Per gli atti delittuosi perpretati nei confronti di cittadini italiani in Iraq, il giudice italiano è giurisdizionalmente incompetente

L'uccisione e il ferimento di funzionari del Sismi operanti in Iraq costituisce delitto politico ai sensi dell'articolo 8 del Cp punibile a richiesta del ministro della Giustizia. Le forze armate operanti in territorio iracheno sono soggette alla propria legge nazionale secondo il principio della legge della bandiera. Di fronte ad atti delittuosi perpetrati da un soldato degli Stati Uniti nei confronti di cittadini italiani deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana. (Corte d'Assise Roma, Sezione 3 Penale,Sentenza del 3 gennaio 2008, n. 21)



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Fatto e diritto

Dai pochi atti che risultano depositati al fascicolo del dibattimento e soprattutto dal decreto che dispone il giudizio, è possibile e quindi doveroso ricostruire, sia pure succintamente, la vicenda che ha dato vita al presente processo.
La ricostruzione dei fatti, la loro collocazione territoriale e temporale, è indispensabile, anche per affrontare e risolvere l'assorbente questione preliminare, che attiene alla sussistenza o meno della giurisdizione italiana, su cui si è concentrata la decisione della Corte.
Il giorno 4 marzo 2005 Nicola Calipari e Andrea Carpani, entrambi funzionari del Sismi (Presidenza del Consiglio dei Ministri) e Giuliana Sgrena, giornalista, viaggiavano a bordo dell'autovettura Toyota Corolla (alla guida il Carpani.) in territorio irakeno, su una strada in direzione aeroporto di Bagdad. Alle ore 20.45, la vettura, mentre si immetteva nella Route Irish, venne investita da un fascio di luci e subito dopo da colpi di arma da fuoco, provenienti da un lato della strada, che ferirono mortalmente il Calipari. Costui, seduto sul sedile posteriore accanto alla Sgrena, avendo ravvisato il pericolo, le si pose davanti facendole da scudo con il proprio corpo. Sia la Sgrena che il Calipari riportarono lesioni.
L'azione di fuoco fu sprigionata da militari USA che avevano organizzato, su disposizione del comando superiore, un posto di blocco, non programmato in via permanente, ma, istituito quella sera, allo scopo di garantire il passaggio del convoglio nel quale, si doveva trovare l'ambasciatore Usa Negroponte.
Non si è mai contestato, in punta di fatto, che i colpi che attinsero le suddette vittime furono sparati dal soldato americano, l'odierno imputato Lozano Mario Luis, appartenente alla New York Armi National Guard, contingente militare Usa, che faceva parte della forza multinazionale, dislocato nel territorio irakeno.
Va ricordato infine che la presenza del Calipari e del Carpani in Iraq era collegata alla avvenuta esecuzione della liberazione della Sgrena, sequestrata il 4 febbraio 2005 e tenuta in ostaggio, fino a quel giorno, da un gruppo terrorista verosimilmente islamico.
Superfluo dire che l'episodio colpì e commosse il mondo intero e soprattutto il nostro paese che, con la scomparsa di Nicola Calipari, ha perso un alto servitore dello Stato.
La Procura della Repubblica presso il tribunale di Roma attivò immediatamente le indagini. Furono richieste le foto della vettura, effettuate dal personale militare italiano presente in loco, nonché l'acquisizione della stessa vettura, attivando il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che, con lettera del 9 marzo 2005, indirizzò alla nostra ambasciata in Iraq una nota verbale, con la quale si chiedeva di poter disporre dell'autovettura e degli altri eventuali oggetti rinvenuti nella stessa.
I rilievi furono valutati da una commissione congiunta italo-statunitense, i cui lavori si conclusero con due documenti distinti: uno di parte Usa e uno di parte Italiana.
Contemporaneamente la stessa Procura della Repubblica, con nota del 6 marzo 2005, sollecitò il Ministro della Giustizia a formulare richiesta di procedimento ex art. 10 c.p., avendo iscritto procedimento penale contro ignoti per i delitti di cui in rubrica. Nella nota si puntualizzava che le determinazioni del Ministro erano sollecitate ai sensi dell'art. 10 c.p. (delitto comune commesso da cittadino straniero in stato straniero ai danni di cittadini italiani).
Con nota in data 8 marzo 2005 il Ministro della Giustizia, fatto esplicito riferimento alla missiva testé richiamata, e, ribadendo l'esplicito riferimento all'applicazione dell'art. 10 c.p., formulò la specifica richiesta in tal senso.
Risulta poi che, a distanza di oltre un anno e precisamente in data 27 giugno 2006, il Direttore Generale della giustizia penale del Dipartimento degli Affari di Giustizia del Ministero inviò una nota al Procuratore della Repubblica, con la quale, premesso che si era appreso da notizie di stampa che l'Ufficio della Procura aveva attribuito natura politica ai fatti per cui è processo e, nel richiamare l'attenzione in ordine al fatto che il Ministro aveva avanzato richiesta di procedimento ex art. 10, si chiedeva di conoscere se «alla luce di eventuali nuovi elementi, rispetto a quelli già rappresentati a questo Dipartimento, codesto ufficio intende avanzare diversa richiesta».
