Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva

Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del "corpus", ma anche dell'"animus"; quest'ultimo elemento, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, sé vi è stato svolgimento di attività corrispondenti all'esercizio del diritto di proprietà, sicché è allora il convenuto a dover dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall'attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale. Pertanto, per stabilire sé in conseguenza di una convenzione (anche sé nulla per difetto di requisiti di forma) con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia possesso idoneo all'usucapione, ovvero mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire sé la convenzione sia un contratto ad effetti reali o ad effetti obbligatori, in quanto solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare l'animus possidendi nell'indicato soggetto.
(Corte di Cassazione Sezione 2 Civile, Sentenza del 6 agosto 2004, n. 15145)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Rafaele Corona - Presidente

Dott. Salvatore Bognanni - Consigliere Relatore

Dott. Carlo Cioffi - Consigliere

Dott. Giovanna Scherillo - Consigliere

Dott. Francesca Trombetta - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Ma. Sc., Ti. Sc., Gi. Qu., elettivamente domiciliati in Ro. Via To. 9, presso lo studio dell'Avvocato Em. Ce., difesi dall'Avvocato Ce. Bo., giusta delega in atti;

ricorrenti

contro

Ro. Sc., elettivamente domiciliato in Ro. Piazza Ca., presso la Corte di Cassazione, difeso dall'Avvocato Ca. Pa., con procura speciale notarile Notaio Gi. So. di La. data 17.3.04 rep. n° 46391 depositata in udienza;

resistente

avverso la sentenza n. 257/00 della Corte d'Appello di L'Aquila, depositata il 28.06.00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18.03.04 dal Consigliere Dott. Salvatore Bognanni;

Udito l'Avvocato Ca. Pa., difensore del resistente che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Renato Finocchi Ghersi che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il giorno 9 agosto 1993 Ro. Sc. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Lanciano Gi. Qu., Ma. Sc. e Ti. Sc., e premesso:

che aveva esercitato "uti dominus" il possesso di una quota, pari ad un quarto, degli immobili siti nel Comune di Vi. Sa. Ma., Via So. gli Or., censiti, il terreno al foglio (...), particella (...), e il fabbricato al foglio (...) particelle (...), sub 1 e 2, e ciò per oltre venti anni;

che esso era stato esercitato in modo pacifico e pubblico;

che questo possesso gli era stato conferito dall'allora proprietario di detta quota, e cioè il fratello Fi. Sc., ormai defunto, e col quale aveva stipulato un contratto di vendita, per il quale gli aveva versato la somma di £ 3.000.000 in conto prezzo, senza che ad esso fosse seguito un regolare atto pubblico di trasferimento della proprietà;

che tale convenzione era stata stipulata nel 1970;

che il terreno, sul quale poi il fabbricato era stato costruito, era stato acquistato nel 1958 dai fratelli Ro. Sc., Ti. Sc. e Fi. Sc., alla morte del quale ultimo Gi. Qu., moglie, e Ti. Sc. e Ma. Sc., figli, erano succeduti come eredi;

che nel 1987 anche il fratello Ti. Sc. gli aveva ceduto la sua quota in comproprietà, sicché da allora egli aveva posseduto anche questa, di fatto godendo dell'unità immobiliare da proprietario in modo esclusivo;

che pertanto egli aveva acquistato la proprietà della quota del fratello Fi. Sc. per la maturata usucapione;

tutto ciò premesso, l'attore chiedeva che il Giudice, istruita la causa, dichiarasse che egli fosse divenuto proprietario di questa quota per usucapione.

I convenuti si costituivano con comparsa di risposta con la quale eccepivano che l'attore e il loro dante causa avevano gestito insieme gli immobili, e ne avevano pagato le imposte cumulativamente. Lo stesso era avvenuto dopo la morte di Fi. Sc., almeno per la quota che era rimasta di sua spettanza. Chiedevano quindi il rigetto della domanda "ex adverso" proposta, perché infondata; con vittoria di spese e compensi.

Espletata l'istruttoria della causa mediante l'assunzione dell'interrogatorio formale che entrambe le parti avevano reciprocamente deferito, e l'assunzione dei testimoni addotti, il Tribunale, in accoglimento della domanda dell'attore, dichiarava che egli era divenuto proprietario della quota rivendicata per usucapione, e che risultava ormai intestata agli eredi di Fi. Sc., che pure condannava al rimborso delle spese.

