La domanda giudiziale l'unico atto interruttivo della prescrizione in materia revocatoria fallimentare

In tema di azione revocatoria fallimentare la domanda giudiziale costituisce l’unico atto possibile di esercizio del diritto potestativo di chiedere la inefficacia relativa dell'atto pregiudizievole nei confronti dei creditori concorsuali. Pertanto, l'effetto interuttivo della prescrizione dell’azione in parola si produce quando la domanda medesima sia stata ritualmente notificata.
(Cassazione, Sezione prima civile, sentenza 25 ottobre 2007, n. 22366).



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Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 23 novembre 1998, il curatore del fallimento S.T. s.p.a., dichiarato il 16 novembre 1993, convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Cagliari la Banca commerciale italiana s.p.a. chiedendo che, ai sensi dell'art. 67, comma 2, l. fall., fosse pronunciata la revoca dei versamenti, per il complessivo importo di lire 221.964.166, effettuati dalla società predetta nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, su conti correnti, entrambi scoperti, intrattenuti con la banca.
Accogliendo la omologa eccezione sollevata dalla azienda di credito convenuta, il tribunale adito respinse la domanda, ritenendo prescritta la relativa azione dacché, al momento della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio, erano già decorsi cinque anni dalla dichiarazione di fallimento.
L'appello dell'amministrazione fallimentare fu rigettato dalla Corte di Cagliari che, ribadendo quanto già affermato dal tribunale, escluse l'assoggettabilità del termine di prescrizione della azione revocatoria fallimentare alla disciplina dalla legge 7 ottobre 1969, n. 742, in quanto dettata con riferimento esclusivo ai termini processuali e non applicabile, invece, a quelli aventi natura sostanziale. Escluse, altresì, che il termine per proporre l'azione revocatoria ex art. 67 l. fall. possa considerarsi di "rilevanza processuale", posto che cinque anni dalla dichiarazione di fallimento costituiscono un congruo periodo per decidere di preparare e proporre la domanda giudiziale, in ultima analisi per tutelare il proprio diritto. Negò, d'altra parte, rilevanza, ai fini della interruzione del termine prescrizionale, alla consegna all'ufficiale giudiziario dell'atto di citazione, che, fungendo da costituzione in mora del debitore, ha natura recettizia e produce, quindi, gli effetti indicati solo al momento della ricezione da parte del destinatario dell'atto notificando, avvenuta nella specie a prescrizione già compiuta.
Avverso la sopra compendiata sentenza, ricorre il fallimento, articolando due mezzi di cassazione.
Resiste con controricorso, illustrato da memoria, la Intesa Gestione Crediti s.p.a. succeduta nel rapporto controverso alla Banca Commerciale s.p.a.


Motivi della decisione


Con il primo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1 della legge 7 ottobre 1969 n. 762 e 67 della legge fallimentare oltre a "omessa insufficiente e contraddittoria motivazione". Pur movendo da corrette premesse, i giudici di merito non ne hanno fatto discendere corollari conseguenziali dal punto di vista logico - giuridico. Se l'azione revocatoria costituisce esercizio di diritto potestativo, dipendendo il diritto dalla inefficacia dell'atto unicamente da una pronuncia giudiziale di natura costitutiva, il corso della relativa prescrizione può essere interrotto solo con la proposizione dell'azione giudiziaria, sicché non può non riconoscersi natura e rilevanza strettamente processuale al termine di prescrizione, pur se previsto da norma di diritto sostanziale. D'altra parte, per dottrina e giurisprudenza ormai consolidate, nella locuzione “termini processuali” di cui alla prima delle norme rubricate, vanno ricompresi tutti di termini di prescrizione e/o decadenza entro i quali deve essere iniziata una azione giudiziaria, nelle ipotesi in cui questa costituisca l'unico rimedio per far valere il diritto.
Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 24 Cost., 149 c.p.c. e 4 della legge 20 novembre 1982 n. 830, oltre a "omessa e contraddittoria motivazione". In base alla sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002, la notificazione dell'atto di citazione ex art. 149 c.p.c., se effettuata a mezzo posta (legge n. 890/1982), si perfeziona per il notificante alla data di consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, nella specie risalente al 26 ottobre 1998 e perciò entro i cinque anni dalla dichiarazione di fallimento. Contrariamente a quanto sostenuto arbitrariamente dalla corte cagliaritana, il principio affermato dalla citata sentenza - avente lo scopo di impedire il pregiudizio al diritto di difesa del notificante riveniente da ritardi a lui non imputabili - non subisce limitazioni o distinzioni di sorta e vale per tutti gli atti con cui si inizia un giudizio.
Il primo motivo è destituito di giuridico fondamento.
Come noto, la disciplina generale della sospensione del decorso dei termini nel periodo feriale, destinata ad assicurare l'effettiva possibilità di esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio, è stata più volte esaminata dalla Corte costituzionale (vedi, ad esempio, Corte cost. nn. 40/1985 e 49/1990 che hanno dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 1 della legge 7 ottobre 1969 n. 742 nella parte in cui non dispone che la sospensione ivi prevista si applica anche al termine di trenta giorni per l'opposizione alla stima dell'indennità di esproprio e al termine di trenta giorni per l'impugnazione delle delibere dell'assemblea del condominio). In presenza di termini brevi, di duplice e coesistente natura sostanziale e processuale, sono state accolte questioni di legittimità costituzionale, sollevate nel contesto di una giurisprudenza ferma nel ritenere non applicabile la sospensione, prevista dall'art. 1 legge n. 742 del 1969, ai termini per la proposizione della domanda giudiziale previsti da norme di natura sostanziale (vedi, fra le tante, sentt. nn. 4494/1985, 3143/1990, 694/1976, 1840/1976, 609/1976); la norma, come detto in passato da questa Corte, riguarda i termini processuali - che si riferiscono, cioè, allo svolgimento del processo e regolano l'attività delle parti nel corso di un procedimento - e, pertanto, non opera nei confronti dei termini sostanziali.
La Corte costituzionale ha affermato che escludere la sospensione del decorso dei termini nel periodo feriale lede il diritto di agire in giudizio per la tutela delle proprie ragioni, nei casi in cui la via giudiziaria costituisca l'unico rimedio per fare valere il diritto stesso in un ristretto termine fissato dalla legge.
È da notare come, in tutta questa serie di pronunce, il giudice delle leggi non abbia affrontato in via generale la ratio dell'estensibilità della sospensione, ma si sia limitato a valutare le peculiarità delle singole fattispecie; egli non ha esaminato la natura sostanziale o processuale del termine via via in discussione, ma, con una serie di interventi additivi, ha rilevato che la sospensione si impone quando la possibilità di agire in giudizio costituisca per il titolare l'unico rimedio per far valere un suo diritto e il termine per agire, già di per sé breve, diviene particolarmente difficile da rispettare nel periodo feriale, vista la necessità di munirsi della difesa tecnica. In tale ottica, viene in un certo senso superata ed assorbita la mera distinzione tra termini processuali e termini sostanziali, come discrimine per l'applicazione della sospensione dei termini, e si focalizza l'attenzione sull'effettività del diritto di agire in giudizio e sulla gerarchia dei valori, costituzionalmente tutelati, riconnessi a tali termini. In realtà, la Corte costituzionale ha adottato in materia una soluzione di carattere pragmatico, senza curarsi di giustificare la stessa dal punto di vista sistematico; al contrario, ha posto la questione in termini affatto diversi, valutando il caso concreto ovvero la condizione di chi si trova impossibilitato a far valere il suo diritto entro il termine di decadenza quando detto termine venga a cadere nel periodo in cui opera la sospensione feriale: tale situazione, in amianto contrastante con il diritto di difesa sancito e tutelato dall'art. 24 Cost., deve considerarsi illegittima.