Il Procuratore della Repubblica con successiva nota del 3 luglio indirizzata, allo stesso direttore generale, trasmise copia della richiesta di rinvio a giudizio dell'odierno imputato, già formulata in data 19 giugno 2006, specificando che il suo ufficio aveva ritenuto comunque assolta la condizione di procedibilità, per effetto della richiesta di procedimento formulata dal Ministro della Giustizia pro tempore l'8 marzo 2005. Si aggiungeva però nella stessa nota che «ove diversamente codesto Ministero dovesse ritenere che la precisazione della contestazione e l'identificazione del responsabile fondino una nuova, originaria possibilità di delibazione, ai fini della procedibilità, anche in relazione ai termini di cui all'art. 128 c.p.p., vorranno comunicarsi le determinazioni assunte».
Non risulta ulteriore scambio di corrispondenza sul punto tra Procura della Repubblica e Ministero della Giustizia.
Tuttavia con decreto che dispone il giudizio, il GUP, in accoglimento delle condivisibili e concordi prospettazioni del Pm e delle parti civili, qualificava il reato, per cui si era proceduto, come delitto oggettivamente politico, ai sensi dell'art. 8 del c.p. e, come tale, punibile, attesa la richiesta del Ministro della Giustizia, sia pure formulata ai sensi dell'art. 10 c.p. e a prescindere dalla presenza del Lozano nel territorio nazionale.
Va segnalato infine che in data 22 dicembre 2005 il Dipartimento di Stato Americano precisò che il caso doveva ritenersi chiuso, essendo state rispettate tutte le regole di ingaggio e non sussistendo giurisdizione sull'episodio da parte delle autorità giurisdizionali italiane.
Nel corso del dibattimento, limitato alla trattazione delle questioni preliminari, è stato disposto il rinnovo della citazione del responsabile civile, individuato nel Dipartimento di Stato Usa, che, nella risposta, ha ribadito quanto già precedentemente affermato, precisando peraltro che la eventuale e contestata legittimazione a stare in giudizio spetta al governo degli Stati Uniti e non al Dipartimento.
Per meglio puntualizzare tutta la vicenda non si può non far presente che l'operazione iniziale di occupazione del territorio irakeno, era stata posta in essere dalle forze armate degli Usa e del Regno Unito in regime di conflitto armato.
Gli altri Paesi, che aderirono successivamente alla Forza multinazionale, nel frattempo costituitasi, pur avendo assunto la veste di potenze occupanti, potevano operare sotto il comando unificato della Autorità della Coalizione (vedi risoluzione ONU 1511/03).
La partecipazione dell'Italia a questa operazione infatti era stata collocata nella nozione di non belligeranza dal Consiglio Supremo di Difesa nella riunione del 19/3/2003.
La successiva risoluzione 1546 del 2004, sanzionò la presenza in Iraq delle Forze della coalizione ONU, con il consenso del Capo del Governo provvisorio irakeno appena costituitosi, mutando le finalità proprie, che non erano più quelle di occupazione, ma quelle di contribuire alla ricostruzione dell'Iraq e fornire aiuti umanitari.
Questo è il contesto in cui si inseriscono i fatti per cui è processo; un contesto qualificabile come conflitto armato inteso in senso lato, di presenza di forze multinazionali sotto l'egida dell'ONU per missioni umanitarie in uno stato sostanzialmente occupato; un contesto disciplinato, con riferimento alla sussistenza della giurisdizione, dalle varie fonti normative che si richiameranno e dalle risoluzioni ONU.
La dottrina è concorde nell'attribuire un significato ampio al concetto di conflitto armato, per la cui sussistenza è sufficiente la situazione di occupazione da parte di uno Stato del territorio di un altro Stato.
La Corte, attesa la estrema delicatezza e complessità di tutte le questioni preliminari, ne ha consentito la illustrazione contestuale, anche al fine di fornire un quadro, il più esauriente possibile, della situazione pre-processuale a tutti i suoi componenti.
Non superfluo appare puntualizzare che la assorbente pronuncia sul difetto della giurisdizione italiana, che può intervenire in ogni stato e grado del processo, comporta, come logicamente previsto dall'art. 20 c.p.p., la definizione del giudizio stesso e quindi la preclusione dell'esame di tutte le altre eccezioni.
Per altro verso il difetto di legittimazione dell'imputato a proporre la questione della giurisdizione, eccepito da una sola parte civile, appare superabile ove si consideri che lo stesso art. 20 prevede che detta declaratoria possa intervenire anche di ufficio.
La Corte invero, pur nel silenzio delle parti, avrebbe comunque esaminato detta questione che è assolutamente pregiudiziale e, posto che il nostro ordinamento non prevede un regolamento di giurisdizione demandabile alla Corte Suprema, se non nell'ipotesi di conflitto positivo o negativo tra due autorità giudiziarie che affermano o negano la propria giurisdizione, avrebbe comunque adottato la relativa decisione.
Resta pertanto fuori dal thema decidendum la questione relativa alla qualificazione giuridica del delitto contestato, che inciderebbe sulla sussistenza delle condizioni di procedibilità.
