La responsabilità dell'amministratore per "mala gestio"

Il curatore del fallimento, quando agisce ai fini della reintegrazione del patrimonio del fallito, esercita un'azione di massa e svolge un'attività distinta ed autonoma rispetto a quella che avrebbe potuto svolgere il fallito stesso, ponendosi perciò necessariamente nella posizione di terzo. Allorché egli eserciti l'azione di responsabilità contro gli amministratori della società fallita (art. 146, secondo comma del r.d. 16 marzo 1942, n. 267), secondo le norme degli artt. 2392 e 2393 del cod. civ., il contenuto delle azioni contemplate dai detti articoli diventa inscindibile, onde è irrilevante la questione relativa all'asserita conformità dell'operato (anche se illegittimo) dell'amministratore della società fallita alla volontà espressa dai soci del tempo, non essendo tale volontà opponibile al curatore. (Corte di Cassazione Sezione 1 Civile, Sentenza del 23 giugno 2008, n. 17033)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo - Presidente

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo - Consigliere

Dott. FIORETTI Francesco Maria - Consigliere

Dott. BERNABAI Reato - Consigliere

Dott. PANZANI Luciano - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

TE. An., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Parioli 47, presso l'avv. CORTI Pio, che lo rappresenta e difende con l'avv. Alessandro Tedeschi del foro di Varese, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

FALLIMENTO VI. DI. MO. s.p.a., in persona del curatore Dott. Bi. Di., elettivamente domiciliato in Roma, Viale dell'Universita' 27, presso l'avv. TEDESCHI Dario, che lo rappresenta e difende con l'avv. Guido Piccione del foro di Treviso, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano n. 563/03 del 25.2.2003;

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 6/5/08 dal Relatore Cons. Dott. Luciano Panzani;

Udito l'avv. Pio Corti per il ricorrente, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso;

Udito l'avv. Dario Tedeschi per il controricorrente, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Alberto Libertino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Fallimento della s.p.a. Vi. di. Mo. conveniva avanti al Tribunale di Milano Po. Pi. Pa., Po. Gi., Di. Gr. Di. Pi. Fe., Te. An., Se. Gi., Ci. Ga., De. Am. Ro., Mi. Pi., Da. Sa., Se. Gi., Ro. Ca., Di. Fr. Sa., Gi. Fr., Ro. Ro. En., Ro. Gi. e Ro. Re., tutti ex amministratori e sindaci della fallita societa' per sentirli condannare al risarcimento dei danni L.F., ex articolo 146 e articolo 2449 c.c., per i danni causati alla societa' ed ai creditori.

Per quanto qui ancora interessa la domanda era proposta anche nei confronti di Te. An., che era stato nominato amministratore con Delib. assemblea dei soci 30 aprile 1991, senza deleghe o conferimento di poteri, e che aveva concorso alla predisposizione del progetto di bilancio al 31.12.1990, a rettifica di altro progetto predisposto dal precedente consiglio di amministrazione dimissionario ritenuto dall'assemblea che aveva nominato il nuovo consiglio eccessivamente pessimistico. Tale nuovo progetto di bilancio era stato approvato dall'assemblea del 10.7.1991, nel corso della quale a seguito delle dimissioni della maggioranza dei consiglieri, il Te. era decaduto dalla carica senza essere poi eletto nel nuovo consiglio, nominato dalla medesima assemblea.

Il Tribunale respingeva la domanda di danni nei confronti del Te..

La Corte di appello di Milano con sentenza 25.2.2003 accoglieva l'appello della curatela e condannava il Te. al risarcimento dei danni, liquidati in euro 413.165,52, oltre rivalutazione monetaria a far tempo dal 10.7.1991 ed interessi legali sulla somma capitale rivalutata di anno in anno e sulla somma finale rivalutata dalla data della sentenza al saldo.