Con riferimento al requisito della durata, la Corte costituzionale non fornisce alcuna indicazione o criterio per poter individuare i termini di decadenza che possono essere definiti brevi al punto da giustificare l'applicazione della sospensione feriale. Nel tentativo di ricostruire il concetto di “brevità” cui intendeva riferirsi, la Corte ha operato una valutazione di massima relativamente all'incidenza che il periodo di sospensione feriale può avere in rapporto al termine previsto dalla legge per l'esercizio del diritto da parte del suo titolare.
L’enunciazione di questi principi ha concorso a determinare una complessiva rimeditazione interpretativa da parte della giurisprudenza di legittimità che, rifacendosi al medesimo iter logico, è direttamente intervenuta in via adeguatrice nei singoli casi concreti. Si è cosi pervenuti a una ricostruzione della portata normativa dell'art. 1 legge n. 742 del 1969, tale da superare l'esigenza di ulteriori pronunce di illegittimità costituzionale dirette ad inserire di volta in volta altre singole fattispecie nel contesto della stessa disposizione.
I più recenti orientamenti della giurisprudenza ordinaria muovono in una prospettiva interpretativa, in precedenza seguita dalla sola giurisprudenza amministrativa, secondo la quale la locuzione "termini processuali'', ai fini della sospensione nel periodo feriale, comprende anche i brevi termini di decadenza fissati per la proposizione dell'atto introduttivo del giudizio. Si deve pertanto constatare come sia divenuta dominante, anche nella giurisprudenza di questa Corte, una lettura della disposizione che offre una più ampia e comprensiva nozione di termine processuale, tale da non limitarne la portata nell'ambito del compimento degli atti successivi all'introduzione del processo, ma idonea invece a comprendere il ristretto termine iniziale entro il quale il processo deve essere introdotto, quando la proposizione della domanda costituisca l'unico rimedio per la tutela del diritto che si assume leso.
Questa nuova lettura della disposizione ha portato la Corte di cassazione ad affermare che è soggetto alla sospensione nel periodo feriale il termine di trenta giorni previsto dall'art. 2527 c.c., a pena di decadenza e senza rimedio alternativo, per l'impugnazione giudiziale della delibera di esclusione del socio dalla cooperativa (vedi Cass. nn. 6097/1990, 6041/1991, 7337/1990), il termine di tre mesi previsto dall'art. 2377 c.c. per l'impugnazione della delibera dell'assemblea di una società per azioni (vedi Cass. n. 3351/1997) e il termine di decadenza annuale previsto per la presentazione della domanda di disconoscimento della paternità naturale (vedi Cass. n. 6874/1999).
Attuando una sorta di processualizzazione dei termini procedimentali contenuti in norme di carattere sostanziale, si è, in ultima analisi, tentata una ricostruzione del sistema normativo nel senso di adeguare la lettura della disposizione al principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale.
E, infatti, se il carattere processuale di un termine non si ricollega solo al suo manifestarsi e compiersi dopo l'inizio del processo, ma anche alla sua funzione, al suo valore come atto iniziale del processo, allora anche l'atto introduttivo del giudizio è certamente un atto processuale. E lo è ancora di più quando tutto il processo si presenta come l'unico strumento atto a difendere e a tutelare il diritto del cittadino: in questi casi, il termine per iniziare il processo non è lasciato all'arbitrio della parte, non ammette equipollenti ed è, a tutti gli effetti, un termine processuale o comunque a rilevanza processuale.