Prima di entrare nel vivo delle problematiche, la Corte intende affermare con forza che la pronuncia di difetto di giurisdizione non comporta alcuna abdicazione o rinuncia dello Stato italiano al proprio potere giurisdizionale, ma si inserisce, viceversa, nell'alveo del principio indefettibile di reciprocità e di rispetto della prassi internazionale, nonché dell'applicazione degli stessi principi, inseriti nei trattati internazionali cui l'Italia ha aderito nel contesto dell'art. 10 della Costituzione.
Detto articolo recita «l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute». Norma fondamentale questa che fa da guida anche nella decisione della presente questione, poiché coinvolge il problema dell'applicazione e del coordinamento delle norme internazionali a quelle interne.
Il costituente ha previsto un semplice rinvio alle norme internazionali e quindi anche consuetudinarie, che diventano così cogenti mediante un procedimento speciale (appunto di rinvio). Pertanto con detto procedimento di solito non vengono riformulate le norme di diritto internazionale, ma è l'ordine di esecuzione di un trattato, che di solito viene fatto con legge, che ratifica il trattato stesso non riformulando le norme ivi contenute.
Questo procedimento speciale di rinvio viene ritenuto, dalla prevalente dottrina, da preferire soprattutto per le norme internazionali self-executing direttamente applicabili come la consuetudine. Per le norme non self-executing, certamente meno frequenti, va seguito il procedimento ordinario che comporta un'attività integratrice da parte degli organi statuali.
Sulla diretta applicabilità delle norme consuetudinarie internazionali nel nostro ordinamento non sembrano sussistere dubbi, anche, secondo alcuni autori, nel caso in cui esse siano addirittura in contrasto con la Costituzione.
Non sarà inopportuno fare una breve premessa di carattere generale sui criteri astrattamente ipotizzabili, per determinare il campo di applicazione della legge penale nazionale nel contesto internazionale, per stabilire se l'adozione di uno, o più criteri enucleabili, sia compatibile con un sistema di prassi internazionale e se gli accordi possano discostarsi da detta prassi.
Essi sono fondamentalmente quattro.
Il primo può essere ancorato al principio della universalità o extraterritorialità assoluta, in base al quale la legge si applica dovunque, da chiunque e contro chiunque sia l'autore del fatto penalmente rilevante per lo Stato nazionale.
Il secondo è quello della territorialità, in forza del quale lo Stato, nel cui territorio è avvenuto il fatto delittuoso, ha il diritto di esercitare la propria giurisdizione.
Il terzo attribuisce la giurisdizione allo Stato cui appartiene l'autore del fatto (giurisdizione attiva).
Il quarto infine attribuisce la stessa giurisdizione allo Stato cui appartiene la vittima (giurisdizione passiva).
Il nostro legislatore sembra essersi ispirato, in via prioritaria, al principio dell'universalità, con tutti i contemperamenti previsti dalle norme che vanno dall'art. 7 all'art. 10 del c.p.
Gli Usa invece (il riferimento non può non essere fatto) sono rigorosamente agganciati al criterio della territorialità. La Costituzione americana infatti all'art. 3 prescrive che ogni autore sia processato nello stato di commissione del fatto.
È difficile immaginare però che uno Stato possa concentrare la scelta dei quattro criteri in uno solo, abbandonando gli altri. D'altra parte la previsione e l'applicazione di uno dei criteri non possono prescindere dal rispetto delle regole di diritto internazionale, siano esse consuetudinarie o positive esistenti in materia.
Certamente tutti i criteri elencati sono riconosciuti e recepiti dal diritto internazionale.
In particolare quello dell'universalità sembra potersi applicare soltanto a fatti che offendono beni di valore umano ed universale. Sugli altri tre può dirsi che le norme internazionali non prevedono una applicazione prioritaria di uno rispetto agli altri, anche se quello della giurisdizione passiva, benché non vietato, è visto con un certo disfavore. Non potrebbe essere diversamente, atteso che, la previsione di perseguire stranieri operanti in territorio straniero, è stata sempre ritenuta fonte di possibili conflitti e turbativa dell'ordinamento internazionale.
Per non dilungarsi, si può concludere sul punto, affermando che, pur non essendo enucleabile alcuna gerarchia tra i suddetti criteri, quello della giurisdizione passiva certamente non è collocabile tra i primi.
È vero che negli ultimi tempi si è affacciata una tendenza, volta ad attribuire un più concreto riconoscimento a detto criterio, soprattutto, se non esclusivamente, con riferimento ai crimini di terrorismo o di grossa criminalità organizzata, che superi, nello specifico, quello della territorialità, che appare il più diretto ed immediato. È vero altresì, che si immagina «una dimensione assiologica degli interessi da proteggere» (espressione ripetuta nel corso del dibattimento e attribuita alla più recente dottrina). Detta dimensione però viene invocata proprio perché, in assenza di un criterio prioritario generale, si auspica la creazione di un diritto penale uniforme, un diritto mondiale che disciplini e preveda una gerarchia di detti criteri, all'interno dei quali quello della passività assuma un ruolo più incisivo, abbia un più concreto riconoscimento.