Avverso la relativa sentenza Gi. Qu. e i due figli Ti. Sc e Ma. Sc. interponevano appello dinanzi alla competente Corte di L'Aquila, la quale, con sentenza del 6 giugno 2000, ha rigettato l'impugnazione e ha condannato gli appellanti in solido al rimborso delle spese del grado in favore dell'appellato. Essa ha osservato che, ancorché l'acquisto fatto da Ro. Sc. non fosse stato consacrato in un atto scritto, né tanto meno fosse stato poi seguito da rogito notarile tuttavia era rimasto provato che egli aveva sborsato la somma a titolo di prezzo, ed era stato nel possesso pacifico e pubblico anche della quota che in comproprietà prima era appartenuta a Fi. Sc., con l'avere l'esclusiva disponibilità di tutta l'unità immobiliare di che trattasi, con il lavorarvi e l'abitarvi.

Avverso tale sentenza Gi. Qu. e i due figli Ma. Sc. e Ti. Sc. hanno proposto ricorso per cassazione, indicando due articolati motivi.

Ro. Sc. non ha svolto alcuna difesa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Col primo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 1350 e 2725 c. c., con riferimento all'art. 360, n. 3 c. p.c., in quanto il Tribunale non ha considerato che il resistente non poteva mai avere avuto alcun possesso sugli immobili in questione, atteso che il preteso contratto di vendita non era stato redatto nella prescritta forma scritta, la cui mancanza ne comporta la nullità. Infatti nessun effetto può scaturire da un negozio nullo, e quindi nemmeno il possesso. Né il Tribunale poteva ammettere la prova per testimoni tendente a dimostrare l'avvenuta conclusione della compravendita, nemmeno sotto il profilo del fatto storico, giacché nessun effetto era mai ricollegabile a ciò che in realtà giuridicamente era inesistente. Inoltre la Corte di Appello non poteva avallare un provvedimento processuale, come l'ordinanza recettiva del reclamo proposto in ordine all'ammissione della prova per testimoni, sol perché surrettiziamente essa era indicata come tendente a dimostrare il fatto storico dell'accordo.

Questo motivo non è fondato.

Orbene la Corte di Appello ha messo in evidenza che, ancorché la compravendita tra Ro. Sc. e il fratello Fi. Sc. fosse stata stipulata senza essere sussunta in un atto scritto, tuttavia la relazione del resistente con la quota del congiunto era stata dimostrata dalla deposizione dei vari testimoni esaminati, e segnatamente Au. Sc. e Fe. Ti., il quale aveva mutuato la somma necessaria al cessionario per l'acquisto della quota. Peraltro la stessa Gi. Qu., in sede di interrogatorio, aveva confermato il versamento della somma da parte di Ro. Sc. al congiunto, ormai defunto.

Quanto alla prova per testimoni poi la stessa Corte territoriale ha osservato che, ancorché essa di regola non è ammessa per gli atti che devono redigersi per iscritto "ad sub-stantiam" ovvero "ad probationem", nel caso in esame invece si trattava di dimostrare il fatto storico inerente il rapporto avuto dal resistente con la quota del fratello poi deceduto, e cioè il possesso ad usucapionem.

Tale prova è consentita in casi del genere, e la Corte di merito in sostanza altro non ha fatto che allinearsi a con giurisprudenza costante questa Corte ha statuito, e cioè che "la prova degli estremi integratori di un possesso "ad usucapionem", vertendo su una situazione di fatto, non incontra alcuna limitazione nelle norme concernenti gli atti soggetti a forma scritta, ad substantiam o ad probationem, e, pertanto, può essere fornita per testimoni" (Cfr. sez. 2 sent. 02326 de 17.04.1981; sez. 2 sent. 03342 del 26.07.1977; sez. 2 sent. 01694 del 23.09.1970).

Inoltre, atteso che la relazione tra il resistente e gli immobili, anche per la quota già appartenente a Fi. Sc., oltre che per le risultanze istruttorie sopra enunciate, era da qualificare, anche sotto il profilo della presunzione ex art. 1141 c. c., come possesso, era allora precipuo onere dei ricorrenti fornire tempestivamente la prova che invece questo non ci fosse stato, ovvero si fosse trattato semplicemente di detenzione.

