Il danno non patrimoniale per l'eccessiva durata del processo deve essere riconosciuta anche alle persone giuridiche

Il danno non patrimoniale sorge come conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo previsto dalla legge 89/2001, anche se la parte del giudizio è una società di capitali. (Corte di Cassazione Sezione 1 Civile, Sentenza del 2 luglio 2008, n. 18153)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISCUOLO Alessandro - Presidente

Dott. SALME' Giuseppe - Consigliere

Dott. DEL CORE Sergio - rel. Consigliere

Dott. TAVASSI Marina - Consigliere

Dott. PETITTI Stefano - Consigliere

ha pronunciato la seguente:



SENTENZA

sul ricorso proposto da:

LA. ST. S.R.L., in rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA NICOLO' PORPORA 9, presso l'avvocato GIONTELLA MARCO, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA VIA dei PORTOGHESI 12, presso L'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

- controricorrente -

avverso il decreto della Corte d'Appello di PERUGIA, depositato il 25/05/06;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 14/05/2008 dal Consigliere Dott. Sergio DEL CORE;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Libertino Alberto RUSSO che, visto l'articolo 375 c.p.c., chiede che la Corte di Cassazione, in camera di consiglio, accolga il ricorso per quanto di ragione, per manifesta fondatezza.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La s.r.l. La. St. ricorre con tre motivi contro il decreto 25 maggio 2006 con cui la Corte d'appello di Perugia ne ha rigettato la domanda di equa riparazione in relazione a un giudizio civile iniziato nel novembre 1992 e definito in primo grado con sentenza 20 settembre 2004, ritenendo non provati i danni patrimoniali e non ipotizzabili, per una persona giuridica, quelli non patrimoniali, ricondotti al mero patema d'anima o all'ansia per la procrastinata incertezza sull'esito della vicenda processuale.

Resiste con controricorso il Ministro della giustizia.

Il ricorso viene discusso in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 375 c.p.c. sulle conclusioni del P.G. in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione della Legge n. 89 del 2001 articolo 2 articoli 6, e 41 della CEDU e vizi di motivazione, ascrivendo alla Corte di appello di non avere riconosciuto alla societa' la spettanza dell'equa riparazione dei danni non patrimoniali pur avendo accertato una durata del processo eccedente il termine ragionevole per anni otto e mesi. Richiama, al riguardo, l'orientamento della Corte di Strasburgo e della piu' recente giurisprudenza di legittimita', per il quale, nel caso di violazione del termine di ragionevole durata, sorge, come conseguenza normale, un danno morale anche se la parte processuale sia una persona giuridica.

Il motivo e' fondato.

Nel respingere la richiesta di equa riparazione per il danno non patrimoniale, la Corte fa riferimento a un indirizzo giurisprudenziale, riscontrabile anche in talune sentenze di legittimita', che puo' dirsi ormai superato.

Per vero, il piu' recente orientamento di questa Sezione, condiviso dal Collegio, e' nel senso di ritenere che, anche per le persone giuridiche, il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, e', tenuto conto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, e non diversamente da quanto avviene per gli individui persone fisiche, conseguenza normale, ancorche' non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri; sicche', pur dovendo escludersi la configurabilita' di un danno non patrimoniale in re ipsa - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione - una volta accertata e determinata l'entita' della violazione relativa alla ragionevole durata del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non sussistano, nel caso concreto, circostanze particolari, le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dalla ricorrente (2246/2007, 714512006, 21094/2005, 17500/2005).

Il decreto impugnato, sul punto in questione, ha escluso che per una societa' di capitali sia ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d'animo riconducibile all'incertezza derivata dall'eccessiva durata del processo, laddove, per negare l'equa riparazione a tale titolo, avrebbe dovuto trarre dalla prova fornita dal resistente e, piu' in generale, dalla istruttoria, l'esclusione positiva che si e' detta. Esso e', pertanto, incorso nella allegata violazione di legge.

Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della Legge n. 89 del 2001 articolo 2 articolo 6 CEDU, articoli 2043, 2697 e 2727 c.c., Regio Decreto n. 267 del 1942, articoli 6, 43 e 51, Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986 articolo 101 (gia' articolo 66) e articolo 300 c.p.c., nonche' vizi motivazionali, per non avere i giudici riconosciuto alla societa' il diritto al risarcimento del danno patrimoniale subito a cagione dell'eccessiva lunghezza del processo e consistito nella possibilita' di recuperare il credito di euro 34.923,31 vantato nei confronti della Ed. s.p.a., dichiarata fallita tra il passaggio in decisione della causa e la pubblicazione della sentenza. Assume essere notorio che, salvo particolari eccezioni, in caso di fallimento del debitore, i creditori chirografari perdono la possibilita' di soddisfare i loro crediti e che i tempi della liquidazione concorsuale a volte sono tali da vanificare qualsivoglia pretesa. Richiama giurisprudenza in materia di tributi, che riconosce la deducibilita' delle perdite su crediti se il debitore e' assoggettato a procedura concorsuale. Deduce che se il processo si fosse concluso in tempi ragionevoli, avrebbe potuto eseguire coattivamente la sentenza e recuperare il proprio credito, trovandosi la societa' debitrice ancora in bonis. Contrariamente a quanto opinato dalla corte d'appello, essa creditrice non avrebbe la possibilita' di insinuarsi nel passivo fallimentare, essendo la sentenza inopponibile alla massa.