L'elaborazione e l'evoluzione della dottrina internazionale è in sostanza ancorata a questa posizione che finora non sembra aver avuto sbocchi apprezzabili. In attesa che questo iter faccia il suo corso e, proprio perché emergono queste nuove esigenze, in cui ogni sovranità nazionale tenti di estendere la propria giurisdizione nei confronti di un altro Stato, è necessario sempre più far ricorso alla contrattazione, cosa che in effetti avviene, soprattutto nello speciale contesto in cui si collocano i fatti per cui è processo.
Il diritto internazionale, che è la base di legittimazione delle norme sulla giurisdizione, deve continuare a fondarsi sul rispetto di tutti i poteri statuali della Comunità internazionale. Il principio della territorialità quindi, che rappresenta l'essenza stessa del potere statuale in rapporto a tutti gli altri, e, nel rispetto del principio della reciprocità, può essere sempre più condizionato dalle norme internazionali che autorizzino uno Stato ad esercitare la giurisdizione oltre i propri confini. È lecito quindi ipotizzare ed auspicare un maggior impulso alle Convenzioni e ai trattati.
Ma se, come si è detto, non esiste alcun rapporto gerarchico tra i criteri applicabili in via generale, viceversa sul terreno, sul versante specifico che qui ci occupa, riconducibile innanzitutto all'intero contesto militare, cioè a quello dei conflitti armati e, soprattutto, a quello della presenza di forze multinazionali in territorio occupato, detto rapporto è esistito ed esiste, anzi la opzione di un criterio avviene in via esclusiva.
Vi è infatti una norma consuetudinaria di diritto internazionale, quindi applicabile anche se non prevista in nessun trattato o accordo, che si richiama al principio cosiddetto della bandiera. Trattasi di un principio giuridico incontestato, che può vantare un'applicazione secolare, principio secondo il quale i contingenti militari, che si trovano all'estero in regime di guerra o di pace, rispondono in via esclusiva alle proprie leggi ed allo Stato di appartenenza. In gergo militare viene definito anche come «la legge dello zaino», espressione che rende in maniera più plastica ed incisiva lo stesso concetto. Si fa invero riferimento alla documentazione che ciascun militare porta nel proprio zaino, attestante la sua nazionalità e che lo riconduce e lo sottopone alle leggi, soprattutto quella penale, dello stato a cui appartiene e che lo ha inviato nel territorio straniero quale facente parte di un contingente militare. È sempre stato riconosciuto, indipendentemente da ogni previsione di natura convenzionale, il diritto dello stato di origine di esercitare la giurisdizione sulle proprie truppe dislocate su territorio estero. È un regime di sostanziale e completa immunità di giurisdizione di forze militari straniere, che rientra nell'ambito della dottrina dell'occupatio belli, soprattutto in relazione al fatto che l'organizzazione statuale di un Paese occupato è, nella grande parte dei casi, priva di effettiva indipendenza.
Principio forte quindi che si giustifica per la sua specificità (contesto bellico o parabellico) e che contrasta, anzi supera, ed in parte annulla quello previsto in via generale della territorialità e di tutti gli altri, e che si rapporta anche a quello della reciprocità, poiché, in caso di più stati partecipanti congiuntamente ad un'operazione bellica, ciascuno ha giurisdizione sul proprio contingente senza interferenza.
L'orientamento giurisprudenziale sul punto è conforme nell'affermare la perdurante esistenza della cosiddetta legge di bandiera, come norma consuetudinaria di diritto internazionale.
Per altro verso la stragrande maggioranza della dottrina, nell'affrontare le problematiche in materia, parte sempre dal presupposto della legge di bandiera, come norma consuetudinariamente indefettibile, da applicare negli eventi bellici e nelle occupazioni di forze multinazionali nel territorio di uno Stato.
Qual è il valore di una norma consuetudinaria di diritto internazionale? Il concetto di consuetudine non si discosta da quello che la teoria generale del diritto ha sempre elaborato. Trattasi di costante ed uniforme comportamento e, in quanto tale, ritenuto obbligatorio, adottato da vari Stati.
Al di là delle singole posizioni dottrinarie, non può contestarsi in dubbio che la consuetudine sia fonte primaria, spontanea di diritto internazionale, (il richiamo è all'art. 10 della Costituzione) mentre l'accordo, fonte secondaria, trae quasi sempre la sua forza proprio dalla consuetudine. Problema estremamente delicato potrebbe essere quello collegato all'efficacia dei trattati contrari alla consuetudine. Non è il nostro caso, perché, come si vedrà, gli accordi, segnatamente i SOFA che hanno disciplinato le situazioni venutesi a creare nei vari stati occupati, tra cui quello irakeno, sono in armonia con questa norma consuetudinaria, il che induce ad affermare subito che, anche nella ipotesi in cui non fosse intervenuto nessun accordo regolatore dello stato giuridico delle forze multinazionali, sarebbe stata comunque applicata la norma consuetudinaria.
Ma il contesto politico militare, in cui sono avvenuti i fatti, impone di fare un ulteriore passaggio per entrare nel tema specifico, che è rapportato alla disciplina dello stato giuridico del personale delle forze multinazionali o di organizzazioni internazionali (soprattutto ONU) che occupano, sia pure per missioni umanitarie, territori di altri stati.