Osservava la Corte di merito in primo luogo che non era condivisibile la tesi del Tribunale secondo il quale nei confronti del Te. come degli altri amministratori con lui nominati non sarebbe stata esperibile l'azione di responsabilita' sociale perche' essi si sarebbero limitati a dare esecuzione al mandato ricevuto dall'assemblea. Poiche' in caso di fallimento le azioni di responsabilita' confluiscono in un'unica azione L.F., ex articolo 146, azione che cumula i presupposti e gli scopi dell'azione di responsabilita' sociale e di quella spettante ai creditori, era irrilevante la conformita' dell'operato degli amministratori alla volonta' dei soci, essendo quest'ultima inopponibile al curatore che, esercitando un'azione in favore della massa concorsuale, svolge un'attivita' diversa da quella che avrebbe potuto svolgere la societa'.

La Corte milanese procedeva quindi ad esaminare la c.d. operazione cecoslovacca posta in essere dai precedenti amministratori della societa' fallita, vale a dire la vendita di un ingente quantitativo di merce alla societa' Tr. ed ad altra societa', garantita dalla Ce. Ob. Ba. (C.O.B.) di (OMESSO) tramite avallo di promissory notes emesse da Tr. in pagamento della fornitura ricevuta. Era risultato che l'intera operazione era una truffa. Se era stato possibile fermare la merce' spedita alla societa' Ag., non cosi' era avvenuto con i tessuti inviati alla Tr. ed era risultato che l'avallo prestato da C.O.B. era invalido perche' delle due firme abbinate apposte sotto il timbro originale della banca praghese, una era risultata falsa e l'altra era stata apposta da un dipendente infedele.

I precedenti amministratori avevano redatto una bozza di bilancio in cui avevano determinato la perdita derivante dall'operazione in lire 9.563.000.000, calcolando un'ulteriore perdita al 31.3.1991 di lire 3.438.000.000.

Poiche' l'assemblea dei soci del 30.4.1991 si era rifiutata di approvare il progetto di bilancio ed aveva nominato il consiglio di amministrazione di cui faceva parte il Te. con l'incarico di predisporre un nuovo progetto di bilancio, il nuovo consiglio aveva ritenuto di ridurre l'accantonamento a svalutazione del credito verso Tr. nella misura del 40%, perche' l'avv. Ruggero Di Palma Castiglione, legale della societa' fallita, aveva prospettato un incasso parziale dell'importo in quanto C.O.B. sarebbe stata responsabile, quantomeno indirettamente ex articolo 2049 c.c., per l'operato del proprio funzionario infedele che aveva apposto la firma di avallo non disconosciuta, pur se tale firma da sola non era sufficiente ad impegnare la banca. L'accantonamento veniva inoltre diminuito di ulteriori 1.777 milioni in relazione al sequestro penale della merce venduta a Tr., nel frattempo eseguito presso i magazzini doganali, merce' che la societa' fallita avrebbe potuto rivendere.

Ancora il consiglio di amministrazione rivedeva il fondo di svalutazione del credito per recupero dell'indebito oggettivo verso la s.r.l. Co., intermediaria nell'operazione Tr., svalutazione che il precedente consiglio aveva quantificato nel 90%, cio' alla luce del sequestro penale dei titoli cambiari emessi da Co. ed accettati dalla societa' fallita.

Ulteriori ritocchi riguardavano il fondo svalutazione degli effetti ricevuti da Fa. per il valore di lire 800 milioni, posto che la societa' aveva onorato una parte di tali titoli. Anche il fondo imposte per l'esercizio 1984 veniva rideterminato nella misura di 100 milioni.

Infine sulla scorta di una perizia del prof. Gu.Lu. in ordine al valore del marchio Pr., il nuovo consiglio aveva ritenuto ingiustificato l'ammortamento di lire 1.400 milioni dei marchi della societa' proposto dai precedenti amministratori.

