Il curatore del fallimento che esperisca l'azione revocatoria ordinaria è tenuto a provare: che il credito dei creditori ammessi o di alcuni dei creditori ammessi al passivo era già sorto al momento del compimento dell'atto che si assume pregiudiziev

Il curatore del fallimento che esperisca l'azione revocatoria ordinaria è tenuto a provare: che il credito dei creditori ammessi o di alcuni dei creditori ammessi al passivo era già sorto al momento del compimento dell'atto che si assume pregiudizievole, nonché quale era la consistenza dei loro crediti e quale era la consistenza quantitativa e qualitativa del patrimonio del debitore subito dopo il compimento dell'atto che si assume pregiudizievole. Solo l'acquisizione di tali dati, infatti, consente di verificare in concreto, attraverso il loro raffronto, se l'atto in questione abbia effettivamente pregiudicato le ragioni dei creditori. Se, in particolare, dopo il compimento dell'atto residuano beni che siano sufficienti a coprire l'intero valore del credito e non rendono più difficoltosa al creditore l'attuazione coattiva del suo diritto, il pregiudizio in questione devesi ritenere inesistente. (Corte di Cassazione Sezione 2 Civile, Sentenza del 31 ottobre 2008, n. 26331)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PONTORIERI Franco - Presidente

Dott. COLARUSSO Vincenzo - Consigliere

Dott. TROMBETTA Francesca - Consigliere

Dott. ATRIPALDI Umberto - Consigliere

Dott. D'ASCOLA Pasquale - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FA. FR., CA. AN., elettivamente domiciliati in ROMA VIA CHIANA 35, presso lo studio dell'avvocato CESARANO ILARIA, difesi dall'avvocato CASABURI GIANFRANCO, giusta delega in atti;

- ricorrenti -

contro

FALL. FO. MI. SRL, in persona del Curatore pro tempore Dott. MO. GI., elettivamente domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR, presso la CORTE di CASSAZIONE, difeso dall'avvocato DE FELICE ARTURO, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 847/03 della Corte d'Appello di SALERNO, depositata il 09/12/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/08 dal Consigliere Dott. D'ASCOLA Pasquale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Scardaccione Eduardo Vittorio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il tribunale di Salerno il 15 maggio 2000 respingeva, perche' prescritta, l'azione revocatoria proposta Regio Decreto n. 267 del 1942, ex articolo 66, dal Fallimento della societa' Fo. Mi. avverso Fa. Fr. e Ca. An.. L'appello della curatela fallimentare veniva accolto con sentenza del 9 dicembre 2003. La Corte d'appello di Salerno riteneva che la citazione notificata il 17 ottobre 1990 era stata tempestiva rispetto alla vendita immobiliare stipulata il 21 ottobre 1985, poiche' la pattuizione intervenuta in precedenza tra le parti aveva valore soltanto di contratto preliminare. Ravvisava inoltre i presupposti per l'azione revocatoria. I coniugi Fa. hanno proposto ricorso per cassazione affidandosi a due motivi di ricorso.

Il fallimento ha resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo mezzo (violazione e falsa applicazione dell'articolo 2901 c.c., nonche' vizio di motivazione) i ricorrenti criticano la sentenza per aver ritenuto sussistente l'eventus damni sulla base di un solo elemento presuntivo: la sproporzione tra prezzo dichiarato in atto e valore di mercato del bene, cosi' applicando principi propri dell'azione revocatoria fallimentare e non della revocatoria ordinaria. Dopo aver ricordato le differenze tra i due istituti e invocato i precedenti giurisprudenziali di legittimita', i Fa. osservano che la sentenza impugnata ha sorvolato sulla natura e l'ampiezza dello stato di insolvenza della societa' Fo. Mi., sull'incidenza dannosa della vendita, sulla quantita' ed origine dei crediti ricompresi nel passivo fallimentare, sull'epoca - anteriore o posteriore al fallimento -in cui erano sorti.