Epperò da questa giurisprudenza si può enucleare una articolata regola ermeneutica di portata generale in base alla quale:
A) il termine (non strettamente processuale) suscettibile di sospensione ex art. 1 della legge n. 742/1969 è quello (all'un tempo processuale e sostanziale) entro il quale il processo deve necessariamente essere proposto, non essendo concessa al cittadino alcuna altra forma di tutela del proprio diritto, vale a dire nel caso in cui l'atto di impulso processuale sia indispensabile e infungibile per la conservazione del diritto sostantivo; viceversa, quando a favore del titolare del diritto l'ordinamento prevede mezzi alternativi , anche stragiudiziali, idonei a impedire la decadenza o a interrompere la prescrizione, l'atto introduttivo del giudizio esplica, sul piano sostanziale, gli stessi effetti di tali mezzi alternativi, senza immutare, quindi, il carattere (del pari sostanziale) del termine, in altre parole, l'assenza di mezzi di tutela sostitutivi della domanda giudiziaria determina un necessario collegamento, relativamente alla limitazione temporale dell'esercizio del diritto potestativo, tra piano sostanziale e piano processuale, con la conseguenza che la stessa iniziativa giudiziaria non può non essere considerata atto processuale compreso nella previsione della legge n. 742/1969.
B) Non di ogni termine siffatto dovrà disporsi la sospensione ex art. 1 legge n. 742/1969, ma solo di quelli relativi alla proposizione dell'azione o che comunque incidano, anche indirettamente, sul diritto di agire in giudizio. Ed anzi, anche all'interno di tale categoria, vi sono casi in cui la previsione della sospensione feriale rientra nell'ambito della discrezionalità del legislatore, perché non appare collegata alla salvaguardia dei principi costituzionali in tema di tutela giurisdizionale, tale collegamento sussistendo solo quando la brevità del termine, considerata in relazione alla durata del periodo feriale, possa influire negativamente sull'esercizio del diritto di agire in giudizio, ovverosia pregiudicare il diritto di azione. Nell'area dell'art. 1 legge citata sono riconducibili esclusivamente i termini a rilevanza processuale che per la loro particolare brevità, in relazione alla vicinanza o al decorso del periodo feriale, ne avrebbero nocumento quanto alla tutelabilità della situazione sostanziale.
C) Deve trattarsi di termine previsto a pena di decadenza (di solito per la impugnazione di un atto negoziale); la Qualificazione di termine breve, quindi, coincide tendenzialmente con quella di termine di decadenza, che tale è per sua natura. Conseguentemente, per quanto concerne i termini di prescrizione - termini, di norma, di lunga durata e non aventi rilevanza processuale nel senso sopra specificato - non v'è ragione di modificare il loro corso normale e alterare o turbare i rapporti giuridici ai quali si riferiscono.
Alla luce di tali principi, il termine quinquennale per proporre l'azione revocatoria ex art. 67 l.fall. non può essere assoggettato alla sospensione prevista dall'art. 1 legge n. 742/1969.
Benvero, a favore del curatore, titolare del relativo diritto potestativo, l'ordinamento non prevede alternativi mezzi di tutela, anche stragiudiziali, idonei a interrompere la prescrizione, rispetto all'atto introduttivo del giudizio. Secondo l'ormai costante indirizzo di questa Corte, con riguardo all'azione revocatoria fallimentare, la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento (né nascente all'atto della dichiarazione dello stesso) e indipendentemente dall'esercizio dell'azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all'esercizio dell'azione revocatoria, rispetto al quale non è configurabile l'interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (Cass. sez. un., n. 5443/1996, nonché Cass. nn. 8086/1996, 58/2003, 3379/2007). In tali ipotesi, l'interruzione può derivare soltanto dalla proposizione della domanda giudiziale, e cioè dalla notificazione dell'atto introduttivo del giudizio secondo la previsione di cui all'art. 2943, primo comma, c.c. In diversi termini, il credito della massa dei creditori fallimentari verso l'accipiens - per la restituzione della semina a questi versata nel periodo sospetto, in pagamento di un debito liquido ed esigibile, dall'imprenditore poi fallito - nasce solo per effetto della sentenza, di natura costitutiva, che abbia pronunciato la revoca del pagamento stesso; ne consegue che la prescrizione del diritto alla revoca ed alla restituzione dell'indicato pagamento non può essere interrotta attraverso un semplice atto di costituzione in mora, occorrendo, invece, all'indicato fine, la proposizione della domanda giudiziale di revoca, in quanto l'effetto interruttivo dell'atto di costituzione in mora è configurabile solo quando si faccia valere un diritto corrispondente a un'obbligazione già sorta, non un diritto condizionato all'esperimento di un'azione costitutiva. In relazione al diritto potestativo, al contrario di quanto avviene per il diritto di credito, la domanda giudiziale costituisce, infatti, l'unico strumento per realizzare l'interesse protetto dall'ordinamento e quindi per esercitare il diritto stesso; l'assenza di altri mezzi di tutela implica, dunque, che la limitazione temporale del diritto, determinata sul piano sostanziale dalle norme relative alla prescrizione, debba operare anche sul piano processuale, con uno stretto collegamento tra diritto azionabile e domanda giudiziale.