A fronte di tali interventi, osservava la Corte di appello sulla scorta della c.t.u. esperita che la perdita complessiva dell'esercizio 1990 era stata di lire 9.563.000.000, di cui soltanto lire 4.292.000.000 erano riferibili all'operazione Cecoslovacchia. Il resto era imputabile alla gestione corrente. Da cio' derivava una situazione reddituale deficitaria e l'incapacita' del marchio Pr. di contribuire proficuamente al risultato aziendale. Dalla bozza di bilancio al 31.12.1990 redatta dai primi amministratori risultava la perdita gia' detta di 9.563.000.000, ma quelli amministratori avevano ritenuto di dover redigere al 31.3.1991 una ulteriore situazione patrimoniale ai sensi dell'articolo 2446 c.c., che evidenziava un'ulteriore perdita di lire 3.438.000.000=, con conseguente perdita del capitale sociale oltre i limiti del terzo. Secondo il collegio sindacale peraltro le perdite erano maggiori e quindi superavano l'ammontare del capitale sociale e delle riserve.

Aveva osservato il c.t.u. che la situazione patrimoniale al 31.3.1991 era irragionevolmente ottimistica perche' la perdita doveva essere aumentata di lire 1.420.000.000 perche' scontava il fatto che i crediti verso la s.r.l. Co. erano stati considerati irrecuperabili soltanto in parte, mentre in realta' essi dovevano essere trattati tutti nello stesso modo.

La societa' aveva dunque perso alla data del 31.3.1991 l'intero capitale sociale.

A fronte di tali dati le diverse valutazioni adottate dal nuovo consiglio di amministrazione, di cui faceva parte il Te., erano ampiamente censurabili, tanto da comportare responsabilita' per aver omesso di presentare istanza di fallimento L.F., ex articolo 217, n. 4 e articolo 224, e per aver compiuto nuove operazioni in violazione dell'articolo 2449 c.c..

La rivalutazione del credito verso Tr. non era giustificata da fatti nuovi, ma soltanto dal parere espresso dall'avv. Di Palma Castiglione senza alcun dato concreto. Si era fatto riferimento soltanto alla normativa cambiaria ed al fatto che la banca cecoslovacca non si poteva sottrarre ai suoi oggettivi impegni, senza aggiungere nulla di piu' preciso. Non era pertanto condivisibile la tesi del Tribunale secondo il quale la normativa in vigore all'epoca (articolo 2425 c.c., n. 6) consentisse ampia discrezionalita' nella valutazione dei crediti e gli amministratori si erano trovati di fronte a fatti eccezionali cui erano seguiti eventi tali da permettere una riduzione della perdita. L'articolo 2425 c.c., n. 6, faceva riferimento alla valutazione dei crediti secondo il valore di realizzo e dunque occorrevano fatti concreti per procedere ad una diversa valutazione rispetto a quella operata dal precedente consiglio di amministrazione.

Anche la valutazione della merce sottoposta a sequestro penale in lire 1.770.000.000, in misura cioe' pari al costo di produzione, non era giustificata, posto che i precedenti amministratori avevano svalutato al 50% del costo di produzione la merce destinata alla societa' cecoslovacca Ag., non spedita.

Ingiustificato era lo storno dell'ammortamento del marchio Pr. per lire 1.400.000.000 essendo l'ammortamento un mezzo per la distribuzione tra piu' esercizi di un costo pluriennale e non uno strumento di attribuzione di un valore ad un bene. Non solo il residuo valore contabile del marchio, pari a lire 4.200.000.000, ed i costi di pubblicita' gia' capitalizzati in misura di lire 1.000.000.000, andavano svalutati non rispondendo a criteri di ragionevolezza mantenere inalterato l'ammortamento a quote costanti a fronte dell'insuccesso della fusione tra la societa' fallita e la societa' Pi., che avrebbe dovuto fruttare sinergie e risultati positivi, proprio tramite il marchio Pr..

Le operazioni poste in essere dagli amministratori subentrati il 30.4.1991 si erano concretate pertanto in nuove operazioni vietate ai sensi dell'articolo 2449 c.c., tenuto conto che alla suddetta data doveva ritenersi perso il capitale sociale.