Nel secondo motivo, che lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli altri requisiti contemplati dall'articolo 2901 c.c., i ricorrenti approfondiscono la censura in ordine all'assenza in sentenza di riferimenti probatori alle condizioni patrimoniali della societa' o alla liquidazione dei beni, affermando che la vendita era avvenuta nell'ambito della normale attivita' commerciale dell'impresa edile, con indicazione di un prezzo basso per motivi di convenienza fiscale. Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente per l'intima connessione che li avvince, sono fondati. Per difendere la sentenza impugnata dalle pertinenti osservazioni svolte in ricorso, parte resistente ha sostenuto che negli atti di causa vi era la prova di un disegno volto a svendere i beni della societa': ha indicato allo scopo due vendite immobiliari eseguite in anni successivi (1986 e 1987); ha sottolineato che in caso di vendita contestuale dei beni i terzi acquirenti sono consapevoli del pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore; ha evidenziato che l'immobile era stato alienato quando si trovava ancora "al rustico" e che cio' implicava consapevolezza nell'acquirente dell'altrui situazione patrimoniale "disastrosa". Tutte queste allegazioni, sulla cui fondatezza e plausibilita' questa Corte non e' chiamata ad indagare, trattandosi di nuove circostanze di fatto o di apprezzamenti di merito, non sono riscontrabili nella sentenza impugnata. Pertanto esse implicitamente valgono a confermare che l'esame condotto dal Giudice di merito e' stato frettoloso e incompleto e si risolvono in un rafforzamento della critica di parte ricorrente. Il ricorso coglie nel segno su tutti i punti salienti, tanto con riferimento all'uso di un unico argomento presuntivo per ravvisare i presupposti di fatto della revocazione, quanto nel contestare che sussistessero le condizioni di cui alla L.F., articolo 66, che tratteggia l'azione revocatoria ordinaria svolta dal curatore. Infatti dalla circostanza che il valore del bene sia stato stimato in circa lire 133 milioni, mentre il prezzo dichiarato in atto era di soli lire 40 milioni, i Giudici di Salerno hanno tratto la convinzione che la vendita abbia "comportato uno stato di decozione della venditrice"; che i compratori erano consapevoli del pregiudizio arrecato alla societa' Fo.; che essi avrebbero dovuto presumere "che la societa' stava liquidando i suoi beni per le precarie condizioni patrimoniali in cui versava".

L'uso dell'istituto delle presunzioni appare evidentemente improprio: la sentenza non indica argomenti plurimi e concordanti idonei a confermare l'inferenza presuntiva tratta dalla sproporzione tra prezzo e valore e non si fa carico neanche delle difficolta' piu' evidenti e degli obblighi di motivazione essenziali. Il fatto che tra la vendita e il fallimento fossero passati ben cinque anni e' di per se' - cioe' se non corredato da altri elementi di valutazione - in contrasto con - l'affermazione che da essa dipenda lo stato di decozione, che ben difficilmente puo' protrarsi per tanto tempo se l'imprenditore intende svendere e liquidare ogni attivo patrimoniale. Inoltre, in tale ipotesi, espressamente sostenuta in sentenza, l'imprenditore non palesa negli atti di vendita una sproporzione cosi' grave, tale da allertare eventuali altri creditori e da esporre con quasi certezza gli acquirenti all'esercizio dell'azione revocatoria. E' piu' frequente che avvenga il contrario, cioe' che le parti dichiarino in atto un prezzo congrue, per illudere su una condizione di normalita' e prevenire le conseguenze di eventuali azioni fallimentari. Ne' si puo' negare che l'evasi'one fiscale prospettata dai ricorrenti poteva essere motivo di questa manifesta sproporzione, ben piu' credibile, sul piano logico, della deduzione tratta invece dalla sentenza, secondo la quale una vendita con simile sproporzione non rientrava "nel normale esercizio dell'attivita' fallita".

Vi e' stata quindi erronea applicazione del meccanismo che governa l'uso delle presunzioni, viziato in origine dalla omessa individuazione della plurimita' degli indizi e conseguentemente dalla mancata ricerca della loro concordanza, nonche' della precisione, gravita e unidirezionalita' degli altri elementi eventualmente disponibili. Cio' consente il controllo in sede di legittimita', ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sulla congruita' della motivazione, dovendosi verificare se le argomentazioni giustificative del convincimento espresso dal Giudice di merito siano affette da incoerenza logica e da vizi giuridici o da omissioni vertenti su elementi decisivi che abbiano formato oggetto di rituali deduzioni (cfr. Cass 19894/2005). La motivazione impugnata, che non indica in premessa (e cosi' neppure il controricorso) che fosse ipotizzata in citazione una dolosa preordinazione al fine di pregiudicare il soddisfacimento di qualche credito, non ha fatto corretto uso dei principi di diritto indicati da questa Corte in materia di azione revocatoria, in particolare di quella ordinaria, svolta dal curatore fallimentare.

