Al termine di una convivenza può essere stabilito un compenso solo a favore di colui che abbia svolto prestazioni che esulano dai normali doveri

Le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell'ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell'articolo 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale; con la conseguenza che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio", effettuate nel corso del rapporto, configurano adempimento di un'obbligazione naturale ex articolo 2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalita' e di adeguatezza (Cass. 1277/2014). Sicche' - in via di principio - l'attivita' lavorativa e di assistenza svolta all'interno di un contesto familiare in favore del convivente "more uxorio" trova di regola la sua causa nei vincoli di fatto di solidarieta' ed affettivita' esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual e' il rapporto di lavoro subordinato.

Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, Sentenza 25 gennaio 2016, n. 1266



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore - Presidente

Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere

Dott. CAMPANILE Pietro - Consigliere

Dott. VALITUTTI Antonio - rel. Consigliere

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro - Consigliere

ha pronunciato la seguente:
 

SENTENZA

sul ricorso 26737-2011 proposto da:

(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso l'avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

- ricorrenti -

contro

(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso l'avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall'avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso;

- controricorrenti -

contro

(OMISSIS), (OMISSIS);

- intimati -

avverso la sentenza n. 2765/2011 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 31/08/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/11/2015 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI;

udito, per i ricorrenti, l'Avvocato (OMISSIS) che si riporta;

udito, per i controricorrenti, l'Avvocato (OMISSIS), con delega, che ha chiesto l'inammissibilita', in subordine rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con atto di citazione notificato il 12.9.1998, (OMISSIS) ed i figli (OMISSIS) e (OMISSIS) convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Benevento, (OMISSIS) e (OMISSIS), chiedendo accertarsi, in capo agli attori, la contitolarita' del diritto di proprieta' sull'azienda dei convenuti e sugli immobili acquistati da questi ultimi - durante il periodo in cui la (OMISSIS) aveva convissuto more uxorio con (OMISSIS) - con conseguente condanna dei convenuti al pagamento del controvalore di detti beni.

1.1. Si costituivano in giudizio i (OMISSIS), contestando la pretesa di controparte, e spiegando domanda riconvenzionale, diretta ad ottenere la condanna degli attori il risarcimento dei danni subiti per effetto della trascrizione della domanda sui beni di loro proprieta'.

1.2. La causa veniva definita con sentenza n. 745/2007, con la quale il Tribunale di Benevento condannava il solo (OMISSIS) al pagamento, in favore della (OMISSIS) e dei (OMISSIS), della somma di euro 80.000,00, oltre alla refusione delle spese di lite, compensando quelle relative al rapporto tra gli attori e (OMISSIS).

2. Avverso la decisione di prime cure proponevano appello (OMISSIS) e (OMISSIS), che veniva parzialmente accolto dalla Corte di Appello di Napoli, con sentenza n. 2765/2011, depositata il 31.8.2011.

2.1. Con tale pronuncia il giudice di secondo grado ordinava la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale in relazione ai beni del solo (OMISSIS), confermando nel resto l'impugnata sentenza e compensando le spese del giudizio di appello.

3. Per la cassazione della sentenza n. 2765/2011 hanno proposto, quindi, ricorso (OMISSIS) e (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), affidato a dieci motivi.

4. I resistenti hanno replicato con controricorso e con memoria ex articolo 378 c.p.c..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso, (OMISSIS) e (OMISSIS) denunciano la violazione e falsa applicazione dell'articolo 92 c.p.c., nonche' l'omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

1.1. Si dolgono, invero, gli istanti del fatto che la Corte territoriale abbia provveduto, nonostante (OMISSIS) non fosse risultato in alcun modo soccombente nella lite, alla compensazione integrale delle spese del giudizio di appello, in violazione del disposto di cui all'articolo 92 c.p.c., a tenore del quale la compensazione delle spese processuali e' ammessa solo in presenza di "gravi ed eccezionali ragioni".

1.2. Il motivo e' infondato.

1.2.1. Il testo della norma di cui all'articolo 92 c.p.c. invocato dai ricorrenti e', difatti, il seguente: "se vi e' soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice puo' compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti". Senonche', va rilevato che il disposto succitato e' stato introdotto dalla Legge n. 69 del 2009, articolo 45, comma 11, ed e' applicabile, ai sensi del successivo articolo 58, ai giudizi instaurati successivamente al 4.7.2009, data di entrata in vigore della stessa legge. In precedenza, l'articolo 92 c.p.c. aveva subito una prima modifica in forza della Legge n. 263 del 2005, articolo 2, comma 1, lettera a) per effetto della quale il testo della disposizione in esame veniva ad essere il seguente: "se vi e' soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice puo' compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti". Il testo succitato trova applicazione - in forza del Decreto Legge n. 273 del 2005, articolo 39 quater, comma 2 convertito nella Legge n. 51 del 2006, che ha differito la data di applicazione originariamente fissata all'1.1.2006 dalla Legge n. 263 del 2005, articolo 2, comma 4 - solo ai procedimenti instaurati successivamente all'1.3.2006.

