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fondazioni bancarie agevolazioni tributarie
Pubblicata il 26/09/2010
Sentenza del 22/01/2009 n. 1593 - Corte di Cassazione
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Sentenza del 22/01/2009 n. 1593 - Corte di Cassazione
Intitolazione:
Imposte sui redditi - Persone giuridiche - Fondazioni bancarie - Agevolazioni ex art. 6, D.P.R. n. 601/1973 - Esclusione.
Massima:
Come noto la trasformazione di srl in fondazioni e viceversa è ammessa tranne il caso di trasformazione di e in fondazioni bancarie.
Per quanto concerne le fondazioni bancarie la Suprema Corte mette in evidenza che il compito che il legislatore ha assegnato alle c.d. fondazioni bancarie non appare compatibile con quelli propri degli enti a fiscalità privilegiata.
Testo:
Fatto
1.1. La Fondazione Cassa di Risparmio di Asti ha impugnato, dinanzi al
giudice tributario competente, il silenzio rifiuto seguito alla istanza con
la quale la stessa Fondazione ha richiesto il rimborso parziale dell'IRPEG
pagata ad aliquota piena, in relazione agli esercizi 1996/97 e 1997/98. La
"fondazione" invoca l'agevolazione di carattere soggettivo prevista dal
D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, in forza del quale l'imposta sul reddito
delle persone giuridiche e' ridotta alla meta' nei confronti degli "a) enti
e istituti di assistenza sociale, societa' di mutuo soccorso, enti
ospedalieri, enti di assistenza e beneficenza; b) istituti di istruzione e
istituti di studio e sperimentazione di interesse generale che non hanno
fine di lucro, corpi scientifici, accademie, fondazioni e associazioni
storiche, letterarie, scientifiche, di esperienze e ricerche aventi scopi
esclusivamente culturali; c) enti il cui fine e' equiparato per legge ai
fini di beneficenza o di istruzione".
1.2. La commissione tributaria provinciale adita ha riunito ed accolto i
ricorsi della "fondazione" e la commissione tributaria regionale ha respinto
l'appello dell'ufficio, anche in base a quanto disposto dalla L. 23 dicembre
1998, n. 461, art. 3, comma 1, lett. d) e D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153,
art. 12, comma 1.
Avverso quest'ultima decisione ricorre l'amministrazione finanziaria,
con due articolati motivi, illustrati anche con memoria, con i quali
denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 601 del 1973, art.
6, L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12, art.
2697 c.c., artt. 87 e 88 trattato CEE, unitamente a vizi di motivazione.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Asti resiste con controricorso e con
memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
1.3. Con ordinanza n. 26505/07, la sezione tributaria di questa Corte,
alla quale il ricorso e' stato originariamente assegnato, ha rimesso il
ricorso stesso al primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle SS.UU.,
ai sensi dell'art. 374 c.p.c., comma 2, e art. 376 c.p.c., comma 3, sul
rilievo che "anche dopo l'intervento delle SS.UU. civili con sentenza n.
27619 del 29/12/2006 ancora si controverte sia in ordine alla applicabilita'
dei benefici fiscali nel sistema previgente alla emanazione del D.Lgs. n.
153 del 1999, sia in ordine ai poteri istruttori delle parti dopo
l'intervento della Corte di Giustizia".
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso a queste SS.UU. fissando per
la trattazione l'odierna udienza.
Le parti ed il P.G. hanno concluso come da verbale.
Diritto
2.1. (Questioni preliminari) Preliminarmente va dichiarata la
inammissibilita' del ricorso del Ministero che non era parte nel giudizio di
appello (Cass. SS.UU. 3116/2006, 3118/2006).
Nel merito il ricorso dell'Agenzia delle Entrate appare fondato. I
motivi, strettamente connessi, richiedono un esame congiunto.
2.2. (La giurisprudenza della sezione tributaria prima dell'intervento
delle SS.UU.) Giova ripercorrere, sinteticamente, l'evoluzione
giurisprudenziale che ha caratterizzato la vicenda in esame.
Al primo arresto, favorevole alla tesi della applicabilita'
dell'agevolazione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, con il quale
questa Corte ha "riconosciuto il beneficio della riduzione alla meta'
dell'aliquota IRPEG, giusta disposto del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6,
alla Compagnia San Paolo, attesane la natura di fondazione bancaria dotata
di personalita' giuridica con finalita' di interesse pubblico e di utilita'
sociale, che si limita ad amministrare le partecipazioni derivanti dal
conferimento della propria azienda bancaria ad una societa' per azioni ed a
destinare i relativi dividendi agli scopi statutari senza fini lucrativi"
(Cass. Sez. V, n. 6607/2002), sono seguite altre decisioni, di analogo
tenore che, a supporto della tesi favorevole alle "fondazioni", hanno anche
utilizzato in chiave interpretativa la successiva riforma di privatizzazione
delle fondazioni di origine bancaria, attuata con il D.Lgs. n. 153 del 1999.
Anche se poi la prima pronuncia in tema di ritenuta a titolo di imposta
sugli utili societari, previsto dalla L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis
(norma che la giurisprudenza successiva, Cass. Sez. 6µ, 9365/2003, riteneva
speculare rispetto a quella di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6) ha
escluso che le "fondazioni" di origine bancaria avessero diritto all'esonero
stesso, non perseguendo esclusivamente scopi di utilita' sociale (Cass. Sez.
5µ, 14574/2001).
Nel solco della sentenza 6607/2002, favorevole alle "fondazioni", si
pongono le successive pronunce, secondo le quali il beneficio della
riduzione alla meta' dell'aliquota IRPEG, riservata ai soggetti elencati nel
D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, spetta anche alle Fondazioni bancarie in
considerazione:
a) "delle finalita' di interesse pubblico e di utilita' sociale
perseguite nei settori della ricerca scientifica, dell'istruzione, dell'arte
e della sanita', e considerato che l'"amministrazione della partecipazione"
nella societa' conferitaria dell'azienda bancaria - avente carattere
transitorio, fintanto che le fondazioni ne saranno titolari - non
costituisce attivita' commerciale e che il D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12,
preclude alle Fondazioni qualsiasi ingerenza nell'esercizio dell'attivita'
bancaria e quindi anche la possibilita' di operare come "holding",
esercitando in modo indiretto tale attivita'. Sulla base del D.Lgs n. 153
del 1999, art. 12, comma 2, costituente disposizione di natura
interpretativa, tale regime agevolativo e' applicabile anche alle fondazioni
gia' esistenti al momento dell'entrata in vigore della disposizione e con
riferimento ai pregressi anni d'imposta, purche' tali soggetti, anche in
conformita' della Decisione della Commissione CE (del 22 agosto 2002,
C-2002-3118), abbiano svolto la loro attivita' senza scopo di lucro, secondo
un giudizio di meritevolezza oggetto di accertamento in fatto" (cosi' Cass.
19365/2003, secondo la quale, come gia' accennato, l'ambito applicativo
dell'agevolazione in esame coincide con quello di cui alla L. n. 1745 del
1962, art. 10 bis,, in quanto la ratio di entrambe risiede in un "giudizio
di meritevolezza dell'attivita' svolta dal contribuente");
b) "delle finalita' di interesse pubblico e di utilita' sociale
perseguite e considerato che l'"amministrazione della partecipazione" nella
societa' conferitaria dell'azienda bancaria costituisce attivita'
strumentale, che fornisce le rendite necessarie per il perseguimento degli
scopi statutari e non ne forma l'oggetto principale. Sulla base del D.Lgs.
n. 153 del 1999, art. 12, comma 2, costituente disposizione di natura
interpretativa, tale regime agevolativo e' applicabile anche alle fondazioni
gia' esistenti al momento dell'entrata in vigore della disposizione e con
riferimento ai pregressi anni d'imposta, purche' tali soggetti abbiano
perseguito "prevalentemente" fini di interesse pubblico e di utilita'
sociale ed abbiano di fatto presentato le condizioni per beneficiare
dell'agevolazione" (Cass. Sez. 5 19445/2003).