Tuttavia, il termine in parola, pur a rilevanza processale, è termine di prescrizione e non di decadenza e, come bene osservato dal giudice a quo, decisamente congruo per avvalersi della difesa tecnica necessaria per la proposizione dell'azione giudiziale, non essendo neanche concepibile che questa possa rimanere pregiudicata dal periodo di riposo assicurato ad avvocati e procuratori legali dalla legge n. 742/1969.
È, invece, fondata la seconda censura, anche se per ragioni di diritto in parte diverse da quelle prospettate dalla amministrazione fallimentare, ma rilevabili d'ufficio da questa Corte di legittimità nella indiscussa intangibilità del relativo collante fattuale.
L'affermazione secondo cui la domanda giudiziale di revocatoria fallimentare si configura quale atto di costituzione in mora e, come tale, di natura recettizia, con conseguente inapplicabilità dei principi sanciti dalla Corte costituzionale in tema di perfezionamento del procedimento notificatorio, si basa su una non corretta interpretazione della normativa concernente la interruzione della prescrizione, con riferimento alla categoria dei diritti potestativi, nel cui ambito pacificamente si colloca il diritto del curatore di far accertare la inefficacia, rispetto alla massa, di un atto pregiudizievole posto in essere dal fallito nel periodo sospetto.
Ed invero, il titolare di un diritto potestativo è in grado di realizzare e soddisfare pienamente tale suo diritto con la sua sola attività, senza che occorra un qualsiasi comportamento collaborativo del soggetto passivo, il quale si trova in una situazione di mera soggezione e non già di obbligo, si da rendere inconcepibile un qualsiasi atto di intimazione o di messa in mora a lui rivolto e necessariamente recettizio. Tutto ciò induce a escludere la possibilità di atti interruttivi, ex art. 2943 c.c., della prescrizione di un diritto potestativo all'infuori della domanda giudiziale. La costituzione in mora, infatti, rappresenta un atto interruttivo della prescrizione solo per i diritti cui corrisponde un obbligo di prestazione della controparte e non per i diritti potestativi, ai quali si contrappone, in capo al soggetto passivo, solo una posizione di mera soggezione all'iniziativa altrui. (Nel senso della non applicabilità di atti interruttivi della prescrizione, riconducibili alla previsione di cui al quarto comma dell'art. 2943 c.c., ai cosiddetti diritti potestativi, vedi, tra le tante, Cass. nn. 500/1964, 2546/1969, 3713/1971, 2414/1976, 402/1984, 6099/1993).