Venendo specificamente alle responsabilita' del Te. la Corte di appello osservava che questi aveva rivestito la carica di componente del consiglio di amministrazione dal 30.4.1991 al 10 luglio successivo. Per lui valevano le considerazioni gia' svolte in ordine all'arbitrarieta' ed illegittimita' delle rettifiche di bilancio che avevano consentito l'occultamento delle perdite. Il Te. aveva avuto tutto il tempo necessario per esaminare la precedente relazione del collegio sindacale e dunque non sussistevano dubbi sulla sua colpa per aver consentito che venissero poste in essere le nuove operazioni.

Il danno da lui causato poteva essere determinato, tenuto conto della minor durata in carica rispetto agli altri amministratori, non essendo stato confermato dall'assemblea del 10.7.1991, in via equitativa in lire 800.000.000, pari ad euro 413.165,52.

Avverso la sentenza ricorre per cassazione il Te. articolando quattro motivi. Resiste con controricorso il Fallimento s.p.a. Vi. di. Mo.. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell'articolo 2393 c.c., con riferimento all'azione esperibile dal curatore L.F., ex articolo 146.

Osserva che la Corte d'appello ha ritenuto esperibile nei confronti dell'amministratore sia l'azione sociale di responsabilita' ex articolo 2393 c.c., sia l'azione spettante ai creditori ex articolo 2394 c.c., perche' cumulate dalla L.F., articolo 146, in capo al curatore. Il Tribunale aveva ritenuto che l'azione ex articolo 2393 c.c., fosse preclusa perche' il consiglio di amministrazione nel rettificare il progetto di bilancio al 31.12.1990 aveva agito su mandato dell'assemblea, che in seguito aveva approvato il bilancio. Il consenso espresso dall'assemblea escluderebbe la responsabilita' degli amministratori.

Dall'esperibilita' della sola azione di responsabilita' spettante ai creditori deriverebbe che, stante il carattere extracontrattuale di tale azione, l'onere della prova della colpa del Te. ricadrebbe sulla curatela.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell'articolo 2394 c.c., nonche' difetto e contraddittorieta' della motivazione.

La curatela avrebbe dovuto offrirei la prova della colpa del Te. con particolare riferimento alla valutazione del credito verso la societa' cecoslovacca Tr., colpa da valutarsi con minor severita' ai sensi dell'articolo 1710 c.c., richiamato dall'articolo 2392 c.c., perche' il Te. svolgeva le sue funzioni di consigliere a titolo gratuito.

Ancora la curatela avrebbe dovuto provare che il Te. nel periodo in cui era stato in carica aveva effettuato nuove operazioni vietate ai sensi dell'articolo 2449 c.c..

La Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere che nel corso del periodo in cui i nuovi amministratori erano stati in carica non fossero intervenuti fatti nuovi idonei a giustificare la diversa valutazione delle poste di bilancio. In primo luogo la banca cecoslovacca C.O.B. aveva disconosciuto soltanto una delle due firme di avallo sulle promissory notes, si' che si poteva configurare una responsabilita', quantomeno indiretta ex articolo 2049 c.c., della banca per l'operato del proprio funzionario infedele.

Un altro rilevante fatto nuovo era costituito dal sequestro penale presso i magazzini doganali della merce venduta a Tr. a nulla rilevando che i successivi amministratori non fossero riusciti a collocare adeguatamente sul mercato la merce. Altrettanto doveva dirsi per la rivalutazione del credito per indebito oggettivo nei confronti della s.r.l.. Co., intermediaria nell'operazione Tr., alla luce del sequestro penale dei titoli emessi da Co. ed accettati dalla societa' fallita.

La Corte d'appello non avrebbe inoltre tenuto conto delle difficolta' di effettuare siffatte valutazioni a caldo, dopo la truffa subita dalla societa' fallita.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione dell'articolo 2449 c.c..

La Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere che ogni atto di gestione successivo al verificarsi di una causa di scioglimento della societa' possa essere considerato come nuova operazione vietata. Le nuove operazioni sono soltanto quelle non finalizzate alla liquidazione della societa', preordinate al conseguimento di nuovi utili. La Corte d'appello avrebbe dovuto pertanto porre a carico del Te. non la c.d. perdita incrementale, ma le nuove operazioni effettivamente poste in essere.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione dell'articolo 1223 c.c.. Al Te. e' stata addebitata una quota parte, calcolata in via equitativa, della perdita incrementale rilevata dal c.t.u. successivamente al 31.3.1991. A carico del Te. sono state poste pertanto non le nuove operazioni, ma le perdite successive alla data indicata. Al contrario sarebbe stato necessario considerare i riflessi delle nuove operazioni e le perdite che si sarebbero comunque verificate, anche se la societa' fosse stata posta in liquidazione. Ne risulta violato l'articolo 1223 c.c., che pone a carico del danneggiante soltanto il danno che sia conseguenza immediata e diretta dell'illecito.

E la perdita incrementale e' stata calcolata con riferimento all'intero periodo in cui e' proseguita l'attivita' sociale, non al piu' breve periodo in cui il Te. ha svolto le funzioni di amministratore. Nella misura in cui il danno successivo viene imputato al Te. per aver posto le premesse perche' la societa' potesse continuare l'attivita' anche dopo la scadenza del suo mandato, sarebbe violato nuovamente l'articolo 1223 c.c., per aver posto a carico dell'ex amministratore un danno che non sarebbe conseguenza immediata e diretta della sua condotta.

2. Il primo motivo di ricorso e' inammissibile. Va premesso che la censura mossa dal ricorrente ha ad oggetto la violazione dell'articolo 2393 c.c., in riferimento alla possibilita' per il curatore fallimentare di cumulare tale azione con quella ex articolo 2394 c.c., ai sensi della L.F., articolo 146. La Corte non si sarebbe avveduta che il Te. nel modificare il progetto di bilancio redatto dai precedenti amministratori, progetto poi approvato dalla successiva assemblea, avrebbe dato attuazione al mandato ricevuto dai soci nell'assemblea del 1.4.1991, con la conseguenza che nei suoi confronti non sarebbe stata esperibile l'azione sociale di responsabilita', ma soltanto l'azione dei creditori, con un differente regime probatorio in ordine alla colpa, la cui sussistenza avrebbe dovuto essere dimostrata dal curatore trattandosi di responsabilita' extracontrattuale.

Con cio' il ricorrente ha indubbiamente mosso alla sentenza impugnata una censura di violazione di legge per non aver correttamente inteso la disciplina dell'azione di responsabilita' esperita dal curatore ai sensi degli articoli 146 e 2393 c.c.. Ne deriva che l'eccezione d'inammissibilita' svolta dalla curatela nel controricorso, che lamenta che la censura esulerebbe dallo schema tipico della denuncia di violazione di legge (negazione o fraintendimento di una norma astratta di legge o sua applicazione ad una fattispecie da essa non regolata), non ha fondamento.

Va invece sottolineato che la censura muove esclusivamente dal rilievo che, non essendo nella specie in tesi applicabile la disciplina dell'azione sociale di responsabilita', perche' preclusa dal fatto che il Te. avrebbe dato esecuzione al mandato ricevuto dall'assemblea, l'onere probatorio della sussistenza della colpa dell'ex amministratore sarebbe gravato sull'attore e dunque sulla curatela.

Poiche' peraltro la Corte d'appello ha ritenuto provata in concreto la colpa del Te. e non ha deciso la controversia in base al regime dell'onere della prova, per non aver il Te. provato di aver agito con adeguata diligenza ai sensi dell'articolo 2392 c.c., difetta l'interesse del ricorrente a dolersi della statuizione della Corte di merito, interesse che deve essere, come sempre l'interesse ad impugnare, attuale e concreto.