Gli argomenti sui quali si fonda il riconoscimento del diritto alla
agevolazione attengono sia alla interpretazione delle leggi che hanno
disciplinato la riforma, sia al riscontro in punto di fatto che la gestione
della partecipazione non perseguisse fini di lucro. Posti nel loro ordine
logico, gli argomenti sui quali si fonda la prima giurisprudenza possono
essere cosi' sintetizzati:
a) il D.Lgs. 20 dicembre 1990, n. 356, art. 12 (recante le Disposizioni
per la ristrutturazione e per la disciplina del gruppo creditizio, emanata
in attuazione della delega di cui alla legge 218/1990, c.d. riforma Amato),
abrogato dal D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 30, precludeva qualsiasi ingerenza
nell'esercizio dell'attivita' bancaria e quindi anche la possibilita' di
operare come holding e di esercitare in modo indiretto tale attivita'; tanto
e' vero che, successivamente, il D.Lgs. 15 maggio 1999, n. 153, art. 12,
comma 2, prima alinea (recante la Disciplina civilistica e fiscale degli
enti conferenti di cui al D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 11, comma 1,
e disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione bancaria, a norma
della L. 23 dicembre 1998, n. 461, art. 1) ha stabilito che alle fondazioni
in questione "si applica il regime previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n.
601, art. 6";
b) l'"amministrazione della partecipazione" nella societa' conferitaria
e' connotata dal perseguimento di finalita' di interesse pubblico e di
utilita' sociale e dal carattere transitorio, per cui tale attivita' di
gestione, in linea di principio, non e' l'oggetto principale dell'attivita'
e non costituisce attivita' commerciale; tanto e' vero che il D.Lgs. n. 153
del 1999, art. 12, comma 2, seconda alinea, estende retroattivamente il
regime agevolativo di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, "alle
fondazioni non aventi natura di enti commerciali che abbiano perseguito
prevalentemente fini di interesse pubblico e di utilita' sociale nei settori
indicati nel D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 12, e successive
modificazioni"; ne deriva che occorre accertare in punto di fatto quale sia
stata in realta' l'attivita' svolta e con quali finalita';
c) in definitiva, gli enti di gestione delle partecipazioni delle
conferitarie hanno natura di fondazioni, sono dotate di personalita'
giuridica, perseguono finalita' di interesse pubblico e di utilita' sociale,
e si limitano ad amministrare le partecipazioni derivanti dal conferimento
della azienda bancaria.
Gia' da questa prima rassegna risulta evidente che la tesi della
spettanza dell'agevolazione oscilla tra mere ricostruzioni in diritto (le
cc.dd. fondazioni bancarie sarebbero enti che, nel disegno legislativo,
sarebbero nati per svolgere, esclusivamente o prevalentemente, attivita'
sociale meritoria) e necessita' della prova che le attivita' svolte in
concreto dagli enti conferenti siano sussumibili ai modelli che il
legislatore ha individuato come meritevoli di "sconto" fiscale. E' evidente
che questa seconda opzione annulla la prima, nel senso che se gli enti
conferenti avessero avuto nel loro DNA la mission del non profit, ogni
indagine in fatto sarebbe superflua, salvo il caso in cui l'amministrazione
finanziaria avesse accertato che l'ente, tradendo il dettato legislativo
avesse svolto attivita' di impresa. Ritiene invece il Collegio che
l'originario modello legislativo degli enti conferenti era orientato verso
una missione che aveva ad oggetto essenzialmente e prevalentemente lo
sviluppo dell'attivita' dell'impresa bancaria e che le attivita' sociali, in
ipotesi fiscalmente meritevoli, avevano rilevanza marginale, non
inquadratali nei paradigmi delle norme eccezionali agevolative. A parte la
considerazione che, in concreto, non e' stata fornita la prova della
"qualita'" e "quantita'" delle attivita' che avrebbero dovuto fare da traino
agli sconti fiscali. Ne' possono essere invocati i poteri istruttori ex
officio, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, che e' norma di utilizzo
eccezionale, la quale non consente al giudice "di sopperire alle carenze
istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un
processo a connotato tendenzialmente dispositivo" (Cass. 18976/2007).
2.3. (La pronuncia della Corte di giustizia) Con ordinanza n. 8319 del
30 aprile 2004, pronunciata nel giudizio di legittimita' promosso dal
Ministero dell'Economia e delle Finanze contro la Cassa di Risparmio di
Firenze SpA, avente ad oggetto l'applicabilita' alle fondazioni di origine
bancaria delle agevolazioni di cui alla L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis,
correlata con quella di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, questa Corte:
- premesso che "ove in via interpretativa si affermi l'applicazione dei
benefici fiscali menzionati anche alle Fondazioni Bancarie, sulla base
dell'affermata natura non commerciale di tali enti e del carattere
d'interpretazione della L. n. 153 cit., si puo' ipotizzare un contrasto di
tale sistema normativo sia con le norme e i principi del Trattato CE, in
materia di concorrenza, e della disciplina degli aiuti di Stato (artt. 87 e
88), sia in relazione al principio di non discriminazione, e con riguardo
alla liberta' di stabilimento e circolazione dei capitali (artt. 12, 43 e
segg., art. 56 e segg.)";
- ha effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'UE,
ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, ponendo le seguenti questioni; "se
le Fondazioni bancarie italiane, per essere titolari di partecipazioni di
controllo di societa' bancarie, in relazione ad una quota assai rilevante
che tali soggetti hanno sul mercato, e potendo destinare il ricavato della
dismissione di tali partecipazioni all'acquisto in imprese non bancarie,
anche per perseguire la finalita' dello sviluppo economico, siano sottoposte
alla disciplina comunitaria della concorrenza, da un lato, e a quella
stabilita in materia di aiuti di Stato, da un altro; e, nel caso di risposta
affermativa a tale quesito, se sia valida, sotto il profilo della
legittimita' e della sufficienza della motivazione, la decisione della
Commissione CE del 22 agosto, con la quale e' stata ritenuta inapplicabile
alle Fondazioni, per il sistema agevolativo menzionato, la disciplina
comunitaria sugli aiuti di Stato".
Con sentenza 10 gennaio 2006 nel procedimento C-222/04, instaurato sulla
base del citato rinvio pregiudiziale, la Corte di giustizia ha considerato:
- che "nell'ambito del diritto della concorrenza il concetto di impresa
comprende qualsiasi ente che eserciti un'attivita' economica, a prescindere
dal suo status giuridico e dalle sue modalita' di finanziamento (v., in
particolare, sentenze 23 aprile 1991, causa C-41/90, Hofner e Elser, Racc.
pag. 1-1979, punto 21, e 16 marzo 2004, cause riunite C-264/01, C-306/01,
C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband e a, Racc. pag. 1-2493, punto 46)" e
che "Costituisce attivita' economica qualsiasi attivita' che consista
nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato (v., in particolare,
sentenze 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione/Italia, Racc. pag.
1-3851, punto 36, e 12 settembre 2000, cause riunite da C-180/98 a C-184/98,
Pavlov e a., Racc. pag. 1-6451, punto 75)" (punti 107-108).
- che "nella maggior parte dei casi, l'attivita' economica e' svolta
direttamente sul mercato", ma "non e' tuttavia escluso che essa sia il
prodotto di un operatore in contatto diretto con il mercato e,
indirettamente, di un altro soggetto controllante tale operatore nell'ambito
di un'unita' economica che essi formano insieme" (punti 109-110);
- che, in linea di principio, "il semplice possesso di partecipazioni,
anche di controllo, non e' sufficiente a configurare un'attivita' economica
del soggetto che detiene tali partecipazioni, quando tale possesso da' luogo
soltanto all'esercizio dei diritti connessi alla qualita' di azionista o
socio nonche', eventualmente, alla percezione dei dividendi, semplici frutti
della proprieta' di un bene"; ma che invece "un soggetto che, titolare di
partecipazioni di controllo in una societa', eserciti effettivamente tale
controllo partecipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa,
deve essere considerato partecipe dell'attivita' economica svolta
dall'impresa controllata", e, quindi dev'essere considerato, a tale titolo,
un'impresa ai sensi dell'art. 87, n. 1, CE (punti 111-113);
- che, se cosi' non fosse, "la semplice suddivisione di un'impresa in
due enti distinti, uno con il compito di svolgere direttamente l'attivita'
economica precedente e il secondo con quello di controllare il primo,
intervenendo nella sua gestione", consentirebbe di eludere le norme
comunitarie sugli aiuti di Stato (un tale sistema consentirebbe all'ente
controllante di beneficiare di sovvenzioni o di altri vantaggi concessi
dallo Stato e di utilizzarli in tutto o in parte a beneficio dell'impresa
controllata, sempre nell'interesse dell'unita' economica costituita dai due
enti) (punto 114).