1.2.2. Ne' l'una ne' l'altra versione della norma succitate e', pertanto, applicabile al caso di specie, essendo stato il presente giudizio incardinato con atto di citazione notificato il 12.9.1998. Ne discende che la versione dell'articolo 92 c.p.c. applicabile alla fattispecie concreta e' quella originaria, secondo la quale "se vi e' soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice puo' compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti". Orbene, l'indirizzo interpretativo piu' recente si e' ormai consolidato nel senso che, ai sensi dell'articolo 92 c.p.c., comma 2, nel testo applicabile "ratione temporis" prima della modifica introdotta dalla Legge n. 263 del 2005, articolo 2, comma 1, lettera a), la scelta di compensare le spese processuali e' riservata al prudente, ancorche' motivato, apprezzamento del giudice di merito, la cui statuizione puo' essere censurata in sede di legittimita' solo quando siano illogiche o contraddittorie le ragioni poste alla base della motivazione sulle spese - che puo' anche desumersi dal complesso delle considerazioni giuridiche o di fatto enunciate a sostegno della decisione di merito o di rito - tali da inficiare, per inconsistenza o erroneita', il processo decisionale (cfr., ex plurimis, Cass. S.U. 20598/2008; Cass. 24531/2010; 20457/2011; 7763/2012; 1371/2013; 1997/2015).

1.2.3. Nel caso di specie, la compensazione delle spese e' stata motivata con riferimento alla "particolarita' dei temi involti dalle censure" ed dall'esito complessivo della lite". Sicche' l'operata compensazione si palesa del tutto corretta, tenuto conto del testo applicabile ratione temporis.

1.3. La censura va, pertanto, rigettata.

2. Con il secondo motivo di ricorso, (OMISSIS) e (OMISSIS) denunciano l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2.1. Avrebbe errato la Corte di Appello, a parere dei ricorrenti, nel disattendere - senza, peraltro, adeguata motivazione - la domanda di risarcimento del danno conseguente alla trascrizione della domanda giudiziale, operata degli attori (OMISSIS) ed (OMISSIS) e (OMISSIS), sui beni dei convenuto (OMISSIS), nonche' la domanda subordinata di condanna generica al risarcimento dei danni subiti da quest'ultimo, da liquidarsi in separato giudizio, sebbene la pretesa azionata nei confronti del medesimo fosse stata integralmente rigettata. L'assunto della Corte territoriale, secondo cui la domanda in questione sarebbe sfornita di prova, si rivelerebbe, invero, destituito di fondamento, essendo il danno intrinseco nel comportamento illegittimo tenuto dagli attori, consistente nell'avere erroneamente individuato (OMISSIS) come legittimato passivo a fronte dell'azione da loro proposta in giudizio.

2.2. La censura e' infondata.

2.2.1. Va osservato - in proposito - che l'azione di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della trascrizione di una domanda giudiziale trova il suo titolo giuridico nell'articolo 2043 c.c. nell'ipotesi di domanda non trascrivibile, in quanto non compresa in nessuno dei casi previsti dagli articoli 2652 e 2653 c.c., dovendosi nell'eseguita trascrizione ravvisare un vero e proprio fatto illecito, e nell'articolo 96 c.p.c., comma 2, nell'ipotesi di domanda che, pure essendo suscettibile di trascrizione, in concreto non poteva essere trascritta, non sussistendo il diritto con essa fatto valere (cfr., ex plurimis, Cass. 10219/1990; 4281/1996; S.U. 6597/2011).

2.2.2. Nel caso concreto, il risarcimento del danno per la trascrizione della domanda giudiziale e' palesemente dedotto sotto tale secondo profilo, avendo i ricorrenti affermato che il risarcimento avrebbe dovuto essere liquidato dal giudice di appello, per il fatto che era stata "rigettata la domanda proposta nei confronti del (OMISSIS)". Orbene, per quanto concerne la domanda principale di liquidazione del danno in questione, va osservato che, in tema di responsabilita' aggravata per lite temeraria, che ha natura extracontrattuale, la domanda di cui all'articolo 96 c.p.c. richiede pur sempre la prova, incombente sulla parte istante, sia dell'"an" e sia del "quantum debeatur", o comunque postula che, pur essendo la liquidazione effettuabile di ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa (cfr. Cass. S.U. 7583/2004; S.U. 1140/2007; 9080/2013).