Va peraltro aggiunto che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato piu' volte che "il curatore del fallimento, quando agisce ai fini della reintegrazione del patrimonio del fallito, esercita un'azione di massa e svolge un'attivita' distinta ed autonoma rispetto a quella che avrebbe potuto svolgere il fallito stesso, ponendosi percio' necessariamente nella posizione di terzo. Quando egli esercita l'azione di responsabilita' contro gli amministratori della societa' fallita (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articolo 146, comma 2), secondo le norme degli articoli 2392 e 2393 c.c., il contenuto delle azioni contemplate dai detti articoli diventa inscindibile, onde e' irrilevante la questione relativa all'asserita conformita' dello operato (anche se illegittimo) dell'amministratore della societa' fallita alla volonta' espressa dai soci del tempo, non essendo tale volonta' opponibile al curatore" (Cass. 21.3.1974, n. 790; Cass. 10.6.1981, n. 3755; Cass. 6.12.2000, n. 15487).

3. Il secondo motivo e' infondato.

Nell'affermare che la Corte d'appello avrebbe trascurato che la curatela non aveva offerto la prova della colpa del Te. nell'effettuare la valutazione delle poste di bilancio relative al credito verso la societa' cecoslovacca Tr. ed al credito verso la s.r.l. Co., il ricorrente trascura l'ampia motivazione che la Corte milanese ha dato della negligenza, trascuratezza ed imprudenza con cui furono effettuate le riprese dei crediti in parola a fronte della svalutazione dei medesimi crediti compiute dai precedenti amministratori.

La Corte ha in particolare osservato che la minor svalutazione del credito verso Tr. operata dai nuovi amministratori non si fondava su fatti concreti, ma su dichiarazioni generiche quali la citazione del parere espresso dall'avv. Di Palma Castiglione senza riportare alcun dato preciso. Si era fatto riferimento soltanto alla normativa cambiaria ed al fatto che la banca cecoslovacca non si poteva sottrarre ai suoi oggettivi impegni, senza aggiungere nulla di piu'.

Anche la valutazione della merce sottoposta a sequestro penale in lire 1.770.000.000, in misura cioe' pari al costo di produzione, non era giustificata, posto che i precedenti amministratori avevano svalutato al 50% del costo di produzione la merce destinata alla societa' cecoslovacca Ag., non spedita.

Ingiustificato era lo storno dell'ammortamento del marchio Pr. per lire 1.400.000.000 essendo l'ammortamento un mezzo per la distribuzione tra piu' esercizi di un costo pluriennale e non uno strumento di attribuzione di un valore ad un bene. Non solo il residuo valore contabile del marchio, pari a lire 4.200.000.000, ed i costi di pubblicita' gia' capitalizzati in misura di lire 1.000.000.000, andavano svalutati non rispondendo a criteri, di ragionevolezza mantenere inalterato l'ammortamento a quote costanti a fronte dell'insuccesso della fusione tra la societa' fallita e la societa' Pi., che avrebbe dovuto fruttare sinergie e risultati positivi, proprio tramite il marchio Pr..

Le conclusioni cui e' pervenuta la Corte di appello non sono illogiche, come pretende il ricorrente, ma hanno fatto puntuale applicazione della disciplina di legge.

L'articolo 2425 c.c., n. 6 (vecchio testo) nell'affermare che i crediti debbono essere valutati secondo il presumibile valore di realizzo non attribuisce agli amministratori una discrezionalita' assoluta, ma implica una valutazione fondata sulla situazione concreta secondo principi di razionalita'.

Ed allora correttamente la Corte d'appello ha sottolineato che il recupero del credito verso Tr. per un importo pari a ben lire 5.567.000.000, non si fondava su una seria indagine sull'effettiva esperibilita' di un'azione legale nei confronti della banca cecoslovacca C.O.B., ma su un parere legale di cui non si citava il contenuto; che si affermava che la banca non avrebbe potuto sottrarsi completamente all'obbligo alla luce della normativa cambiaria senza ulteriormente approfondire la questione e senza neppure indicare quanto ora affermato dal ricorrente e cioe' che la banca avrebbe potuto essere chiamata a rispondere dell'operato del dipendente infedele che aveva apposto la firma autentica sui titoli (la seconda firma era peraltro apocrifa) ai sensi dell'articolo 2049 c.c..