- che l'ingerenza, nella gestione di una societa' bancaria, di un
soggetto come la fondazione bancaria, parte nella causa principale, ben puo'
realizzarsi nell'ambito di una disciplina come quella prevista, per il
periodo che qui interessa, dalla L. n. 218 del 1990 e dal D.Lgs. n. 356 del
1990, atteso che "nell'ambito di tale disciplina, una fondazione bancaria
che controlla il capitale di un'impresa bancaria, benche' non possa svolgere
direttamente l'attivita' bancaria, deve assicurare la "continuita'
operativa" tra se stessa e la banca controllata, per cui "vi devono essere
disposizioni che prevedano che alcuni membri del comitato di gestione od
organo equivalente della fondazione bancaria siano nominati nel consiglio di
amministrazione, e alcuni membri dell'organo di controllo nel collegio
sindacale della societa' bancaria" e "la fondazione bancaria deve destinare
una determinata quota dei proventi derivanti dalle partecipazioni nella
societa' bancaria ad una riserva finalizzata alla sottoscrizione degli
aumenti di capitale di tale societa'", oltre a potere investire la riserva,
in particolare, in titoli della societa' bancaria controllata (punti
115-116);
- che le norme in esame "configurano un ruolo delle fondazioni bancarie
che va al di la' della semplice collocazione di capitali da parte di un
investitore"; in particolare rendono "possibile lo svolgimento di funzioni
di controllo, ma anche di impulso e di sostegno finanziario", "dimostrano
l'esistenza di legami organici e funzionali tra le fondazioni bancarie e le
societa' bancarie" (come e' confermato anche dal mantenimento, in
particolare, della sorveglianza sugli enti conferenti, da parte del Ministro
del Tesoro, ai sensi del D.Lgs. n. 356 del 1990 art. 14) (punto 117);
- che ai fini della eventuale qualificazione come "impresa" della
fondazione bancaria spetta al giudice nazionale valutare se quest'ultima
detenga soltanto partecipazioni di controllo in una societa' bancaria, senza
poi esercitare tale controllo, con interventi diretti o indiretti nella
gestione della stessa, tenendo presente che "quando una fondazione bancaria,
agendo direttamente negli ambiti di interesse pubblico e utilita' sociale,
fa uso dell'autorizzazione conferitale dal legislatore nazionale ad
effettuare operazioni finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari
necessarie o opportune per realizzare gli scopi che le sono prefissi, essa
puo' offrire beni o servizi sul mercato in concorrenza con altri operatori,
ad esempio in settori come la ricerca scientifica, l'educazione, l'arte o la
sanita'". In tal caso, che deve essere valutato dal giudice nazionale, "la
fondazione bancaria deve essere considerata come un'impresa, in quanto
svolge un'attivita' economica, nonostante il fatto che l'offerta di beni o
servizi sia fatta senza scopo di lucro, poiche' tale offerta si pone in
concorrenza con quella di operatori che invece tale scopo perseguono" e
devono applicarsi, di conseguenza, le norme comunitarie sugli aiuti di
Stato" (punti 118-122).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte di giustizia ha concluso nel
senso che:
a) "In esito ad una valutazione che spetta al giudice nazionale compiere
sulla base della disciplina applicabile nel periodo rilevante, una persona
giuridica come quella oggetto della causa principale puo' essere qualificata
come impresa ai sensi dell'art. 87, n. 1, CE e in quanto tale essere
sottoposta, per tale periodo, alle norme comunitarie in materia di aiuti di
Stato";
b) "In esito ad una valutazione che spetta al giudice nazionale
compiere, un'esenzione dalla ritenuta sui dividendi come quella oggetto
della causa principale puo' essere qualificata come aiuto di Stato ai sensi
dell'art. 87, n. 1, CE".
2.4. (La sentenza 27619/2006 delle SS.UU.) Intanto, la trattazione del
ricorso che ha determinato il rinvio pregiudiziale alla CGE e' stata rimessa
alle SS.UU. di questa Corte, essendosi verificato un contrasto nella
giurisprudenza della Sezione tributaria circa l'applicabilita' delle norme
agevolative alle fondazioni bancarie. Il contrasto e' stato risolto con la
sentenza n. 27619/2006, secondo la quale "il riconoscimento in favore delle
fondazioni bancarie dell'esenzione dalla ritenuta d'acconto sui dividendi da
partecipazioni azionarie, prevista dalla L. 29 dicembre 1962, n. 1745, art.
10 bis (introdotto dal D.L. 21 febbraio 1967, n. 22, art. 6, convertito in
L. 21 aprile 1967, n. 209), e' subordinato alla prova, posta a carico del
soggetto che invoca l'agevolazione, dell'effettivo perseguimento in via
esclusiva di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica,
rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie
assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle
necessarie risorse economiche. In tale prospettiva, non puo' attribuirsi
portata determinante alle trasformazioni disposte dalla L. 30 luglio 1990,
n. 218 e dal D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, tenuto conto del perdurare nel
nuovo regime di un collegamento genetico e funzionale tra fondazioni ed
imprese bancarie, dovendosi invece conferire rilievo, indipendentemente dal
possesso di partecipazioni azionarie di controllo (anche per il tramite di
societa' finanziarie), all'eventuale stipulazione di patti parasociali
idonei a consentire, anche congiuntamente ad altri soggetti, l'esercizio di
un'influenza sulla gestione dell'impresa bancaria, nonche' allo svolgimento
di attivita' economica, anche non caratterizzata da scopo di lucro.
L'accertamento di tali elementi, che consentono di qualificare l'attivita'
della fondazione come esercizio d'impresa, conformemente alla nozione
elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, impone al giudice di
disapplicare l'art. 10 bis cit., ponendosi l'agevolazione da esso prevista
come misura fiscale selettiva che, in quanto potenzialmente idonea ad
influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza, viene a configurarsi
come aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune". Quindi, questa
Corte non ha escluso in linea di principio che gli enti conferenti possano
beneficiare delle agevolazioni fiscali in questione, sempre che offrano la
prova che in concreto abbiano svolto attivita' che possano essere riportate
ai modelli legislativi previsti dalla L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, e
D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6.
Pertanto, la causa e' stata poi rinviata ai giudici di merito per
accertare l'eventuale sussistenza dei presupposti per godere delle ripetute
agevolazioni, sulla base delle regole e dei parametri fissati dalla stessa
sentenza di rinvio, riassumibili nel principio che la gestione di
partecipazioni di controllo sull'impresa bancaria costituisce attivita' di
impresa e che la prova della sussistenza di circostanze di fatto che, in
deroga a tale principio, dimostrino che in realta' l'ente di gestione ha
perseguito prevalentemente finalita' diverse da quelle proprie dell'impresa
bancaria, rendendosi meritevole di un trattamento fiscale agevolato, e' a
carico dell'ente che invoca il beneficio (secondo la regola generale di
distribuzione dell'onere della prova).
2.5. (La giurisprudenza della sezione tributaria successiva all'arresto
delle SS.UU.), Dopo l'intervento di queste SS.UU. la giurisprudenza della
sezione tributaria ha affermato, in linea di principio, che ai fini del
riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie del beneficio della
riduzione a meta' dell'aliquota, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n.
601, art. 6, "occorre accertare che l'attivita' della fondazione non
presenti i connotati dell'azione imprenditoriale, i quali possono sussistere
anche in mancanza del fine di lucro e pur nella dimostrata destinazione dei
profitti, in parte o nel loro intero ammontare, al raggiungimento di scopi
di utilita' sociale, restando escluso il carattere d'impresa commerciale
solo dalla previsione, statutaria o legale, dell'esclusivita' dei predetti
scopi, e dalla dimostrazione che tali attivita' siano state effettivamente
svolte e che la fondazione non abbia alcuna possibilita' d'influire, quale
azionista maggioritario o non maggioritario o in virtu' di accordi
parasociali o di patti di sindacato, sulla gestione della banca conferitaria
o di altre imprese da essa partecipate. In applicazione di tale principio,
e' stata confermata la sentenza del giudice di appello, il quale aveva
rigettato il ricorso del contribuente, sul rilievo che lo stesso
contribuente non aveva dedotto di possedere quei requisiti che, escludendo
in radice la natura commerciale dell'iniziativa, consentivano di fruire
dell'agevolazione in esame senza incorrere nel divieto degli aiuti di Stato
(Cass. Sez. 5µ, 5740/2007).