La prassi di questi ultimi anni attesta come dette missioni possono avvenire nel quadro di un'operazione, intrapresa sotto l'egida di un'organizzazione internazionale, oppure anche indipendentemente. Le questioni che vengono in considerazione sono tante, ma quello che qui interessa è l'esercizio della giurisdizione sui contingenti e la responsabilità tra contingenti.
È questo il caso dell'Iraq ove come si è detto, dopo l'occupazione militare, è subentrata, sotto l'egida dell'ONU, una forza multinazionale cui ha aderito anche l'Italia. È in questo contesto che va puntualizzato e inquadrato il problema. Qualsiasi aggancio a precedenti che si collocano in situazioni diverse diventa del tutto fuorviante; pertanto gli episodi richiamati da più parti (caso Achille Lauro, Cermiss ecc.) non possono essere assolutamente presi come punto di riferimento, non tanto perché talvolta hanno dato luogo a discordanti decisioni, ma quanto perché non riconducibili ad azioni belliche o parabelliche e meno che mai alla gestione di forze multinazionali in territorio straniero. Per questi esempi valevano e valgono i criteri generali sopra succintamente descritti, criteri, che, non disciplinati gerarchicamente, in ragione della scelta prioritaria del singolo di volta in volta adottato, possono aver portato a decisioni non uniformi.
Come è stato già detto, gli accordi, che hanno disciplinato varie situazioni di presenza di forze multinazionali in un determinato territorio, sono i cosiddetti SOFA.
Prima di accedere però alla stipula di questi accordi o in caso di impossibilità a stipularli, la legge del diritto di bandiera, sia in via consuetudinaria che in esecuzione di risoluzioni ONU approvate dal Consiglio di Sicurezza senza il consenso degli stati occupati, è sempre stata ed è sempre applicata.
È stata lenta la evoluzione che ha portato alla stipulazione degli accordi SOFA. Infatti gli Stati occupati hanno resistito, pure in stato di totale soggezione, ad accedere a queste stipule, proprio perché gli stati occupanti pretendevano di riportarsi al principio del diritto di bandiera, che conseguentemente porta alla limitazione della sovranità dei primi.
L'Organizzazione delle Nazioni Unite aveva da tempo avvertito l'esigenza di disciplinare le missioni di peace-keeping. In assenza di un contingente militare, messo a disposizione del Consiglio di Sicurezza, da parte degli stati membri, fu predisposto un accordo modello, redatto poi dal segretario generale dell'Onu che risale agli anni 1990 e 1991.
Detto accordo ha rappresentato la guida, il punto di riferimento per tutte le operazioni, una sorta di norma quadro o cornice, che recepisce, ancora una volta, il criterio del diritto di bandiera. Esso si articola in cinque punti. Il quarto disciplina lo status del personale militare della forze multinazionali che trovasi a svolgere in un paese funzioni umanitarie. L'art. 47 stabilisce: «military members of the military component of the United Nations peace-keeping operation shall be subject to the exclusive jurisdiction of their respective participating States in respect of any criminal offences which may be committed by them in (host country/territory)». Il che vuol dire che i militari facenti parte di un contingente delle Nazioni Unite in missione di peace-keeping saranno soggetti alla esclusiva giurisdizione dei loro rispettivi stati di appartenenza.
È un modello che recepisce la norma consuetudinaria sotto il duplice profilo della esclusione della giurisdizione territoriale e della soggezione dei militari ai rispettivi stati di invio. Non è ancora un Sofa poiché non reca la firma di uno stato occupato.
Per quanto concerne la situazione in Iraq si è detto che le prime risoluzioni Onu e cioè la n. 1483 e la 1511 del 2003 non fanno alcun riferimento al problema della giurisdizione. La cosa non deve sorprendere. Nel 2003 era ancora in atto la occupazione militare dello stato irakeno e pertanto, non esistendo formali autorità statuali, non poteva essere stipulato nessun accordo. Si applicava pertanto il richiamato modello generale di risoluzione del 1991.
Il primo SOFA che riguarda l'Iraq, è proprio la risoluzione n. 1546/2004, poiché di essa fanno parte integrante, sia la lettera del primo Ministro del Governo provvisorio Irakeno Ayad Allawi, che prestò il consenso alla ulteriore permanenza delle forze Onu in Iraq, sia la lettera del segretario di Stato degli Usa Colin Powell, richiamata formalmente nel testo della risoluzione con la specificazione che di essa fa parte integrante. In questa lettera si ribadisce quanto evidenziato nel richiamato modello e cioè il contenuto, l'essenza stessa di un SOFA che deve disciplinare, tra l'altro, l'esercizio della giurisdizione penale nei confronti dei membri delle forze multinazionali. Si precisa nel testo che gli Stati partecipanti hanno la responsabilità dell'esercizio della giurisdizione sul proprio personale (...responsability for exercising jurisdiction of their personnel ...).