Ancora nel ritenere che il credito verso Tr. potesse essere in parte ricuperato grazie al sequestro penale della merce presso i magazzini doganali, gli amministratori non consideravano che, come ha rilevato la Corte d'appello, i precedenti amministratori avevano svalutato del 50% l'identica merce destinata alla societa' cecoslovacca Ag., che non era stata spedita a seguito della scoperta della truffa, segno evidente che la disponibilita' della merce, peraltro non immediata perdurando il sequestro penale, non era sufficiente per consentire di alienarla proficuamente sul mercato.

Va poi aggiunto che il ricorrente non censura neppure i rilievi della Corte d'appello sulla storno dell'ammortamento del marchio Pr. e sulla necessita' di effettuare ulteriori abbattimenti della posta relativa ai marchi, in ragione del cattivo andamento della societa'.

La Corte d'appello ha anche considerato la circostanza che, come rileva il ricorrente, le valutazioni delle poste di bilancio erano state prese a caldo, dopo che la societa' aveva subito una grave truffa, in una situazione particolarmente difficile. Ed ha rilevato che il credito verso Tr., pressoche' azzerato dal precedente consiglio di amministrazione, non poteva essere rivalutato in misura cosi' ingente in base ad argomentazioni astratte ed inconsistenti. Diverso sarebbe stato il discorso se la rivalutazione fosse stata fatta in base a nuovi fatti concreti, dai quali si potesse trarre una ragionevole attesa di ottenere un pagamento dal debitore o dai garanti, anche a titolo di danni. La Corte d'appello ha peraltro accertato, con motivazione pienamente adeguata, che tali non erano la situazione e le motivazioni addotte dagli amministratori, tra cui il Te..

Per il resto le censure del ricorrente si traducono in una diversa valutazione in fatto delle risultanze processuali, come tale inammissibile in questa sede di legittimita'.

4. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi.

Il ricorrente si duole che nell'affermare la sua responsabilita' per le nuove operazioni intraprese, ai sensi dell'articolo 2449 c.c., la Corte d'appello abbia posto a suo carico non gia' il risultato delle nuove operazioni, ma tutta l'attivita' gestoria successiva alla perdita del capitale sociale ed al verificarsi della causa di scioglimento della societa', a far tempo dal 31.3.1991. Aggiunge che il danno posto a suo carico e' stato determinato in una quota parte della perdita incrementale accertata dal c.t.u. per il periodo successivo al verificarsi della causa di scioglimento, senza indagare se tale danno fosse riferibile a specifici atti di gestione a lui imputabili.

La censura e' fondata.

Questa Corte ha affermato che per "nuove operazioni" - le quali non possono essere intraprese dagli amministratori quando si sia verificato un fatto che determina lo scioglimento della societa' - s'intendono tutti quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessita' inerenti alla liquidazione delle attivita' sociali, vengono costituiti dagli amministratori, con assunzione di ulteriori vincoli per l'ente, e siano preordinati al conseguimento di nuovi utili (Cass. 16.2.2007, n. 3694; Cass. 28.1.1995, n. 1035; Cass. 10.9.1995, n. 9887). Ed ancora si e' detto, con maggior precisione, che l'articolo 2449 c.c., esprime sul piano normativo la coerente conseguenza del fatto che, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non puo' piu' considerarsi destinato, qual era in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, onde gli amministratori non possono piu' utilizzarlo a tal fine, ma sono abilitati a compiere soltanto quegli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando ad essi inibito il compimento di nuovi atti d'impresa suscettibili di porre a rischio il diritto dei creditori e degli stessi soci (Cass. 12.6.1997, n. 5275).