Secondo quest'ultima pronuncia, per beneficiare dell'applicazione delle
norme agevolative, occorre una previsione legale o statutaria della
esclusivita' degli scopi di utilita' sociale dell'ente, accompagnata dalla
accertata impossibilita' dell'ente stesso di influire sulla gestione della
banca conferitaria. A nulla rileva che l'attivita' non sia stata svolta per
fini di lucro e/o che i profitti siano stati destinati al raggiungimento di
scopi di utilita' sociale, se comunque la fondazione ha svolto funzioni di
governo della banca.
Con la sentenza n. 7883/2007 e' stato confermato che il beneficio
fiscale di cui alla L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, e' "subordinato
all'effettivo perseguimento in via esclusiva da parte dell'ente di scopi di
beneficenza, educazione, studio e ricerca, rispetto ai quali la gestione di
partecipazioni in imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque
strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche. La prova di
tale requisito e' posta a carico del soggetto che invoca l'agevolazione, e
puo' essere fornita mediante la produzione di estratti dei libri contabili o
idonee certificazioni del collegio dei revisori o del collegio sindacale
delle societa' partecipate; la relativa verifica postula un'indagine
sull'esercizio in concreto dell'attivita' d'impresa, non limitata ai modi di
gestione della partecipazione di origine, ma estesa all'attivita'
complessivamente esercitata dalla fondazione nell'anno d'imposta, e
presuppone innanzitutto che il relativo tema sia stato introdotto nel
giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia
mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo,
non incombendo all'Amministrazione finanziaria l'onere di sollevare in
proposito precise contestazioni" (conf. 10259/2007). In applicazione di tale
principio, la Corte ha cassato senza rinvio la decisione impugnata
dall'Agenzia delle Entrate e, decidendo nel merito, ha rigettato il ricorso
introduttivo dell'ente conferente, che non aveva soddisfatto l'onere di
allegazione.
Cosi' pure, con sentenza 10258/2007, la sezione tributaria ha confermato
che occorre sempre "accertare che l'attivita' della fondazione non presenti
i connotati propri dell'esercizio di un'impresa, tenendo conto che e'
qualificabile come tale, indipendentemente dal carattere non lucrativo dei
compiti istituzionalmente assegnati all'ente, anche l'esclusiva gestione
dell'originaria partecipazione nella banca conferitaria, e che la completa
dismissione di tale partecipazione non comporta automaticamente il venir
meno dei predetti connotati, quando le risorse da essa ricavate siano state
utilizzate per acquisire partecipazioni in altre imprese, anche non
bancarie". Sostanzialmente la sentenza pone l'accento sul fatto che la
dismissione delle partecipazioni non equivale alla cessazione della
attivita' dell'impresa bancaria, dal momento che non si tratta di una
dismissione con perdita della proprieta', ma di dismissione/conferimento,
con l'effetto che la proprieta' e la gestione dell'azienda non sono passate
di mano, sono state soltanto cartolarizzate in titoli azionari, rimasti
quasi completamente nelle mani degli stessi enti conferenti. Ne deriva che
la prova della sussistenza dei requisiti per beneficiare delle agevolazioni
fiscali deve essere fornita dal soggetto che invoca l'agevolazione, il quale
deve dimostrare che l'ente pubblico economico originario si e' totalmente
svuotato delle proprie connotazioni imprenditoriali, acquisendo la veste
esclusiva o prevalente dell'ente di beneficenza, assistenza, istruzione,
ecc.. Anche in questo caso i giudici di legittimita' hanno deciso nel merito
il ricorso a favore dell'Agenzia delle Entrate, sul rilievo che il tema
della realizzazione in concreto delle attivita' meritevoli delle
agevolazioni, non risultava nemmeno introdotto nel giudizio.
Su tale scia si pongono le successive pronunce sezionali nn. 10253/2007,
13559/2007, 16818/2007, 18980/2007, 18981/2007, 5963/2008, 14485/2008.
La giurisprudenza appena esaminata, superando la precedente statuizione
di queste SS.UU., ha sostanzialmente escluso la necessita' del rinvio al
giudice del merito per l'esame della sussistenza dei presupposti di fatto
richiesti dalle norme agevolative, sul rilievo che se il tema specifico
della prova del perseguimento in concreto delle finalita' sociali non
risulta prospettato con il ricorso introduttivo, lo stesso non puo' piu'
essere introdotto come tema di indagine, nemmeno invocando il D.Lgs. n. 546
del 1992, art. 7, e quindi il rinvio comporta soltanto un inutile
prolungamento dell'iter processuale. Di qui la necessita' di una nuova
verifica da parte di queste SS.UU.
2.6. (L'analisi delle norme di riforma). Ritiene il Collegio che debba
essere confermato l'ultimo indirizzo giurisprudenziale, sia perche' deriva
direttamente dai principi affermati in precedenza da queste SS.UU., sia
perche' la rilettura delle norme di riforma, calate nel loro contesto
storico-legislativo, confortano la tesi che il legislatore della prima
riforma (c.d. riforma Amato) ha inventato un tipo di ente assolutamente
nuovo nel nostro panorama legislativo, difficile da classificare, ma
comunque con caratteristiche che non si conciliano con quelle degli enti
elencati nel D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 o indicati nella L. n. 1745 del
1962, art. 10 bis. Sulla base delle norme positive si riscontra una chiara
inconciliabilita' tra gli enti conferenti (incaricati della gestione del
pacchetto di maggioranza delle banche privatizzate) e gli enti (di
assistenza, beneficenza, istruzione, ecc.) cui competono le agevolazioni.
Sul piano processuale questa inconciliabilita' si risolve in una presunzione
legale di svolgimento di attivita' bancaria, superabile soltanto se si
dimostrasse che gli enti conferenti abbiano privilegiato, rispetto al
governo delle aziende bancarie (scopo per il quale sono nate), la
realizzazione di scopi sociali considerati preminenti (se non esclusivi)
rispetto agli interessi della banca. In altri termini, per accedere alla
tesi prospettata dagli enti conferenti, bisognerebbe dimostrare che il
legislatore del 1990 abbia inteso costituire innanzitutto enti di
beneficenza in senso lato, limitandosi a disciplinare in via residuale la
riforma del sistema creditizio. Il che evidentemente non e'. La riforma non
nasce per revisionare o disciplinare sistematicamente il settore del non
profit (come e' avvenuto poi, successivamente, con la L. n. 490 del 1997),
ma per dettare Disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione
patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico (questo il titolo
della legge di delega per la riforma n. 218/1990).
Secondo quanto dispone l'art. 12 preleggi, l'interpretazione delle norme
deve prendere le mosse dall'elemento letterale, dal significato delle parole
e dalla intenzione del legislatore. Il ricorso a strumenti di consentono di
superare (ampliando o limitando) l'interpretazione letterale, come
l'inquadramento sistematico o la incompatibilita' con precetti di rango
superiore, appartiene ad un momento successivo. Pertanto, mettendo
momentaneamente da parte il contesto della normativa comunitaria
(considerato anche che la Corte di giustizia ha ribadito che deve essere il
giudice nazionale a ricostruire sistema e significato delle norme interne),
ritiene il Collegio che gia' il testo delle norme che hanno attuato la
riforma evidenziano, come accennato, una chiara incompatibilita' con le
previsioni di cui alle norme agevolative.
E' noto che la riforma del sistema bancario e' stata attuata in due
momenti:
a) il primo realizzato con la gia' menzionata L. 30 luglio 1990, n. 218,
recante Disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione
patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico e con il D.Lgs.
20 novembre 1990, n. 356, recante Disposizioni per la ristrutturazione e per
la disciplina del gruppo creditizio (c.d. riforma Amato);
b) il secondo realizzato in base alla L. 23 dicembre 1998, n. 461,
recante Delega al Governo per il riordino della disciplina civilistica e
fiscale degli enti conferenti, di cui al D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356,
art. 11, comma 1, e della disciplina fiscale delle operazioni di
ristrutturazione bancaria, e al D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153, recante la
Disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti di cui al D.Lgs. 20
novembre 1990, n. 356, art. 11, comma 1, e disciplina fiscale delle
operazioni di ristrutturazione bancaria, a norma della L. 23 dicembre 1998,
n. 461, art. 1 (c.d. riforma Ciampi).
2.6.1. (La riforma Amato). Le cc.dd. fondazioni bancarie (nome
attribuito agli enti conferenti soltanto con la successiva riforma del 1999)
nascono dallo sdoppiamento degli originari enti pubblici economici-Casse di
Risparmio in:
a) societa' per azioni, alle quali sono state conferite le aziende di
credito, ed;
b) enti conferenti, gravati dall'obbligo di detenere e conservare la
titolarita' della maggioranza delle azioni con diritto di voto, ottenute a
fronte dei conferimenti.