L'espressione è chiara, non si presta ad interpretazioni anche perché in armonia con i precedenti richiamati. Vale quindi certamente l'antico brocardo: «in claris non fit interpretatio». Tuttavia l'espressione inglese responsability, che ha dato adito a discussioni, sembra poter richiamare un concetto forse alquanto estraneo al nostro sistema e che verosimilmente risente di una impostazione tutta americana. La espressione sta a significare, che sono gli Stati partecipanti, ad assumersi la responsabilità di procedere processualmente nei confronti degli autori del reato, autori che fanno parte dei rispettivi contingenti inviati dagli stessi Stati. Costoro si assumono la responsabilità, ma non l'obbligo, di procedere, come è appunto nei sistemi anglosassoni, in cui non è prevista l'obbligatorietà dell'azione penale.
Non a caso i SOFA pongono maggior risalto al problema della giurisdizione nei confronti dello Stato territoriale al quale viene sottratta; sottrazione che rappresenta una deroga delle norme del diritto internazionale, che, come si è detto, sono ancorate non in via secondaria al criterio della territorialità.
Il problema della giurisdizione, tra gli Stati costituenti le forze multinazionali, viene appena enunciato. Si afferma e si ribadisce la giurisdizione dello stato di invio che non è altro che il diritto di bandiera. In sostanza tra il criterio dell'autorità passiva e quello della bandiera non vi è dubbio che il secondo, tenuto conto anche della situazione contingente provvisoria e limitata nel tempo, prevale assolutamente, non solo perché in armonia con la norma consuetudinaria, ma perché ubbidisce al principio della reciprocità, caposaldo del diritto internazionale. È intuitivo d'altra parte e confermato dalla prassi, che nessun paese consente volentieri a che i propri cittadini alle armi, inviati all'estero per ragioni umanitarie e quindi normalmente con finalità non aggressive, ma allo scopo di assicurare equilibri internazionali per contribuire al mantenimento della pace, siano assoggettati alla giurisdizione di un altro stato soprattutto in rapporto a quelle condotte. È un criterio logico quindi, difficilmente contestabile e non riconducibile a forzature da parte di alcuni paesi che giocano un ruolo più importante nello scacchiere mondiale. Anzi è proprio il richiamo al regime di bandiera che pone gli Stati partecipanti alla missione, in una situazione paritaria. Ciascuno giudica i propri militari per i reati commessi ai danni di altro stato facente parte della stessa forza multinazionale.
Se si prova ad immaginare una situazione opposta e cioè l'ipotesi di un nostro militare che avesse posto in essere analoga azione delittuosa nelle medesime condizioni di tempo e di luogo ai danni di un cittadino statunitense, sarebbe stato più che legittimo da parte del nostro paese opporsi all'esercizio della giurisdizione degli Stati Uniti, che, tra l'altro, prevede, per questo tipo di reati, la pena di morte estranea al nostro ordinamento.
Si è posto il problema della diretta ed immediata efficacia della risoluzione 1546 nel nostro Stato. L'eccezione è stata sollevata soltanto da una parte civile.
L'art. 25 della carta dell'ONU stabilisce che gli stati membri accettano di eseguire le decisioni e le risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza, vincolanti per tutti gli stati membri delle Nazioni Unite. Inoltre la legge 17 agosto 1957 n. 848, in conformità alle disposizioni della stessa Carta, ha recepito ed autorizzato la ratifica dando esecuzione alla suddetta carta dell'ONU.
Giova richiamare quanto già affermato con riferimento all'art. 10 della Costituzione. La risoluzione n. 1546 rientra certamente tra le norme cosiddette self-executing, tenuto conto delle espressioni letterali usate e della prassi. Non è isolata e del tutto condivisibile la teoria in forza della quale «l'ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di una determinata organizzazione, in quanto copre anche la parte del Trattato che prevede la competenza di quella organizzazione ad emanare decisioni vincolanti, già attribuisca a queste ultime piena forza giuridica interna». Anche in assenza di qualsiasi atto di esecuzione, questa risoluzione avrebbe avuto efficacia nel nostro ordinamento.
Tuttavia il d.l. 24/6/2004 convertito con L. 30/6/2004, quindi dopo la richiamata Risoluzione, (che - ripetesi - nulla innovava rispetto al problema della giurisdizione, ma si poneva nella scia di altri precedenti), pur senza espliciti riferimenti rendeva esecutiva la Risoluzione in quanto disciplina la organizzazione della missione, il regime degli interventi e il conferimento di risorse umane e strumentali al fine di realizzare la missione prevista dalla Risoluzione stessa. Detto decreto è stato poi confermato con quello del 28.6.2005 convertito in legge il 31/7/2005 ed infine con il d.l. 31/1/2007 convertito in legge il 29/3/2007.
D'altra parte detti provvedimenti legislativi contengono anche norme ordinamentali, se è vero come è vero, che è prevista la punizione dello straniero per i reati commessi in territorio irakeno ai danni dei cittadini italiani partecipanti alla stessa missione su richiesta del Ministro della Giustizia e «per i reati commessi a danno di appartenenti alle forze armate sentito anche il Ministro della Difesa».
È appena il caso di sottolineare che non vi è traccia di nessun coinvolgimento del Ministro della Difesa nella vicenda, pur essendo il defunto Calipari e la parte lesa Carpani appartenenti entrambi alle forze militari italiane, in quanto funzionari del SISMI.