Né il fatto che l'atto da cui il possesso derivava fosse nullo per difetto di forma, impediva che la quota del cedente fosse in realtà posta in possesso del cessionario, assumendo la relazione il carattere idoneo a fare maturare l'usucapione col decorso del termine prescritto.

Su questo punto perciò la sentenza impugnata motivata in modo giuridicamente corretto.

2) Col secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione dell'art. 1102 c. c., omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, senza l'indicazione dei relativi articoli del codice, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5 c. p.c., giacché la Corte territoriale non ha considerato che il resistente, quanto meno sino al 1987, anno in cui aveva stipulato la compravendita delle quote degli altri fratelli, e cioè Ti. Sc. e An. Sc., anche se quest'ultimo non era in realtà comunista, non era affatto colui che in modo esclusivo aveva il possesso degli immobili. Infatti anche gli altri avevano l'uso e il godimento di essi. Né poi poteva darsi credito alle dichiarazioni della testimone Au. Sc., che peraltro era stata abbastanza vaga. Anche gli altri testimoni escussi erano stati piuttosto imprecisi, e le poche notizie riferite erano state da loro apprese da altre persone, quindi erano testimoni "de relato", e pertanto non attendibili. Persino lo stesso Fe. Ti., che aveva prestato la somma a Ro. Sc., aveva dichiarato che mai questi gli avesse riferito alcunché in ordine all'uso fatto del denaro dato a mutuo, e che non era stato presente agli accordi intercorsi tra i germani Fi. Sc. il mutuatario.

Anche questa censura è priva di pregio.

Ed invero la Corte di merito ha osservato esattamente che dal compendio di numerose testimonianze acquisite era emerso che Ro. Sc. aveva avuto il possesso della quota di Fi. Sc. già nel 1970. Che egli poi volesse avere quello esclusivo sugli immobili già di proprietà comune, era reso evidente dal fatto che successivamente, e precisamente nel 1987, aveva acquistato per atto pubblico anche la quota del fratello Ti. Sc..

Diversi testimoni esaminati avevano dichiarato che la quota di Fi. Sc. era stata ceduta al resistente, che comunque l'aveva posseduta in esclusiva già dal 1970.

Orbene questa Corte rileva che tali assunti sono esatti.

Al riguardo invero, come è noto, questa Corte ha più volte statuito che "chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del "corpus", ma anche dell'"animus"; l'elemento, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se vi è stato svolgimento di attività corrispondenti all'esercizio del diritto di proprietà, sicché è allora il convenuto che deve dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall'attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale (nella specie, contratto di comodato)" (V. sez. 2 sent. 15755 del 13.12.2001; conf 200000975 533255; vedi 199906944 528294; vedi 200006738 536845).

Solo in tal modo perciò è possibile stabilire che il resistente non abbia avuto il possesso della quota già di proprietà del dante causa dei ricorrenti.

Infatti per stabilire se in conseguenza di una convenzione (anche se nulla per difetto di requisiti di forma) con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia un possesso idoneo all'usucapione, ovvero una mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali od .uno ad effetti obbligatori, in quanto solo nel primo caso il negozio è idoneo a determinare l'"animus possidendi" nell'indicato soggetto (cfr. sez. 2 sent. 00741 del 27.01.1983; e così pure sez. 1 sent. 07142 del 30.05.2000).

Né poi è possibile in sede di legittimità prospettare un vaglio alternativo degli elementi acquisiti dal Giudice di merito.

Al riguardo infatti, come è noto, questa Corte ha statuito più volte che "la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al Giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento" (V. ex plurimis sent 00322 del 13.01.2003).

Ne deriva che il ricorso va rigettato.

Pure su tale punto perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo adeguato, oltre che giuridicamente e logicamente corretto.

Ne deriva che il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio, che si liquidano come in dispositivo, seguono per intero la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna i ricorrenti in solido a rimborsare le spese di questa fase in favore del resistente, e che liquida in complessivi Euro 100,00 per esborsi, ed Euro 1.200,00 per onorari, oltre agli accessori di legge.

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