimento della stessa mediante un accertamento dei crediti concentrato ed unitario,
improntato a criteri di sommarietà e rapidità, evitando la dispersione in separati
giudizi dinanzi al giudice ordinario, difficilmente compatibili con le esigenze
della procedura concorsuale. Il menzionato art. 52, peraltro, prevede una formulazione
ancora più ampia rispetto alla precedente, stabilendo che è soggetto alla verifica
del passivo ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, che si intenda
far valere nei confronti del fallimento. Si precisa altresì che il concorso sostanziale
tra creditori significa che essi concorrono alla ripartizione dell’attivo in maniera
proporzionale ai rispettivi crediti, rispettate, però, le cause di prelazione da
cui i crediti stessi sono assistiti. In base a tale principio i crediti muniti di
prelazione, e cioè assistiti da ipoteca, pegno o privilegio, hanno diritto ad essere
soddisfatti con precedenza rispetto agli altri sprovvisti di prelazione e quindi
chirografari.
Ancora, l’art. 55 L. F. stabilisce che la dichiarazione di fallimento sospende il
corso degli interessi legali o convenzionali di tutti i crediti chirografari per
l’intera durata della procedura, cristallizzando così la situazione dei creditori
chirografari in quella esistente nel momento in cui è stata emessa la sentenza dichiarativa
del fallimento stesso.
Sugli atti pregiudizievoli ai creditori
L’art. 64 della Legge Fallimentare, nuova formulazione, prevede l’inefficacia rispetto
ai creditori degli atti a titolo gratuito compiuti nei due anni antecedenti la dichiarazione
di fallimento. Peraltro rientrano in tale fattispecie non solo tutti gli atti tipicamente
gratuiti, come una donazione, ma anche tutti quelli che concretano un’alienazione
di beni priva di corrispettivo o che, comunque, comportano una diminuzione di patrimonio
anch’essa in mancanza di contropartita. Fuoriescono invece dall’ambito di applicazione
di tale norma i regali d’uso e gli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito in
adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, purché proporzionati
al patrimonio del donante.
Proseguendo nell’esame della disciplina, l’art. 65 della Legge Fallimentare sottopone
allo stesso regime di inefficacia proprio degli atti a titolo gratuito i pagamenti
anticipati dei crediti che vadano a scadere nel giorno della dichiarazione di fallimento
o posteriormente , effettuati dal fallito nei due anni precedenti la sentenza fallimentare,
presumendoli avvenuti in frode ai creditori. Il successivo art. 66 riconosce al
curatore la facoltà di chiedere giudizialmente che venga dichiarata l’inefficacia
degli atti compiuti dal debitore fallito in pregiudizio dei creditori, promuovendo
cioè l’azione revocatoria ordinaria prevista dall’art. 2901 c.c.
I presupposti a tal fine richiesti dalla legge sono i seguenti:
- l’esistenza di un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore
fallito;
- l’avere tale atto determinato un pregiudizio, e dunque un danno, ai creditori,
i quali, per effetto del depauperamento subito dal debitore in conseguenza di detto
atto, non riescono più a trovare nel patrimonio di questi beni sufficienti a soddisfare
il proprio credito;
- l’esistenza di un nesso causale tra l’atto da revocare ed il danno cagionato;
- sul piano soggettivo, il c.d. consilium fraudis, ossia la consapevolezza da
parte del debitore del pregiudizio che l’atto stesso poteva recare ai creditori.
L’azione revocatoria ordinaria in argomento si prescrive nel termine di cinque anni
dal compimento dell’atto da revocare. Qualora poi tale azione venga instaurata in
sede fallimentare, essa conosce alcune peculiarità di trattamento: in primo luogo,
legittimato a proporre l’azione è il solo curatore, il quale agisce per l’intera
massa dei creditori ed è destinato a sostituirsi al debitore fallito qualora il
giudizio fosse stato iniziato da questi prima della dichiarazione di fallimento;
inoltre, competente a decidere in ordine all’azione revocatoria è il tribunale fallimentare.