Ma non sono soltanto i SOFA con riguardo alla missione in Iraq che hanno questa impostazione. Vari altri precedenti collegati o meno ad operazioni con o senza SOFA, dimostrano che sempre sono stati adottati gli stessi criteri previsti nelle risoluzioni richiamate.
Vanno fatti alcuni esempi:
1) La Corte marziale olandese sottopose a processo in Libano alcuni membri olandesi del contingente Unifil; l'art. 11 del protocollo relativo alla MFO nel Sinai stabilisce che i suoi membri sono soggetti alla esclusiva giurisdizione dei loro rispettivi stati nazionali;
2) l'operazione senza SOFA Somalia fu introdotta con la risoluzione Onu n. 794/92 che autorizzò una operazione con caratteristiche di peace-enforcing. Fu creata la Unitat che diede avvio alla operazione Unosom. I contingenti facenti parte delle forze Onu applicarono, compresa l'Italia, il proprio diritto di bandiera;
3) SOFA Nato nei Balcani: accordo Dayton con la Repubblica Bosnia-Erzegovina e la Repubblica di Croazia. In detto accordo è previsto il riconoscimento della più completa immunità dalla giurisdizione dello stato territoriale. Si aggiunge in particolare che il personale militare sarà soggetto in ogni tempo all'esclusiva giurisdizione del proprio Stato di invio;
4) Risoluzione Onu: 1244/99 ha autorizzato le forze Nato a dislocarsi nel Kossovo. La Repubblica federale iugoslava accettò la presenza di dette forze, ma rifiutò di firmare l'accordo sullo stato delle stesse, riservandosi di stipulare un SOFA. Nel frattempo si dà valore a detto accordo di «temporary Sofa» e, pertanto il personale della International security force in Kossovo gode di fatto di una totale immunità giurisdizionale;
5) la forza multinazionale di protezione in Albania, della quale faceva parte anche l'Italia, in forza del Sofa opportunamente stipulato godeva di una immunità dalla giurisdizione penale albanese e dagli altri Stati;
6) Sofa in Afghanistan: la natura militare delle operazioni, condotte in Afghanistan dalla coalizione guidata dagli Usa ed intraprese senza il consenso dello Stato del territorio, giustifica l'assenza di un Sofa e comporta l'applicazione del principio del diritto di bandiera.
Non si fa alcun riferimento alla Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, stipulata tra stati membri della Nato in posizione paritaria poiché inserita, nella sua specificità, in un contesto totalmente diverso da quello in esame e cioè da quello bellico o parabellico o di presenza di forze multinazionali svolgenti missioni umanitarie in territorio straniero. È un accordo duraturo che ha costruito un'organizzazione internazionale con scopi comuni di difesa e di contrapposizione ad altro blocco di stati aderenti al patto di Varsavia.
Corollario della richiamata risoluzione 1546 del 2004 è l'Order 17 emanato in data 27 giugno 2004, unilateralmente, dall'Autorità della Coalizione provvisoria in Iraq e che disciplina lo status della stessa autorità provvisoria.
Da più parti è stata eccepita la validità di questo Order, che non può essere fonte primaria di diritto internazionale e pertanto carente di legittimazione a stabilire alcun criterio di giurisdizione. Sotto questo profilo formale l'eccezione può essere fondata.
Tuttavia l'Order in parola si inserisce nel contesto e nella scia segnata non solo dalla risoluzione 1546, ma anche dalle altre precedenti. In effetti esso non dispone nulla di nuovo rispetto a quanto previsto nella risoluzione medesima, ma si inserisce nel quadro politico diplomatico e normativo che questa aveva determinato.
Nell'Order si dice esplicitamente «in applicazione delle leggi e delle consuetudini di guerra ed in conformità delle rilevanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle nazioni Unite comprese le risoluzioni 1483/03 1511/03 e 1546/04 ... tutto il personale della forza multinazionale e della Autorità della Coalizione provvisoria... è sottoposto alla giurisdizione esclusiva del rispettivo stato di invio». Al paragrafo successivo si aggiunge «gli stati di invio del personale della MNF hanno diritto di esercitare all'interno dell'Iraq la giurisdizione penale e disciplinare loro conferita dalla legge dello stato d'invio».
Lo stesso richiamo alle risoluzioni che scaturiscono a loro volta dal modello del 1991 di cui già si è detto, fa ritenere che trattasi pertanto di un ordine esplicativo ed esecutivo, che rispetta il quadro delle norme di riferimento e quindi, pur non essendo fonte, ha la sua validità nel limiti designati.
Va sottolineato infine che il successivo Order 100 emesso il 28 giugno 2004, nel prevedere lo scioglimento dell'Autorità della Coalizione provvisoria per il 30 giugno 2004, precisa «che il presente ordine non si applica al n. 17».
Come si è visto la ipotesi della giurisdizione concorrente, in caso di presenza di forze multinazionali in territorio straniero, non si profila né con riferimento alla giurisdizione territoriale, cioè dello stato in cui è avvenuto o ai cui danni si è verificato il fatto, né con riferimento ad interventi di altre giurisdizioni.