2.2.3. Nella specie, dall'impugnata sentenza si evince - per contro - che alcun danno e' stato allegato, ed a fortiori comprovato, dal (OMISSIS) correlato o correlabile all'eseguita trascrizione. D'altro canto, gli stessi ricorrenti si sono dimostrati consapevoli di non avere fornito in giudizio prova alcuna del pregiudizio subito, laddove affermano che il giudice di seconde cure avrebbe dovuto "riconoscere il giusto danno al (OMISSIS) secondo il suo prudente apprezzamento anche in mancanza di qualsiasi allegazione di danno subito" (p. 13 del ricorso). Non si vede, pertanto, sotto quale profilo la domanda in parola avrebbe dovuto essere accolta dal giudice di appello.

2.2.4. Quanto alla domanda subordinata di condanna generica, deve osservarsi che, nel caso in cui - come nella specie - l'azione di danno debba essere inquadrata nel disposto dell'articolo 96 c.p.c., e' improponibile la domanda con la quale si chieda al giudice della causa del merito, che e' investito dell'esclusiva competenza a liquidare il danno in questione, il solo accertamento della responsabilita' con la liquidazione del danno medesimo in separata sede (Cass. 680/1971; 10219/1990). E' evidente, infatti, che - in tal modo - siffatta competenza esclusiva verrebbe, di fatto, ad essere elusa. Anche sotto il profilo in questione, pertanto, la censura si palesa infondata.

2.3. Il mezzo in esame va, di conseguenza, disatteso.

3. Con il terzo motivo di ricorso, (OMISSIS) e (OMISSIS) denunciano la violazione degli articoli 132 e 161 c.p.c. e articolo 111 Cost. in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

3.1. La sentenza di appello sarebbe affetta da nullita', ad avviso dei ricorrenti, poiche' del tutto carente di motivazione in fatto ed in diritto, non essendo stati indicati "I dati obiettivi sui quali la Corte investita ha ritenuto di fondare la propria valutazione al fine di confermare la sentenza del Tribunale impugnata".

3.2. Il motivo e' infondato.

3.2.1. Secondo il costante insegnamento di questa Corte, invero, il difetto di motivazione su questioni di fatto rientra nella violazione di legge, che legittima la proposizione del ricorso per cassazione ex articolo 111 Cost., comma 6, quando si traduca nella radicale carenza della motivazione, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la "ratio decidendi" (ed. motivazione apparente), o fra di loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento stesso (Cass. S.U. 5888/1992; S.U. 319/1999; Cass. 26426/2008). Ne' puo' sottacersi l'incidenza che siffatta carenza motivazionale - qualora sussista in concreto - puo' dispiegare sulla concreta possibilita' di un pieno e consapevole esercizio del diritto di difesa (articolo 24 Cost.) nei diversi gradi nei quali si articola il giudizio, essendo di tutta evidenza che una motivazione poco chiara rende ardua anche la possibilita' di proporre un gravame adeguato alla tutela dei diritti della parte rimasta soccombente. Ne discende che la sentenza dotata di una motivazione soltanto apparente deve ritenersi affetta da nullita' radicale, censurabile ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

3.2.2. E tuttavia, siffatte affermazioni di principio non possono trovare applicazione alcuna nel caso di specie. L'impugnata sentenza e', difatti, fornita di un adeguato corredo argomentativo, non risultando in alcun modo carente ne' in ordine all'esposizione dei fatti rilevanti della causa, ne' in relazione alle ragioni giuridiche della decisione, congruamente ed adeguatamente esposte in relazione a ciascun motivo di appello proposto dagli odierni ricorrenti. 3.3. La censura non puo', pertanto, trovare accoglimento.

4. Con il quarto e nono motivo - che, per la loro evidente connessione vanno esaminati congiuntamente - (OMISSIS) e (OMISSIS) denunciano l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4.1. Avrebbe errato il giudice di appello nel ritenere - peraltro sulla base di una percorso argomentativo del tutto incongruo - che il lavoro domestico prestato dalla (OMISSIS) nel corso della convivenza more uxorio con (OMISSIS) dovesse trovare un riconoscimento sul piano patrimoniale. A parere degli istanti si tratterebbe, per contro, di prestazioni rese in adempimento di un mero dovere morale dalle quali, ai sensi dell'articolo 2034 c.c., non potrebbe derivare effetto giuridico alcuno, sul piano obbligatorio, se non quello della ed. soluti retentio che comporta l'impossibilita' di ottenere a restituzione quanto sia stato corrisposto spontaneamente in adempimento di tale dovere.