Nel vigore del vecchio testo dell'articolo 2449 c.c., risultavano, infatti, vietate tutte le nuove operazioni, da intendersi come tutti gli atti gestori diretti non a fini liquidatori e quindi alla trasformazione delle attivita' societarie in denaro destinato al soddisfacimento dei creditori e, nei limiti del residuo, dei soci, ma al conseguimento di fini diversi, essendo invece lecito il completamento di attivita' in corso destinate al miglior esito della liquidazione. Si e' discusso in dottrina se fosse pertanto lecita la prosecuzione dell'attivita' d'impresa nei limiti in cui essa potesse consentire la conservazione dell'avviamento e la miglior vendita dell'azienda sociale o se la norma dovesse essere oggetto di stretta interpretazione.

L'articolo 2449 c.c., vecchio testo stabilisce che gli amministratori che contravvengono al divieto di nuove operazioni, assumono responsabilita' illimitata e solidale per gli affari intrapresi. Si e' condivisibilmente osservato che quando il curatore esperisce l'azione di responsabilita' L.F., ex articolo 146, non puo' far valere la responsabilita' diretta degli amministratori per le nuove operazioni verso i creditori sociali, ma soltanto la violazione dell'obbligo su di essi gravante per legge nella misura in cui esso si e' tradotto in un danno per la societa' o per i creditori.

Questa Corte ha osservato che nel caso in cui l'azione di responsabilita' nei confronti degli amministratori di una societa' trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della societa' derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall'articolo 2447 cod. civ., non e' giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l'attivo ed il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l'intero passivo come frutto delle nuove operazioni intraprese dagli amministratori, ma dovendosi ascrivere lo stesso, almeno in parte, alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale (Cass. 23.7.2007, n. 16211).

Nel caso in esame la Corte d'appello ha posto a carico del Te., pro quota, la perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell'attivita', senza considerare se tale perdita fosse tutta conseguenza delle nuove operazioni poste in essere o se essa in parte si sarebbe ugualmente determinata, anche se la societa' fosse stata correttamente posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento.

La Corte di merito non ha pertanto accertato se il danno calcolato in questo modo fosse interamente: riferibile alle nuove operazioni poste in essere dal Te. e ne fosse conseguenza immediata e diretta.

La perdita incrementale maturata nel periodo successivo al 30 aprile 1991 ed, in parte, anche in epoca posteriore al 10 luglio 1991, data di cessazione del Te. dalla carica, non riflette soltanto le conseguenze delle nuove operazioni e neppure le conseguenze della sola attivita' gestoria riferibile al Te., perche', come detto, essa riguarda anche il periodo successivo alla cessazione del ricorrente dalla carica. Ne' puo' ritenersi che di cio' la Corte d'appello abbia tenuto conto attraverso la liquidazione equitativa del danno, perche' tale liquidazione equitativa e' consentita con riferimento alla quantificazione del danno, ma non con riguardo all'accertamento della sua sussistenza (cfr. da ultimo Cass. 7.6.2007, n. 13288).

Va infine sottolineato che neppure puo' ritenersi corretto il ragionamento secondo il quale la perdita incrementale verificatasi dopo il 10 luglio 1991 potrebbe essere posta a carico del ricorrente quale conseguenza immediata e diretta del non aver provveduto a porre in liquidazione la societa' essendosi verificata la perdita del capitale sociale.

Osta a tale conclusione, oltre alla circostanza gia' evidenziata che non tutta la perdita incrementale e' automaticamente riferibile al compimento di nuove operazioni, occorrendo in proposito uno specifico accertamento di fatto, l'ulteriore rilievo che, anche con riguardo al danno non riferibile al compimento di nuove operazioni, non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento della societa', puo' essere riferita alla prosecuzione dell'attivita', potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell'efficienza produttiva e dell'operativita' dell'impresa.

Ne deriva che il danno va dimostrato in concreto come conseguenza immediata e diretta dei fatti di mala gestio e non puo' essere determinato in via presuntiva con riferimento alla perdita di periodo, salvo che si possa dimostrare che quella perdita non si sarebbe verificata ove gli amministratori avessero correttamente operato.

La sentenza impugnata va pertanto cassata in parte qua e la causa va rinviata alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione, che pronuncera' anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo; accoglie il terzo ed il quarto; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione, anche per le spese.

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