Di natura speciale rispetto all’azione revocatoria ordinaria è l’azione revocatoria
fallimentare, che presenta taluni caratteri distintivi quanto ai presupposti ed
all’aspetto processuale. In particolare, il legislatore, al fine di rendere maggiormente
agevole la proposizione dell’azione e facilitare la dimostrazione del suo fondamento
sul piano probatorio, ha introdotto una serie di presunzioni relative al danno,
che viene ricollegato al fatto stesso dell’insolvenza, ed all’esistenza dello stesso
stato d’insolvenza, che viene fatto presuntivamente risalire ad una certa epoca
anteriore alla dichiarazione di fallimento. Ancora, sotto il profilo soggettivo,
si presume che il debitore, il quale già si trovi in una condizione di insolvenza,
sia consapevole che l’atto di disposizione da lui stesso effettuato risulti pregiudizievole
per l’interesse dei creditori, e che anche il terzo, beneficiario di detto atto,
sia consapevole del pregiudizio arrecato dal debitore ai propri creditori per effetto
di tale atto.
Ne deriva che il curatore, il quale agisca in revocatoria fallimentare anziché ordinaria,
ai sensi dell’art. 67 L. F., è tenuto soltanto a provare l’esistenza dell’atto da
revocare ed il compimento dello stesso nei sei mesi o nell’anno precedente la data
di dichiarazione del fallimento, a seconda della tipologia di atto da prendere in
considerazione.
Sul piano processuale, l’art. 69bis L. F., introdotto dalla recente riforma, prevede
un termine di decadenza per la proposizione dell’azione revocatoria fallimentare,
stabilendo che essa non può comunque essere promossa decorsi tre anni dalla dichiarazione
di fallimento e, in ogni caso, cinque anni dal compimento dell’atto di cui si chiederebbe
la dichiarazione di inefficacia.
Sui rapporti giuridici preesistenti
La sentenza dichiarativa di fallimento è solita intervenire quando vi sono dei rapporti
contrattuali ancora in corso tra il fallito ed i terzi, i cui effetti non si sono
esauriti. La legge fallimentare, così come modificata dal decreto legislativo n.
5/06, contiene una disciplina di tali rapporti alquanto diversa rispetto a tali
rapporti.
È stata introdotta, infatti, una norma di carattere generale, contenuta nell’art.
72 L. F., applicabile, in mancanza di una diversa specifica normativa, a tutti i
rapporti contrattuali in essere , basata sul principio secondo cui il curatore ha
facoltà di scegliere se subentrare nel rapporto in corso ovvero sciogliersi dallo
stesso. L’opinione del curatore, peraltro, può essere esercitata anche mediante
comportamenti concludenti dallo stesso assunti e da cui si possa, ad esempio, inequivocabilmente
dedurre la sua volontà di proseguire il rapporto (così Cass. Sent. n. 3974/04).
In base al regime recentemente modificato, applicabile alle procedure fallimentari
iniziate dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo in commento, dunque, se
un contratto non è stato ancora del tutto eseguito da entrambe le parti quanto è
stato pronunciato il fallimento, l’esecuzione di tale contratto rimane sospesa fino
a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiari
di subentrare nel contratto al posto del fallito, assumendone i relativi obblighi,
oppure di sciogliersi dal medesimo.
Quanto alla sorte di uno dei principali tipi di contratto che possono sopravvivere
alla declaratoria di fallimento, ossia il contratto di compravendita, il nuovo art.
72bis L. F. detta una disciplina specifica, stabilendo che, in caso di fallimento
del venditore, se la cosa venduta è già passata in proprietà del compratore, il
contratto non si scioglie.
Per quel che riguarda, invece, il contratto di locazione di immobili e quello di
affitto di azienda, l’art. 80 L. F., così come recentemente modificato, prevede
che il fallimento del locatore non sciolga il contratto di locazione immobiliare
e che il curatore subentri nel contratto. Ove fallisca, invece, il conduttore, il
curatore può in qualunque tempo recedere dal contratto, corrispondendo al locatore
un equo indennizzo per l’anticipato recesso, che, in caso di disaccordo tra le parti,
è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati.
Circa il contratto di leasing o locazione finanziaria, il nuovo art. 72quater L.
F., in caso di fallimento dell’utilizzatore, lo assoggetta alla regola generale
di cui al citato art. 72, con conseguente sospensione del contratto, finché il curatore
non opti per lo scioglimento o per il subentro.