4.2. Le censure sono infondate.

4.2.1. E' bensi' vero, infatti, che le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell'ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell'articolo 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale; con la conseguenza che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente "more uxorio", effettuate nel corso del rapporto, configurano adempimento di un'obbligazione naturale ex articolo 2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalita' e di adeguatezza (Cass. 1277/2014). Sicche' - in via di principio - l'attivita' lavorativa e di assistenza svolta all'interno di un contesto familiare in favore del convivente "more uxorio" trova di regola la sua causa nei vincoli di fatto di solidarieta' ed affettivita' esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual e' il rapporto di lavoro subordinato.

4.2.2. Tuttavia, la sussistenza in concreto di un rapporto di tal fatta non esclude che talvolta le prestazioni svolte possano trovare titolo in un rapporto di lavoro subordinato, del quale il convivente deve fornire prova rigorosa, e la cui configurabilita' costituisce valutazione in fatto, come tale demandata al giudice di merito e non sindacabile in cassazione, ove adeguatamente motivata (Cass. 5362/2006; 1833/2009; 14434/2015).

4.2.3. Ebbene, nel caso concreto, la decisione di appello ha evidenziato come, nel corso del giudizio di primo grado, fosse emerso che la (OMISSIS) non si era limitata ad effettuare una mera collaborazione domestica e di aiuto occasionale al lavoro di (OMISSIS), suo convivente more uxorio, ma aveva dato "un contributo lavorativo continuativo all'azienda di quest'ultimo con arricchimento esclusivo dello stesso, in luogo di quello dell'intera famiglia cui detto apporto lavorativo era preordinato".

La Corte territoriale ne ha tratto, pertanto, la conseguenza che le statuizioni della sentenza di prime cure non fossero "dissonanti" rispetto ai principi di diritto suesposti, essendo "l'analisi differenziale del caso concreto, connotato da prestazioni esulanti dai doveri di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione", rispetto alle situazioni "tipiche" nelle quali il lavoro domestico ha carattere gratuito, idonea a fondare - in maniera adeguata e convincente - la decisione resa dal Tribunale di Benevento. Di conseguenza, la Corte di Appello ha ritenuto fondata la domanda di condanna di (OMISSIS) alla corresponsione di un indennizzo - sub specie di arricchimento senza causa, configurabile anche in relazione al lavoro prestato durante la convivenza more uxorio (Cass. 11330/2009) - per il lavoro svolto dalla (OMISSIS) nell'azienda del convivente.

4.2.4. Si tratta, dunque, a giudizio di questa Corte, di valutazione in fatto, adeguatamente motivate, come tali non censurabili in sede di legittimita'.

4.3. Le censure vanno, di conseguenza, rigettate.

5. Con il quinto motivo di ricorso, (OMISSIS) e (OMISSIS) denunciano la violazione dell'articolo 112 c.p.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

5.1. I ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte di Appello - incorrendo, a loro parere, in evidente extrapetizione - abbia condannato (OMISSIS) al pagamento, nei confronti di degli attori (OMISSIS), ed (OMISSIS) e (OMISSIS), di un indennizzo a titolo di arricchimento senza causa - quantificato in euro 80.000.000 - per il vantaggio ricevuto per il contributo lavorativo prestato in suo favore dalla (OMISSIS) e per il denaro che quest'ultima, lavorando nel fine settimana presso un ristorante, aveva sempre consegnato all'allora convivente. Nell'atto introduttivo del giudizio di prime cure gli odierni resistenti avrebbero, per contro, limitato la loro domanda alla richiesta di riconoscimento della contitolarita' dell'azienda e degli immobili acquistati da (OMISSIS) con i proventi del lavoro familiare, ed alla condanna del convenuto al controvalore di detti beni (lire 850.000.000). Di qui la denuncia violazione dell'articolo 112 c.p.c..

5.2. La censura e' inammissibile per difetto di autosufficienza.

5.2.1. Ed invero, anche quando nel ricorso per cassazione sono denunciati "errores in procedendo", pur potendo i giudici di legittimita' prendere cognizione degli atti di causa, e' necessario, per il principio di autosufficienza dei ricorso, che siano indicati con precisione gli elementi di fatto che consentano di controllare la decisivita' dei vizi dedotti - se del caso, trascrivendo gli atti rilevanti, quanto meno nei loro passaggi salienti - atteso che l'astensione per il giudice dalla ricerca del testo completo degli atti processuali trova fondamento nell'esigenza di evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo, essendo solo del ricorrente la responsabilita' della redazione dell'atto introduttivo (Cass. 6225/2005; 830/2006; 4840/2006; 2140/2006; 653/2007; 13657/2010).