La riforma era intesa a rafforzare il sistema creditizio italiano, ad
incrementarne la dimensione patrimoniale e ad accrescerne la capacita'
competitiva. Il fine principale della riforma era, dunque, quello di
razionalizzare il sistema creditizio per adeguarlo alla realta' del mercato
unico europeo e renderlo competitivo nel nuovo scenario della
liberalizzazione valutaria e dei servizi. In questa ottica, la missione che
il legislatore ha assegnato agli enti conferenti e' essenzialmente quella di
garantire, nel periodo di transizione, gli equilibri tra controllo pubblico
e gestione privata delle societa' conferitarie. Le finalita' sociali cui
dovra' poi ispirarsi l'azione degli enti (pubblici) conferenti sono
destinate, in questa prima fase, a restare compresse dal peso della
continuazione della gestione bancaria, attraverso la titolarita' del
pacchetto di controllo, fino al momento in cui le societa' bancarie non
saranno affrancate dalla tutela degli enti pubblici, oramai privatizzati, in
forza della riforma Ciampi.
Infatti, per espresso disposto della L. n. 218 del 1990, art. 1, comma 3, le
operazioni di trasformazioni, proprio perche' finalizzate alla esigenza di
razionalizzazione del sistema creditizio dovevano essere "approvate con
decreto del Ministero del tesoro, sentito il Comitato interministeriale per
il credito ed il risparmio (CICR)".
La L. n. 218 del 1990, art. 2, nel dettare le norme alle quali doveva
ispirarsi la normativa delegata, ha stabilito, tra l'altro che lo statuto
dell'ente conferente "dovra' prevedere che oggetto dell'ente sia la gestione
di partecipazioni bancarie e finanziarie, dirette e indirette, e che lo
scopo si ispiri alle finalita' originarie dell'ente". Dovra' inoltre
"fissare i limiti per l'acquisto e la cessione di partecipazioni,
prevedendo, in particolare, che la cessione di azioni delle societa' per
azioni risultanti dai conferimenti dovra' essere approvata dal Comitato
interministeriale per il credito ed il risparmio, qualora l'ente conferente
perda il controllo della maggioranza delle azioni con diritto di voto
nell'assemblea ordinaria della societa' conferitaria. Lo statuto potra',
infine, prevedere limitazioni all'erogazione degli utili, finalizzate alla
costituzione di riserve utilizzabili anche per la sottoscrizione di aumenti
di capitale". Dal tenore complessivo della norma si evince chiaramente che
la principale preoccupazione del legislatore era quella di assicurare agli
enti conferenti il controllo della gestione societaria, sotto la vigilanza
del CICR (art. 2, comma 1, lett. c). Infatti la successiva lett. d)
dell'art. 2, comma 1, prevedeva la introduzione di "una disciplina volta a
garantire la permanenza del controllo diretto o indiretto di enti pubblici
sulla maggioranza delle azioni con diritto di voto nell'assemblea ordinaria
delle societa' per azioni di cui all'art. 1." Soltanto in casi eccezionali,
ma al solo fine di rafforzare il sistema creditizio italiano, la sua
presenza internazionale, la sua dimensione patrimoniale, e di permettere
allo stesso di raggiungere dimensioni che ne accrescessero la capacita'
competitiva, per finalita' di pubblico interesse, uno speciale regime
autorizzatorio poteva consentire deroghe al principio del controllo
pubblico, subordinando le relative operazioni:
1) alla presenza, negli statuti degli enti creditizi interessati, di
disposizioni volte a impedire che soggetti individuali o gruppi non bancari
acquisiscano posizioni dominanti e comunque pregiudizievoli per
l'indipendenza dell'ente creditizio;
2) al parere della Banca d'Italia, che provvede all'istruttoria;
3) all'approvazione del Consiglio dei Ministri, con comunicazione alle
competenti commissioni parlamentari".
Tutte disposizioni che si preoccupavano esclusivamente, o comunque in
maniera assorbente, della "gestione" bancaria e non dei fini di beneficenza,
assistenza, istruzione, e cosi' via.
In attuazione di tali disposizioni, il D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12
(abrogato poi dal D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 30), stabiliva i principi ai
quali dovevano conformarsi gli statuti degli enti conferenti. Dopo una
disposizione di carattere programmatico, che stabiliva quali fossero i fini
e cosa potessero fare tali enti (comma 1, lett. a), l'art. 12 citato,
stabiliva, invece, cosa dovessero fare e cosa non dovessero fare gli enti
stessi. In base a tale disposizione (D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12, comma
1, lett. a, gli enti erano obbligati ad enunciare nello statuto l'intento di
perseguire "fini di interesse pubblico e di utilita' sociale preminentemente
nei settori della ricerca scientifica, della istruzione, dell'arte e della
sanita'". Inoltre, "potevano" mantenere "le originarie finalita' di
assistenza e di tutela delle categorie sociali piu' deboli". In questa prima
parte, il precetto indicava gli obbiettivi programmatici, la cui eventuale
realizzazione non era assolutamente garantita. A fronte di una siffatta
norma programmatica "in bianco", il legislatore ha attribuito agli enti
conferenti il potere di compiere tutte "le operazioni finanziarie,
commerciali, immobiliari e mobiliari", ritenute necessarie, o anche soltanto
opportune, per il conseguimento dei propri scopi. In altri termini, non
essendovi l'obbligo di effettuare le operazioni commerciali o finanziarie,
imputandole direttamente ad una specifica finalita' privilegiata,
l'eventuale riconoscimento di benefici fiscali "sulla parola" (ritenendo
cioe' che siano sempre connesse a scopi meritevoli di agevolazione fiscale)
sarebbe priva di copertura costituzionale, prima ancora che in contrasto con
la normativa comunitaria sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato.
L'unica attivita' preclusa in assoluto era quella dell' "esercizio
diretto" dell'impresa bancaria. Ma si tratta di un limite strutturale ed
ovvio che, per un verso non esclude l'esercizio indiretto dell'attivita'
bancaria e, per altro verso, e' diretta conseguenza della riforma, in forza
della quale gli enti originari hanno conferito l'azienda bancaria alle nuove
societa', conservando pero' il compito della gestione delle partecipazioni
di controllo (art. 12, comma 1, lett. b). Vale a dire, se con la riforma gli
enti pubblici gestori diretti dell'attivita' bancaria sono scomparsi per
lasciare posto alla gestione attraverso le spa appositamente costituite, e'
evidente che tali enti non potessero poi svolgere direttamente (come era
avvenuto per il passato) l'impresa bancaria, se non vanificando la riforma
stessa. Ma cio' non significa che l'attivita' bancaria delle spa sia stata
lasciata priva di governarne (proprio nel momento in cui tale attivita' si
apriva al mercato e doveva affrontarne le incognite). Questa e' rimasta
saldamente nelle mani degli enti conferenti attraverso le partecipazioni.
Come ha rilevato la Corte di Giustizia nella gia' citata sentenza
pronunciata nel procedimento C-222/04, "una fondazione bancaria che
controlla il capitale di un'impresa bancaria, anche se non puo' svolgere
direttamente l'attivita' bancaria, deve assicurare la continuita' operativa
tra se stessa e la banca controllata" (punto 116). Quindi, le norme della
riforma hanno attribuito alle fondazioni bancarie un "ruolo che va al di la'
della semplice collocazione di capitali da parte di un investitore. Esse
rendono possibile lo svolgimento di funzioni di controllo, ma anche di
impulso e di sostegno finanziario. Dimostrano l'esistenza di legami organici
e funzionali tra le fondazioni bancarie e le societa' bancarie, il che e'
confermato dal mantenimento, in particolare ai sensi del D.Lgs. n. 356 del
1990, art. 14, di una sorveglianza da parte del Ministero del Tesoro" (CGE,
sentenza citata, punto 117).
La legge di riforma non ha precluso, invece, l'esercizio indiretto
dell'impresa bancaria, assicurato appunto dall'"obbligo", a carico dell'ente
pubblico, di amministrare la partecipazione di controllo e "da disposizioni
che prevedono la nomina di membri del comitato di gestione o di organo
equivalente dell'ente nel consiglio di amministrazione e di componenti
l'organo di controllo nel collegio sindacale della suddetta societa'" (art.
12, comma 1, lett. c).