Tutti i SOFA prevedono che i membri delle Forze siano da una parte sottratti alla giurisdizione dello stato occupato e dall'altra sottoposti a quella dello stato di origine, che sarà responsabile degli individui appartenenti alla propria forza.
Conseguenza di questa premessa è che il mancato esercizio della giurisdizione esclusiva da parte dello stato di invio non comporta la possibilità che subentri una giurisdizione concorrente.
Il Pubblico Ministero, partendo dal presupposto che si versi nell'ipotesi di giurisdizione concorrente in capo agli Stati Uniti e all'Italia, ha affermato che, non essendo stata esercitata legittimamente in via primaria quella americana, deve subentrare la giurisdizione italiana.
Per quanto finora esaminato, la affermazione non meriterebbe alcuna attenzione. La giurisdizione esclusiva è e rimane tale, anche se non processualmente esercitata.
Tuttavia la Corte ritiene opportuno eliminare qualsiasi dubbio che lasci spazio ad ipotizzare una soluzione diversa da quella adottata. Anche se si immaginasse, come caso scolastico, una giurisdizione concorrente il risultato sarebbe lo stesso.
Invero secondo quell'ordinamento giuridico la primaria giurisdizione degli Stati Uniti è stata in qualche modo esercitata.
Come è noto subito dopo i fatti fu costituita una commissione di inchiesta paritetica che concluse i suoi lavori con due documenti distinti uno di parte italiana e uno di parte Usa.
Il Dipartimento di Stato, cioè l'organo legittimo del governo degli Stati Uniti, in data 22 dicembre 2005, decise e comunicò che «l'affare è chiuso e che eventuali azioni legali sono di competenza del Dipartimento della Difesa».
Questa risposta creò un momento di grossa tensione e turbativa nei rapporti diplomatici tra l'Italia e gli Usa. Sotto questo profilo la Corte ovviamente non esprime alcuna valutazione, né giudizi in ordine alle reciproche contestazioni che furono formulate.
Sicuramente secondo il nostro sistema processuale quel provvedimento non ha carattere giurisdizionale e verosimilmente non lo ha neanche nell'ordinamento processuale statunitense. È necessario però che in questa sede si faccia uno sforzo, si ragioni in termini non rigidi né passionali, recependo la necessità di discostarsi dalla nostra cultura giuridica continentale e soprattutto da quella prettamente italiana che, nel diritto penale, ha come cardine fondamentale la obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale.
Nei paesi della common law detto principio non esiste e tutto il sistema penale si fonda su un ampio potere discrezionale che incide in maniera determinante sull'esercizio dell'azione penale.
Ci si deve quindi chiedere se effettivamente la giurisdizione americana abbia del tutto respinto qualsiasi iniziativa procedimentale sulla vicenda.
Secondo la Restatement of the Law, tra le tre forme di giurisdizione, intese in senso ampio come poteri dello Stato, che non ripetono la nostra tripartizione di montesquiana memoria, individuabili negli Stati Uniti, quella del to prescribe si realizza nel potere dello Stato di applicare il proprio diritto a persone o attività indifferentemente, mediante un atto legislativo od esecutivo o un comando giudiziale.
È proprio questo tipo di giurisdizione, che interviene, nel caso in cui, sul piano internazionale, debba applicarsi quella extraterritoriale. Ebbene, riconosciuto come legittimo il criterio di giurisdizione extraterritoriale, secondo le norme di diritto internazionale, ad una valutazione di ragionevolezza in ordine all'esercizio di questa giurisdizione, si aggiunge quella relativa alla opportunità di esercitare la giurisdizione interna; apprezzamento che in quello stato è il presupposto per ogni iniziativa processualmente rilevante.
Ribaltando il discorso, il non obbligo dell'esercizio dell'azione penale nell'ambito territoriale, che comporta valutazioni di carattere extraprocessuale, viene ulteriormente condizionato dalla valutazione di ragionevolezza, nel caso in cui si tratti di perseguire un reato commesso fuori dal territorio.
Insomma alla discrezionalità della prosecution si aggiunge, anche in maniera più incisiva, quella che comporta la decisione di perseguire fatti commessi all'estero.
Il Dipartimento degli Stati Uniti, pertanto, in quanto titolare della giurisdizione to prescribe, poteva legittimamente adottare la decisione sopra richiamata. Detta decisione non può indurre a ritenere che, secondo quell'ordinamento, non sia stata esercitata alcuna giurisdizione; essa scaturisce da una valutazione, della quale il Governo degli Stati Uniti si è assunto la responsabilità, quella cioè di non procedere processualmente nei termini che la nostra procedura intende.
Le norme consuetudinarie e le risoluzioni Onu esaminate, pur demandando la giurisdizione allo Stato di invio, non obbligano e non possono obbligare lo Stato stesso a svolgere un formale processo, ma soltanto ad adottare una decisione conforme al proprio ordinamento interno.


P.Q.M.


Visto l'art. 20 c.p.p. dichiara non doversi procedere nei confronti di Lozano Mario Luis in ordine al delitto ascrittogli per carenza di giurisdizione.

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