Ora, nella categoria dei diritti cosiddetti potestativi rientra, come detto, il diritto del curatore di far revocare un atto pregiudizievole compiuto dal debitore nel biennio anteriore alla di lui dichiarazione di fallimento. Per vero, il credito della massa dei creditori fallimentari verso l'accipiens nasce solo per effetto della sentenza, di natura costitutiva, che abbia pronunciato la revoca del pagamento stesso; l'azione revocatoria fallimentare tende, cioè, alla pronuncia di natura costitutiva (non di nullità ma) di inefficacia, nei confronti della massa dei creditori, di un atto validamente compiuto dal debitore poi fallito; la posizione vantata dal creditore configura un diritto potestativo all'esercizio dell'azione, relativamente al quale non corrisponde l'obbligo di un soggetto tenuto a un comportamento, ma una posizione di mera soggezione all'iniziativa del curatore, sicché non è configurabile l'esistenza di un atto interruttivo del decorso della prescrizione diverso dalla domanda giudiziale (Cass. un. 58/2003, 8086/1996, 6497/1996, 5443/1996, 12091/1992, 3297/1988, 6622/1983). L'interruzione della prescrizione dell'azione revocatoria fallimentare non può, quindi, essere compiuta mediante un atto stragiudiziale di costituzione in mora ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 2943 c.c., necessariamente di natura recettizia.
Erra, quindi, la corte distrettuale nell'attribuire alla domanda giudiziale di revocatoria fallimentare valenza di atto di costituzione in mora, come tale di natura recettizia, e a condizionarne conseguentemente gli effetti, dal punto di vista del rispetto del termine prescrizionale, alla avvenuta ricezione della relativa notifica da parte del destinatario.
Al contrario, la domanda giudiziale è essa stessa manifestazione del diritto potestativo di chiedere la inefficacia relativa dell'atto pregiudizievole nei confronti dei creditori concorsuali. E l'effetto interuttivo della prescrizione si produce (solo) se la domanda medesima sia stata ritualmente notificata alla persona rispetto alla quale se ne vuole impedire il compimento. Ne consegue, sulla scia dei principi affermati dal giudice delle leggi (sentenze nn. 477 del 2002, 28/2004, ordinanze nn. 97, 132 e 153 del 2004), che il predetto effetto si produce quando la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio sia da considerarsi perfezionata e non già solo nel momento in cui l'atto notificando entri nella sfera personale di percezione del destinatario, in capo al quale non preesiste alcuna posizione soggettiva passiva nei confronti della curatela ovverosia alcun "obbligo" attraverso il cui adempimento si pervenga alla soddisfazione dell'interesse alla base del diritto fatto valere. Ovviamente, la ritualità della notificazione sotto quest'ultimo profilo, cioè la ricezione del plico da parte del destinatario, deve essere provata, ma ciò non toglie che essa si perfeziona con la consegna dell'atto notificando all'ufficiale giudiziario.
In altri termini, in tema di diritti potestativi, e quindi di diritto alla revocatoria fallimentare, la interruzione della relativa prescrizione si verifica solo nel momento in cui può dirsi avvenuta la notificazione della domanda giudiziale. In proposito, risulta ormai presente nell'ordinamento processuale civile, fra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale il momento in cui la notifica - relativamente alla funzione che, come atto della sequenza del processo, è destinato a svolgere - si deve considerare perfezionata per il notificante va distinto da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario e individuato, nelle notificazioni effettuate a mezzo dell'ufficiale giudiziario, nel momento della consegna dell'atto allo stesso ufficiale giudiziario.
Nella specie, erratamente la corte sarda ha ritenuto non conducente, per il caso di specie, la sentenza della Corte costituzionale invocata dall'amministrazione fallimentare con il secondo mezzo.
La sentenza va, quindi, cassata in relazione alla censura accolta e la causa rinviata alla stessa corte distrettuale, ma in diversa composizione, la quale la riesaminerà, ritenendo tempestiva l'azione revocatoria siccome proposta dalla curatela.
Allo stesso giudice appare opportuno demandare la regolazione delle spese della presente fase di legittimità.

PQM
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Cagliari, in diversa composizione.

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