Gli enti conferenti, inoltre, non potevano possedere partecipazioni di
controllo nel capitale di imprese bancarie o finanziarie diverse dalla
societa' per azioni conferitaria, ma potevano acquisire e cedere
partecipazioni di minoranza al capitale di altre imprese bancarie e
finanziarie (art. 12, comma 1, lettera b), cpv.). Il divieto di acquisire
partecipazioni di controllo e' espressione del divieto di concorrenza
sancito in via di principio dall'art. 2390 c.c., e costituisce una conferma
al fatto che il fine principale degli enti conferenti era quello della
gestione attiva della impresa bancaria: per questa ragione era loro preclusa
la possibilita' di acquisire altre partecipazioni di controllo, per evitare
una situazione conflittuale. Il divieto non avrebbe avuto senso se gli enti
conferenti non avessero avuto un ruolo di gestione attiva, ma soltanto di
mero godimento delle azioni.
Gli enti, poi, erano anche tenuti a costituire una riserva finalizzata
alla sottoscrizione di aumenti di capitale delle societa' partecipate, per
conservarne il controllo (art. 12, comma 1, lett. d) ed anche questo
precetto era finalizzato alla gestione attiva. Soltanto i proventi di natura
straordinaria, che non fossero destinati a riserva o a non meglio precisate
finalita' gestionali dell'ente dovevano essere utilizzati, in via soltanto
residuale, per la realizzazione di strutture stabili attinenti alla ricerca
scientifica, alla istruzione, all'arte e alla sanita'.
Dal quadro normativo tracciato, risulta evidente che gli enti
conferenti, fino a quando hanno amministrato in regime pubblicistico le
partecipazioni nelle societa' conferitarie, hanno svolto essenzialmente e/o
prevalentemente una vera e propria attivita' di gestione (pubblica)
dell'impresa bancaria (privatizzata). Come ha rilevato la Corte
costituzionale, a seguito della ristrutturazione ex D.Lgs. n. 356 del 1990,
degli originari istituti di credito di diritto pubblico, gli enti conferenti
hanno dismesso, con il conferimento, la loro originaria natura di enti
creditizi, e tuttavia la sussistenza di un vincolo genetico e funzionale fra
l'ente pubblico conferente e la societa' bancaria conferitaria ha prodotto
un effetto di attrazione per cui si e' continuato ad applicare anche agli
enti conferenti il regime di enti e aziende creditizie (Corte Cost. sent. n.
163/1965). Soltanto la successiva evoluzione legislativa (c.d. riforma
Ciampi) "ha spezzato il vincolo genetico e funzionale che legava l'ente
pubblico conferente e la societa' bancaria, trasformando la natura giuridica
del primo in persona giuridica privata senza scopo di lucro" (Corte Cost.
sent. 300/2003).
Le fondazioni hanno svolto una attivita' di impresa rapportabile, sul
piano sistematico, al modello della holding. La giurisprudenza di questa
Corte ha da tempo affermato che anche la detenzione di partecipazioni,
quando si traduce in un vero e proprio controllo, da' luogo ad esercizio di
impresa e ad assoggettamento a procedura concorsuale (c.d. holding
individuale) (v. Cass. 25275/2006). Peraltro, secondo il nuovo testo
dell'art. 2497 sexies c.c., la detenzione del capitale di controllo di una
societa' di capitali pone a carico del soggetto detentore una presunzione di
esercizio di attivita' di direzione nei confronti della societa'
partecipata, regola che non fa altro che consacrare il principio della c.d.
holding individuale elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte, che
viene generalmente letta come espressione di un principio generale gia'
contenuto nell'ordinamento (v. Cass. SS. UU. 27619/2006). Ne' rileva, ai
fini fiscali, l'eventuale assenza di una apposita organizzazione: "La
nozione tributaristica dell'esercizio di imprese commerciali non coincide
con quella civilistica, giacche' il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art.
51, intende come tale l'esercizio per professione abituale, ancorche' non
esclusiva, delle attivita' indicate dall'art. 2195 cod. civ., anche se non
organizzate in forma di impresa, e prescinde quindi dal requisito
organizzativo, che costituisce invece elemento qualificante e
imprescindibile per la configurazione dell'impresa commerciale agli effetti
civilistici, esigendo soltanto che l'attivita' svolta sia caratterizzata
dalla professionalita' abituale, ancorche' non esclusiva" (Cass. 27211/2006).
Infine, per il legislatore e per gli organi di vigilanza, l'impresa
bancaria, la fanno i possessori di partecipazioni rilevanti, i quali devono
avere specifici requisiti soggettivi (di onorabilita' e professionalita')
per ottenere la prescritta autorizzazione (R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375,
artt. 19 e 27 (T.U. bancario. In altri termini, vi e' la presunzione legale
che il soggetto che acquisti partecipazioni rilevanti in una banca svolga in
concreto l'attivita' di banchiere e, quindi, deve avere determinati
requisiti di ingresso, che altrimenti non avrebbero senso (v. in
particolare, D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 19, comma 1, e art. 25, commi 1 e
7, prima alinea: "La Banca d'Italia autorizza preventivamente l'acquisizione
a qualsiasi titolo di partecipazioni rilevanti in una banca e in ogni caso
l'acquisizione di azioni o quote di banche da chiunque effettuata quando
comporta, tenuto conto delle azioni o quote gia' possedute, una
partecipazione superiore al 5 per cento del capitale della banca
rappresentato da azioni o quote con diritto di voto"; "Il Ministro
dell'economia e delle finanze, sentita la Banca d'Italia, determina con
regolamento emanato ai sensi della L. agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 3,
i requisiti di onorabilita' dei titolari di partecipazioni rilevanti.... In
mancanza dei requisiti non possono essere esercitati i diritti di voto e gli
altri diritti, che consentono di influire sulla societa', inerenti alle
partecipazioni eccedenti il suddetto limite).
Ne' si puo' obiettare che si tratta di requisiti richiesti da un
provvedimento legislativo successivo alla prima riforma, atteso che gia' il
D.P.R. 27 giugno 1985, n. 350, art. 1, comma 2, lett. c), (che ha recepito
la direttiva CEE 780/1977, c.d. direttiva "bancaria", recante il progetto di
trasformazione e coordinamento della disciplina del settore creditizio negli
Stati membri, nel quadro di un mercato globale liberalizzato, in regime di
concorrenza, affrancato da ogni forma di protezionismo) prevedeva che
l'autorizzazione all'esercizio dell'attivita' bancaria, da parte della Banca
d'Italia, fosse condizionata al possesso di specifici requisiti da parte di
coloro che, in virtu' della partecipazione al capitale, fossero in grado "di
influire sull'attivita' dell'ente".
A maggior ragione, quindi, vale la presunzione che il governo effettivo
delle aziende bancarie sia rimasto nelle mani degli enti conferenti,
titolari della partecipazione pressoche' totalitaria e comunque di
maggioranza delle ss.pp.aa.; questi avevano il compito principale di (sono
nati per) governare la delicatissima fase di avviamento della riforma che
vedeva esordire nel mercato internazionale l'impresa bancaria appena
privatizzata.
In definitiva, con la riforma Amato gli enti conferenti anziche' gestire
direttamente l'azienda bancaria, mediante un modello organizzativo di tipo
pubblicistico, come era avvenuto per il passato, hanno continuato a svolgere
tale attivita' utilizzando un nuovo modello organizzativo privatistico
(quello della spa), mantenendo saldamente nelle proprie mani le leve di
comando. La proprieta' dell'azienda e' rimasta nelle stesse mani. Gli enti
conferenti, a fronte del conferimento dell'azienda di proprieta', hanno
ottenuto azioni rappresentative (in tutto o in quota ampiamente
maggioritaria) del medesimo titolo di proprieta': una semplice
cartolarizzazione, che non spostava gli assetti della governarne.
Per le cc.dd. fondazioni i requisiti soggettivi richiesti per svolgere
attivita' bancaria erano in re ipsa, avendo gia' svolto direttamente, fino
alla riforma, l'attivita' creditizia.
2.6.2. (Il raffronto con gli enti di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art.
6, e L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis). Alla stregua delle considerazioni
svolte, risulta evidente che gli enti di gestione delle partecipazione
bancarie, cosi' come sono stati ideati dal legislatore del 1990, non possono
essere assimilati alle persone giuridiche pubbliche di cui alla L. n. 1745
del 1962, art. 10 bis, che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza,
educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica. In questo parametro
possono riconoscersi enti nati per tali finalita', anche quando
eventualmente svolgano una attivita' lucrativa strumentale, ma non
certamente gli enti pubblici, come quelli in esame, nati dalla necessita' di
garantire innanzitutto la continuita' della gestione delle banche e di
accompagnarle nell'ingresso del mercato globale.