5.2.2. Nel caso concreto, per converso, nulla e' dato desumere, dall'esame della censura, circa il contenuto dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, non trascritto, neppure nei suoi punti essenziali, ne' allegato al ricorso.

5.3. Il mezzo in esame, poiche' inammissibile, non puo' - di conseguenza - trovare accoglimento.

6. Con il sesto motivo di ricorso, (OMISSIS) e (OMISSIS) denunciano la violazione dell'articolo 113 c.p.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6.1. La decisione impugnata non si sarebbe fondata, invero, su norme di diritto, avendo la Corte territoriale deciso la causa secondo equita', senza che la legge gliene avesse attribuito il potere, e facendo l'organo giudicante uso della propria "scienza personale".

6.2. La censura e' infondata.

6.2.1. Ed infatti, dall'esame dell'impugnata sentenza si evince che la Corte di Appello non ha in alcun modo violato il principio, sancito dall'articolo 113 c.p.c., comma 1, secondo cui il giudice deve pronunciarsi secondo le norme del diritto (iura novit curia) e non secondo equita', se a tanto non e' espressamente autorizzato dalla legge. La decisione di appello e', invero, motivata in diritto, avendola Corte di Appello - come dianzi detto - fatto applicazione dei principi giuridici enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di lavoro nellaconvivenza more uxorio.

6.2.2. Il divieto per il giudice di fare ricorso alla propria scienza personale e' da reputarsi, poi, del tutto inconferente in relazione alla censura in esame, fondata sulla violazione dell'articolo 113 c.p.c., laddove il divieto in parola e' contenuto nell'articolo 97 disp. att. c.p.c. ed e' estraneo al tema della pronuncia secondo diritto, concernendo, invece, il materiale probatorio da porre a fondamento della decisione, ai sensi dell'articolo 115 c.p.c..

6.3. Per tali ragioni, pertanto, il motivo va disatteso.

7. Con il settimo ed ottavo motivo, (OMISSIS) e (OMISSIS) denunciano la violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., in relazione all'articolo360 c.p.c., comma 1, n. 3.

7.1. Il giudicante di seconde cure non avrebbe, a parere dei ricorrenti, adeguatamente tenuto conto di quanto allegato e comprovato dagli appellanti, incorrendo nella violazione delle disposizioni suindicate.

7.2. Le censure sono inammissibili.

7.2.1. I ricorrenti denunciano, infatti, sub specie di violazione di legge (articoli 115 e 116 c.p.c.), la valutazione del materiale istruttorio allegato dalle parti, operata dal giudice di seconde cure. Orbene, va osservato, al riguardo, che la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione e' rimessa all'apprezzamento discrezionale, ancorche' motivato, del giudice di merito, ed e' censurabile, quindi, in sede di legittimita', soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione e non anche sotto quello della violazione di legge (articoli 115 e 116 c.p.c.) (Cass. 21603/2013).

7.2.2. Per il che, avendo i ricorrenti dedotto, invece, la violazione delle norme succitate, il mezzo non puo' che essere dichiarato inammissibile.

8. Con il decimo motivo di ricorso, (OMISSIS) e (OMISSIS) denunciano la violazione e falsa applicazione degli articoli 2041 e 2042 c.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

8.1. Secondo i ricorrenti, l'impugnata sentenza - violando le norme succitate - avrebbe accolto la domanda degli odierni resistenti sub specie di arricchimento senza causa, ai sensi degli articoli 2041 e 2042 c.c., laddove tale azione non sarebbe stata proposta, neppure in via subordinata, dagli attori nel primo grado del giudizio.

8.2. Ebbene, il motivo di ricorso che si concreti in uno dei vizi di cui all'articolo 112 c.p.c. (omessa pronuncia, extrapetizione o ultrapetizione) deve recare l'univoco riferimento alla nullita' della decisione derivante dalla relativa violazione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorche' sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. S.U. 17931/2013; Cass. 24553/2013).

8.3. La censura suesposta, in quanto inammissibile, va, pertanto, disattesa.

9. Per le ragioni suesposte, il ricorso proposto da (OMISSIS) e (OMISSIS) deve, di conseguenza, essere integralmente rigettato.

10. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, nella misura di cui in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti alle spese del presente giudizio, che liquida in euro 7.000,00, oltre ad euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie ed accessori di legge.

 

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