Da tempo la giurisprudenza di legittimita' insegna che il curatore del fallimento che esperisca l'azione revocatoria ordinaria non puo' limitarsi a far genericamente valere le ragioni creditorie del fallimento, essendo, invece, tenuto, in caso di esplicita contestazione del convenuto, a fornire la prova che il credito di cui si tratta sia stato insinuato nella massa fallimentare. Cass. 15257/04, in caso simile a quello odierno, ha avuto modo di spiegare che l'obbietti'va idoneita' di un atto a pregiudicare i diritti dei numerosi creditori esistenti all'epoca della cessione e', tuttavia, per se' inidonea a comprovare l'esistenza del credito, cioe' l'ulteriore requisito richiesto dall'articolo 2901 c.c., ai fini dell'utile esercizio dell'azione revocatoria. Quando si tratti di azione proposta dal curatore ai sensi della L.F., articolo 66, e' infatti necessario accertare, da un lato, se al momento del compimento dell'atto di disposizione sussistevano ragioni creditorie insoddisfatte, e, dall'altro, se il relativo credito era stato ammesso allo stato passivo della procedura. Ogni indicazione su questo aspetto, puntualmente marcato dai ricorrenti anche affermando di aver inutilmente sollecitato in istruttoria l'acquisizione di documentazione tratta dal fascicolo del fallimento, e' invece mancata. La Corte d'appello non ha considerato gli insegnamenti di Cass. 9092/98, ai quali si conforma la giurisprudenza di merito. Ivi si e' insegnato che il curatore del fallimento che esperisca l'azione revocatoria ordinaria e' tenuto a provare: che il credito dei creditori ammessi o di alcuni dei creditori ammessi al passivo era gia' sorto al momento del compimento dell'atto che si assume pregiudizievole, quale era la consistenza dei loro crediti, quale era la consistenza quantitativa e qualitativa del patrimonio del debitore subito dopo il compimento dell'atto che si assume pregiudizievole, consentendo soltanto la acquisizione di tali dati di verificare in concreto, attraverso il loro raffronto, se l'atto in questione abbia effettivamente pregiudicato le ragioni dei creditori. Ed infatti, ha motivato condivisibilmente la sentenza citata, "Se dopo il compimento dell'atto residuano beni che siano sufficienti a coprire l'intero valore del credito e non rendono piu' difficoltosa al creditore l'attuazione coattiva del suo diritto, il pregiudizio in questione devesi ritenere inesistente".

Occorre dunque provare l'esistenza di una pluralita' di creditori che possano esser stati danneggiati dall'atto oggetto di impugnazione all'epoca della sua stipulazione. Pur essendo logico pensare, prosegue Cass. 9092/98, che l'imprenditore abbia "fornitori, dipendenti, enti previdenziali, istituti di credito o uffici tributari verso i quali potesse avere delle obbligazioni di pagamento", la curatela deve fornire elementi di valutazione che consentano di ritenere che si versi "in una situazione che esca dal normale, fisiologico andamento dell'attivita' di un imprenditore perfettamente in grado di far fronte alle proprie obbligazioni". Cio' deve fare dimostrando che all'epoca dell'atto esistevano anche altri soggetti, creditori per importi consistenti, tali da rimanere pregiudicati dall'atto di vendita.

Nel caso in esame la completa assenza di ogni riferimento a questi profili non consentiva quindi di stabilire l'esistenza del cosiddetto eventus damni, ne' degli altri presupposti indicati dalla Corte d'appello.

Segue da quanto esposto l'accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte; la causa deve essere rinviata per un ulteriore esame ad altro Giudice, che decidera' alla stregua dei principi di diritto sopra individuati e provvedere anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d'appello di Napoli.

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