A tali enti non sono stati posti limiti nell'esercizio delle attivita'
commerciali e finanziarie (salvo quelli specificamente previsti dal D.Lgs.
n. 356 del 1990, art. 12), per cui eventuale "sconti" fiscali, come gia' e'
stato rilevato, non potrebbero sfuggire ad eccezioni di incostituzionalita',
sul piano della disparita' del trattamento, e di incompatibilita' con le
norme sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato. Ne' ha pregio l'eccezione
che il contrasto con il diritto comunitario non sia verificabile di ufficio
nel giudizio di cassazione: "Il giudice nazionale deve verificare la
compatibilita' del diritto interno con le disposizioni comunitarie
vincolanti e fare applicazione delle medesime anche d'ufficio; pertanto, nel
giudizio di cassazione la verifica della compatibilita' col diritto
comunitario non e' condizionata alla deduzione di uno specifico motivo e,
come nei casi dello jus superveniens e della modifica normativa determinata
dalla dichiarazione di illegittimita' costituzionale, le relative questioni
possono essere conosciute purche' l'applicazione alla fattispecie del
diritto interno sia ancora controversa costituendo oggetto del dibattito
introdotto con i motivi di ricorso" (Cass. 9242/2004).
Lo stesso dicasi per gli enti, elencati per tipologia dal D.P.R. n. 601
del 1973, che rispondono ad un preciso profilo soggettivo, che non si
rinviene negli enti conferenti. Infatti, sulla base delle considerazioni
svolte, le "fondazioni" di origine bancaria pubbliche non possono essere
assimilate agli enti ed istituti di assistenza sociale, ne' alle societa' di
mutuo soccorso, ne' agli enti ospedalieri, ne' agli enti di assistenza e
beneficenza (art. 6, comma 1, lett. a). E' da escludere anche qualsiasi
affinita' con gli istituti di istruzione e gli istituti di studio e
sperimentazione di interesse generale che non hanno fini di lucro, corpi
scientifici e accademie (art. 12, comma 1, lett. b), tutti enti
caratterizzati da una loro ben individuata specializzazione e dall'assenza
del fine di lucro. Quanto alle fondazioni occorre che queste abbiano fini
esclusivamente culturali (art. 12, lett. b), e non e' certo il caso degli
enti conferenti. Infine non si tratta evidentemente di enti il cui fine e'
"equiparato per legge" ai fini di beneficenza o di istruzione. La
disposizione in esame, infatti, contiene una "norma di chiusura", in forza
della quale l'agevolazione fiscale non puo' essere estesa ad enti che non
rientrano nelle tipologie tassativamente elencate, salvo che non si tratti
di enti per i quali sia lo stesso legislatore a sancire, expressis verbis,
l'equiparazione (art. 6, comma 1, lett. c).
Per tutte le considerazioni svolte, gli enti conferenti, a causa del
particolare vincolo genetico, che le univa alle aziende scorporate, e della
particolare missione loro assegnata dal legislatore (di traghettamento
dell'attivita' creditizia dal pubblico statale al privato mondiale, in forza
delle direttive comunitarie 780/1977 e 646/1989, recepite, rispettivamente
con D.P.R. n. 350 del 1985 e D.Lgs. n. 481 del 1992, tendenti a realizzare
un mercato bancario libero, concorrenziale ed immune da interventi
protezionistici), almeno nella fase di avviamento della riforma, fino a
quando non e' intervenuta la privatizzazione, non avevano alcuna
"somiglianza" con gli enti fiscalmente agevolati e quindi la relativa
normativa non puo' essere loro applicata ne' in via analogica (trattandosi
di disposizioni eccezionali), ma neanche in via estensiva, posto che la
ratio delle norme agevolative e' da ricercarsi nella esclusivita' e
tipicita' del fine sociale in senso ampio, previsto per ciascun ente
individuato in maniera tassativa. Ne' sono ammesse equiparazioni se non
espressamente dichiarale dal legislatore. Infatti, come gia' accennato, lo
stesso art. 6 in esame, alla lett. c) del comma 1, contiene una norma di
chiusura che impedisce ogni forma di interpretazione estensiva che non sia
espressamente prevista dalla legge. Tale disposizione ha un senso soltanto
se la si interpreta appunto come divieto di applicazione estensiva della
norma stessa, dal momento che l'interpretazione analogica e' gia' preclusa
dal carattere di eccezionalita' della norma, ai sensi dell'art. 12 disp.
gen.. La riprova del carattere casistico/esclusivo della disposizione in
esame e' data dal fatto che allorquando il legislatore ha inteso includere
una nuova tipologia di enti lo ha fatto espressamente. E' il caso degli
istituti autonomi per le case popolari, ai quali la riduzione di imposta e'
stata concessa attraverso l'aggiunta del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6,
comma 1, lett. c bis, in forza del D.L. n. 331 del 1993, art. 66, comma 8,
modificato dalla Legge di Conversione n. 427 del 1993. Si tratta di una
modifica intervenuta mentre era in piena attuazione la prima fase della
riforma del sistema creditizio e non e' senza significato il fatto che a
nessuno sia venuto in mente, in tale contesto storico-legislativo, di
estendere l'agevolazione agli enti in questione.
In definitiva, nella specie non e' ipotizzabile nessuna forma di
estensione delle disposizioni agevolative, per due ordini di ragioni.
Innanzitutto, perche' la eccezionalita' della figura degli enti conferenti,
che non aveva precedenti e non ha avuto repliche, impedisce di ipotizzare
che il legislatore nel formulare la norma abbia potuto implicitamente
riferirsi anche a tale tipo di ente (extraordinem) assolutamente assente dal
mondo giuridico allora conosciuto. In secondo luogo, perche' lo stesso
legislatore ha escluso, in relazione al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 6, ogni
estensione che non sia giustificata da una equiparazione espressamente
indicata dal legislatore. Per la L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, il
requisito della esclusivita' del fine preclude l'applicazione della norma
agli enti in esame. Non si tratta di argomenti meramente formali, perche'
non va dimenticato che la disciplina del prelievo fiscale, specialmente
nella parte in cui comporta una riduzione del gettito, deve essere oggetto
di apposita valutazione legislativa che tenga conto dei vincoli di bilancio
(a parte gli altri vincoli derivante dai principi costituzionali di
razionalita' ed uguaglianza).
2.6.3. (La riforma Ciampi). Occorre ora esaminare la successiva riforma
del sistema creditizio per verificare se sia fondata la tesi secondo la
quale la nuova disciplina nell'estendere il regime fiscale di favore di cui
all'art. 6 DPR 601/1973 agli enti che si siano adeguati alle nuove
prescrizioni della seconda riforma (D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12), abbia
valenza interpretativa e quindi efficacia retroattiva.
Con la L. 23 dicembre 1998, n. 461, e' stata data Delega al Governo per
il riordino della disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti, di
cui al D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 11, comma 1, e della disciplina
fiscale delle operazioni di ristrutturazione bancaria. In attuazione di tale
delega e' stato promulgato il D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153, in forza del
quale gli enti conferenti hanno acquisito la qualifica di fondazioni con
personalita' giuridica di diritto privato (art. 2). Lo stesso D.Lgs. ha
chiarito che le fondazioni "Possono esercitare imprese solo se direttamente
strumentali ai fini statutari ed esclusivamente nei settori rilevanti" (art.
3, comma 1), confermando, implicitamente, che in precedenza il sistema non
poneva un vincolo del genere e potevano essere svolte tutte le attivita'
considerate genericamente opportune. Altre norme, contenute nel titolo I,
prevedono in maniera dettagliata gli adempimenti prescritti per la
"privatizzazione" delle fondazioni, i quali poi condizionano il passaggio al
regime tributario proprio degli enti non commerciali, ai sensi del medesimo
D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12. Tra tali adempimenti, vi e' quello della
dismissione delle partecipazioni di controllo possedute e del divieto di
acquisizione di altre partecipazioni di controllo (salvo quelle in imprese
direttamente strumentali) (art. 5, comma 4).