La Corte d'appello non ha condiviso tale conclusione sul duplice rilievo che la ricorrente puo' insinuarsi al passivo e che non e' stata fornita prova alcuna del fatto che, se quel credito fosse risultato azionabile in epoca anteriore, la societa' debitrice sarebbe stata in grado di soddisfarlo, notorio essendo che la situazione di decozione principia ben prima della formale apertura del fallimento.

La ricorrente sottopone a critica entrambe le riferite argomentazioni, ma, per economia di discorso, conviene qui soffermarsi in particolare sulla prima, che appare da sola fornita di valenza decisiva e che - come ci si accinge a spiegare - non e' adeguatamente scalfita dalla censura mossale nel motivo in esame, cui pertanto non puo' darsi ingresso. La La. St. s.r.l. oppone che e' assolutamente notorio come i crediti chirografari non trovino soddisfazione alcuna nelle procedure concorsuali, stante la presenza di numerosi crediti prededucibili e privilegiati destinati a prevalere in sede di concorso. E soggiunge che la corte d'appello ignorerebbe che la sentenza favorevole a essa ricorrente, in quanto resa pubblica in data successiva al fallimento, non sarebbe stata opponibile alla massa.

La critica e', come accennato, infondata sembrando sfuggire alla ricorrente, pur prodiga di riferimenti alla disciplina concorsuale, che l'insinuazione al passivo fallimentare non richiede necessariamente un titolo di formazione giudiziale, sicche' nella specie la societa' manteneva inalterata la possibilita' di insinuarsi allegando i titoli (fatture, note di credito, estratto notarili di libri contabili, bolle di accompagnamento) fatti valere in via monitoria.

Peraltro, non coglie nel segno neanche l'altra critica, in quanto toccava alla ricorrente provare la situazione della procedura concorsuale e la sicura incapienza del credito vantato.

Infatti, nelle cause per equa riparazione introdotte a norma della Legge n. 89 del 2001 l'onere di dimostrare il danno patrimoniale derivante dall'eccessiva durata del giudizio deve essere assolto appieno dalla ricorrente e (a differenza di quel che accade per la prova del pregiudizio di carattere morale) senza il beneficio di presunzioni di ordine generale, trattandosi di fornire la prova di uno dei fatti costitutivi della sua domanda. Quando percio', come nella specie, il pregiudizio lamentato si risolva nell'asserita impossibilita' di far valere gli effetti della condanna emessa a seguito di un processo durato troppo a lungo, per essere nel frattempo il debitore divenuto insolvente, e' onere della ricorrente dimostrare che tale circostanza ha appunto compromesso la soddisfazione del suo credito, quantunque questo sia stato ammesso a partecipare al concorso con gli altri creditori dell'insolvente. E' certamente vero che, nella piu' parte dei casi, le procedure concorsuali non consentono il soddisfacimento integrale dei crediti chirografari, ma tale rilievo non puo' risolversi in una liberazione per la ricorrente dell'anzidetto onere di prova, che investe anche i profili di concreta quantificazione della sua pretesa e che percio' impone alla ricorrente medesima di fornire al giudice dell'equa riparazione non solo la dimostrazione di circostanze da cui desumere la probabile esistenza del pregiudizio, ma anche gli elementi indispensabili per una prognosi circa l'eventuale misura percentuale (da zero a cento) del futuro soddisfacimento di detto credito in ambito concorsuale, essendo cio' indispensabile per una ragionevole quantificazione del pregiudizio che si chiede venga indennizzato. Ed e' appena il caso di aggiungere che anche l'eventuale ricorso a criteri equitativi, certamente possibile in questa materia, presuppone l'impossibilita' o l'estrema difficolta' in cui si trovi la parte nel fornire prove precise e puntuali dell'entita' del pregiudizio da essa lamentato.

A quest'ultimo riguardo, occorre poi rilevare come l'osservazione della ricorrente, secondo cui sarebbe stato agevole acquisire nel giudizio di equa riparazione gli atti della procedura concorsuale e cosi' accertare l'entita' dell'attivo e del passivo in quella sede accertati al fine di trovare conferma dell'asserita incapienza del credito da essa vantato nei confronti della societa' fallita, lungi dal rafforzare la proposta doglianza, ne mette in luce la fragilita': perche' di quella agevole acquisizione avrebbe dovuto farsi carico la ricorrente medesima, sulla quale gravava il relativo onere di prova, al cui mancato assolvimento non si puo' pretendere che il giudice sopperisca d'ufficio. E cio' anche con specifico riferimento all'attivazione dei poteri ufficiosi che l'articolo 213 c.p.c. attribuisce al giudice in ordine alla richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione, che del pari non possono essere adoperati in sostituzione dell'onere probatorio incombente sulla parte (cfr., e multis, Cass. n. 287/2005).

Non e', quindi, provato che, insinuandosi nel fallimento, il credito della societa' non potrebbe essere, neanche in parte, soddisfatto nell'ambito di tale procedura.

Con il terzo motivo, la ricorrente chiede a questa Corte di decidere nel marito. A parte che si traduce non in una censura, ma in una semplice sollecitazione alla Corte, il motivo rimane assorbito dalle precedenti statuizioni.

Il decreto impugnato va quindi cassato, in relazione alla censura accolta (primo motivo), e la causa rinviata alla Corte d'appello di Perugia, che, in diversa composizione, procedera' al riesame della stessa, attenendosi ai principi sopra enunciati, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimita'.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Perugia, in diversa composizione.

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