Il D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12, detta la disciplina fiscale dei
"nuovi" enti privatizzati e stabilisce che le fondazioni che hanno adeguato
gli statuti alle disposizioni del titolo 1µ si considerano enti non
commerciali ai sensi al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 87, comma 1,
lett. c), (T.U.I.R.) (art. 12, comma 1) e, conseguentemente, "si applica il
regime previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 6. Lo stesso
regime si applica, fino all'adozione delle disposizioni statutarie previste
dal comma 1, alle fondazioni non aventi natura di enti commerciali che
abbiano perseguito prevalentemente fini di interesse pubblico e di utilita'
sociale nei settori indicati nel D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 12 e
successive modificazioni" (art. 12, comma 2, abrogato poi dal D.L. n. 168
del 2004, art. 2,, a decorrere dall'esercizio 2004).
Il presupposto per beneficiare della agevolazione e' costituito
dall'adeguamento alle prescrizioni dettate dalla riforma di privatizzazione
e, quindi, in primo luogo dalla dismissione delle partecipazioni di
controllo (per le quali dismissioni, pero' era previsto il termine ultimo
del 31 dicembre 2005, ai sensi del D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 25). Tanto
e' vero che il successivo comma 3 del medesimo art. 12 prevede che la
fondazione "perde la qualifica di ente non commerciale e cessa di fruire
delle agevolazioni previste dai commi precedenti se, successivamente alla
data del 31 dicembre 2005, e' ancora in possesso di una partecipazione di
controllo, cosi' come individuato dall'art. 6, nella Societa' bancaria
conferitaria. Si applica l'art. 111 bis, comma 3, del cit. T.U.I.R.". E'
evidente che il riconoscimento del beneficio fiscale e' collegato alla
attuazione della riforma del 1999, senza alcuna influenza sui periodi
precedenti. Anche laddove il comma 2 dell'art. 12 dispone che il regime
agevolativo si applica in via transitoria anche prima dell'adeguamento degli
enti alle norme di riforma, a condizione che si tratti di fondazioni che non
abbiano natura di enti commerciali e che abbiano perseguito prevalentemente
fini di interesse pubblico e di utilita' sociale, la norma opera a partire
dalla data dell'entrata in vigore del D.Lgs. e serve a giustificare la
concessione della agevolazione, che deve avvenire sulla base dei consueti
parametri di fatto (ente non commerciale/prevalenza delle finalita' sociali).
Tra l'altro, rispetto al D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12, il D.Lgs. n. 153
del 1999, art. 12, reca un elemento nuovo, il carattere prevalente dei fini
di interesse pubblico, che correttamente condiziona e giustifica
l'applicazione della agevolazione fiscale, rispetto alle finalita' che
dovevano perseguire gli enti prima della riforma, rispetto alle quali il
D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12, non richiedeva il requisito della
prevalenza.
La riprova che l'agevolazione fiscale in questione e' condizionata alla
attuazione della seconda riforma, con la dismissione di ogni residua
connotazione imprenditoriale degli enti, con la conseguenza che le relative
disposizioni non possono avere valenza interpretativa, la si ricava anche
dalla successiva prescrizione, secondo la quale "La natura di ente non
commerciale viene meno se la fondazione, successivamente alla data del 31
dicembre 2005, risulta titolare di diritti reali su beni immobili diversi da
quelli strumentali per le attivita' direttamente esercitate dalla stessa o
da imprese strumentali in misura superiore al 10 per cento del proprio
patrimonio" (D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12, comma 4, prima alinea).
Comunque, anche nel periodo transitorio, i redditi che derivano da tali
immobili non godono del regime agevolato: "In ogni caso, fino al 31 dicembre
2005, i redditi derivanti da detti beni non fruiscono del regime previsto
dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 6" (D.Lgs. n. 153 del 1999, art.
12, comma 4, seconda alinea).
2.7. (Conclusioni) In definitiva, le c.d. fondazioni bancarie, nate
dalla c.d. riforma Amato, avevano come scopo principale la gestione del
nuovo assetto organizzativo del settore del credito, nell'intento di
consentire ai nuovi soggetti bancari, costituiti in s.p.a., di esordire
sulla scena del mercato globale in maniere da reggere l'urto della
concorrenza internazionale e della liberalizzazione, senza piu' alcun
ombrello protezionistico. In questo quadro di riferimento, ogni altra
finalita' e' del tutto secondaria. Ne deriva che e' infondata ogni altra
considerazione intesa a dimostrare che l'attivita' delle fondazioni comunque
era finalizzata al perseguimento di obbiettivi sociali, meritevoli di
agevolazioni (che comunque si risolverebbero in una indebita riduzione del
prelievo sugli utili e, quindi, su un "accrescimento" delle disponibilita'
finanziarie utilizzabili dalla fondazione per "rafforzare" la presenza e
l'attivita' dell'ente bancario nel mercato, in violazione della par
condicio). Ne deriva, altresi', che gli enti in questione non hanno alcuna
somiglianza con quelli ammessi alle agevolazioni. A parte la considerazione
che per quanto attiene al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, la norma non e'
suscettibile di interpretazione estensiva, per espressa disposizione
legislativa, e che, per quanto attiene alla L. n. 1745 del 1962, art. 10
bis, occorre il requisito della "esclusivita'" dello scopo privilegiato, che
certamente nella specie non ricorre.
A cio' si aggiunga che, comunque, sul piano processuale, considerato che
dal quadro normativo sopra ricostruito si ricava l'esistenza di una vera e
propria presunzione di esercizio della attivita' di impresa bancaria in capo
a coloro che in ragione della entita' della partecipazione al capitale
sociale sono in grado di influire sull'attivita' dell'ente creditizio, per
accedere al beneficio invocato, le cc.dd. fondazioni avrebbero dovuto
allegare e dimostrare di avere svolto una attivita' del tutto differente da
quella voluta dal legislatore, nel senso che invece di privilegiare le
finalita' di consentire al nostro sistema creditizio di affrontare le
turbolenze del mercato internazionale "in mare aperto" (governando la fase
dell'affrancamento dal protezionismo statale), abbiano invece svolto una
attivita' di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale. A parte
la considerazione che l'onere di provare i fatti giustificativi di un
trattamento fiscale agevolato grava sempre su colui che invoca il beneficio,
secondo i consueti criteri di ripartizione dell'onere della prova, dettati
dall'art. 2697 c.c..
E' stato anche obiettato che le cc.dd. fondazioni sarebbero gravate
dell'onere di fornire una impossibile prova negativa (cioe' di non aver
fatto impresa bancaria). In realta', come gia' e' stato rilevato da questa
Corte, si tratta di fornire la prova positiva dell'attivita' svolta in
concreto dall'ente; prova che "puo' essere fornita mediante la produzione di
estratti dei libri contabili o idonee certificazioni del collegio dei
revisori o del collegio sindacale delle societa' partecipate; la relativa
verifica postula un'indagine sull'esercizio in concreto dell'attivita'
d'impresa, non limitata ai modi di gestione della partecipazione di origine,
ma estesa all'attivita' complessivamente esercitata dalla fondazione
nell'anno d'imposta, e presuppone innanzitutto che il relativo tema sia
stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo
tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel
ricorso introduttivo, non incombendo all'Amministrazione finanziaria l'onere
di sollevare in proposito precise contestazioni" (Cass. 7883/07; conf.
10255/07, 13559/07).
Le argomentazioni svolte assorbono ogni altra eccezione e deduzione.
Conseguentemente, il ricorso dell'Agenzia deve essere accolto e la
sentenza impugnata deve essere cassata. Ai sensi dell'art. 384 c.p.c., la
causa va decisa nel merito nel senso che il ricorso introduttivo della
fondazione deve essere rigettato, perche' il compito che il legislatore ha
assegnato agli enti conferenti non appare compatibile con quelli propri
degli enti a fiscalita' privilegiata; ne' risulta fornita la prova che
l'attivita' svolta in concreto fosse sussumibile ai modelli legislativi
invocati per beneficiare dell'agevolazione fiscale richiesta.
La complessita' delle questioni prospettate e le oscillazioni
giurisprudenziali che hanno caratterizzato analoghe vicende giudiziarie
impongono la compensazione delle spese dell'intero giudizio. Lo stesso
dicasi per il ricorso del Ministero dell'Economia e delle Finanze, ritenuto
inammissibile, atteso che l'intervento chiarificatore delle SS.UU. in tema
di legittimazione dello stesso, e' successivo alla proposizione dell'odierno
ricorso.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell'Economia e
delle Finanze. Accoglie il ricorso dell'agenzia delle Entrate, cassa la
sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta il ricorso introduttivo
del contribuente. Compensa le spese dell'intero giudizio