In assenza di figli, il giudice non può adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale

Il previgente art. 155 c.c., nel testo in vigenza sino all'entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n, 54, e il vigente art. 155 quater cod. civ., in tema di separazione, come l'art. 6 della legge 898/70, subordinano l'adottabilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni, non autosufficienti conviventi con i coniugi. In difetto di tale elemento, sia che la casa familiare sia in comproprietà dei coniugi, sia che appartenga in via esclusiva ad un solo coniuge, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l'art. 156 c.c., che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell'assegno di mantenimento. (Corte di Cassazione, Sezione 1 Civile, Sentenza del 18 febbraio 2008, n. 3934)



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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Sa.Ma. chiedeva la separazione personale con addebito dal marito Sa.Al., la liquidazione di congruo assegno di mantenimento e l'assegnazione a sé della casa coniugale in considerazione del suo diritto di usufrutto.

Costituendosi in giudizio il Sa. chiedeva a sua volta la separazione con addebito alla moglie, l'assegnazione a sé della casa coniugale e la revoca dell'atto di donazione dell'usufrutto.

Il Tribunale dichiarava la separazione personale dei coniugi, respingendo le reciproche domande di addebito; confermava il provvedimento provvisorio di assegnazione della casa coniugale alla moglie in via esclusiva e determinava l'assegno di mantenimento in euro 110 mensili.

La Corte d'appello di Bari con sentenza 25.2.2005 rigettava l'appello del Sa. che insisteva per l'assegnazione della casa coniugale a sé in guanto coniuge più debole. Rigettava anche l'appello incidentale della Sa. che chiedeva la separazione con addebito al marito e un congruo aumento dell'assegno di mantenimento.

Osservava la Corte d'appello, per quanto qui ancora interessa, che l'assegnazione della casa coniugale poteva avvenire, al di fuori della disciplina derivante dal diritto reale o di godimento esistente sul bene, soltanto nel caso in cui vi fosse presenza di prole, ipotesi che nella specie difettava. Ricordava che in tal senso era l'interpretazione costante della Cassazione. Aggiungeva che, anche ammettendo che la casa coniugale potesse essere assegnata al coniuge più debole, difettavano nel Sa. le condizioni per poter pretendere tale provvedimento perché se egli era anziano e non in buona salute, altrettanto poteva dirsi della Sa. Inoltre il Sa. aveva tre figli di primo letto tenuti agli alimenti nei suoi confronti, mentre la Sa. aveva come congiunti soltanto fratelli, tenuti ai sensi dell'art. 139 c.c. soltanto nei limiti dello stretto necessario. Il Tribunale d'altra parte aveva assegnato un contributo in favore della Sa., a carico del Sa., con ciò dimostrando di ritenere che la prima e non il secondo fosse il coniuge più debole.

Avverso la sentenza ricorre per cassazione il Sa. articolando due motivi. Resiste con controricorso la Sa., che ha anche depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce errata applicazione della disciplina in materia di separazione dei coniugi per l'assegnazione della casa coniugale.

Osserva che l'art. 42, co. 2, Cost. prevede che la tutela della proprietà sia limitata dallo scopè di assicurarne la funzione sociale. Di conseguenza l'esistenza di un diritto reale, nella specie usufrutto, non impedisce la tutela del diritto del coniuge più debole. Il giudice della separazione in mancanza di prole non può limitarsi a registrare l'esistenza di diritti dominicali, dovendo nella specie tutelare la situazione del ricorrente, invalido e portatore di handicap.

L'oggetto dell'assegnazione da parte del giudice della separazione non è lo stesso bene oggetto del diritto dominicale, perché nel primo caso è questione della "casa coniugale", intesa come complesso dei beni organizzato dalla coppia di coniugi per abitare, per farsi vedere abitare dai terzi e per assistere, mantenere ed educare i figli, se sopravvengono. E' un bene unitario, benché composto anche da più beni mobili di vario genere e fruibile grazie alla continua erogazione di vari servizi, condominiali e non condominiali forniti da enti pubblici. Il vincolo di destinazione in questo senso è stato riconosciuto dalle Sezioni Unite (S.U. 21.7.2004, n. 13603).

L'art. 6, comma 6, legge 898/70 applicabile in sede di separazione in forza dell'art. 23 legge 74/87 prevede che "in ogni caso ai fini dell'assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole". La debolezza andrebbe intesa non in senso economico, ma come valutazione comparativa delle condizioni dei coniugi rispetto alla rete di interessi affettivi, sentimentali e sociali che circondano entrambi nonché rispetto alle condizioni di salute e alle esigenze lavorative.

Del resto tale principio sarebbe stato fatto proprio dalla Cassazione (Cass. 19.12.2001, n. 16027) con riferimento al figlio maggiorenne convivente non autosufficiente, a fronte della cui situazione la Corte ha affermato sussistere uno "statuto del portatore di handicap come soggetto debole del quale la collettività è tenuta a darsi carico".

Il ricorrente formula pertanto il seguente quesito: "Se il giudice della separazione, quando non ci sono figli minori, debba assegnare la casa coniugale valutando comparativamente le esigenze e gli interessi meritevoli e giuridicamente rilevanti di ciascuno dei coniugi, considerati nei rapporti tra loro e nei confronti dei terzi sulla base dell'eguaglianza morale e giuridica del patto sul quale la coppia è fondata, oppure se si debba tener conto soltanto ed esclusivamente delle esigenze di tutela dei "diritti dominicali", applicando la relativa disciplina ai rapporti tra coniugi".

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di tutte le discipline dei diritti e dei rapporti aventi per oggetto i beni che compongono la "casa coniugale" e il luogo in cui essi si trovano.

Se l'art. 155, comma 4, c.c. va interpretato esclusivamente nel senso che l'assegnazione della casa coniugale può essere disposta nell'interesse dei figli minori, il giudice della separazione negli altri casi non ha il potere di assegnare la casa coniugale, perché tale bene, inteso nel senso prima indicato, semplicemente non esiste. Di conseguenza i giudici di merito avrebbero errato nell'assegnare la casa coniugale al titolare del diritto di usufrutto sull'immobile. Se la pronuncia in materia di separazione dei coniugi ha natura costitutiva, essa non può essere pronunciata al di fuori dei casi previsti dalla legge, in virtù del principio di tassatività stabilito dall'art. 2908 c.c.

La sentenza impugnata dovrebbe pertanto essere cassata senza rinvio. All'uopo il ricorrente formula il seguente quesito: "Se il giudice della separazione, quando non ci sono figli minori, abbia o non abbia il potere di assegnare la casa coniugale, e quindi di statuire sui diritti e sui rapporti che hanno per oggetto gli arredi, suppellettili, elettrodomestici, beni mobili, pertinenze e servizi che la componevano prima della sua dissoluzione intervenuta a causa della crisi coniugale, nonché di statuire sui diritti e sui rapporti che hanno per oggetto il godimento del luogo in cui tali beni, ormai non più unitariamente destinati, si trovano".

2. La controricorrente ha eccepito l'inammissibilità del ricorso perche non sarebbe possibile individuare le norme di legge la cui violazione è stata denunciata dal ricorrente con entrambi i motivi, norme che non sono espressamente indicate e che non sarebbero identificabili.

L'eccezione è infondata. Ancorché il ricorrente non abbia espressamente indicato nell'epigrafe dei motivi e nei quesiti formulati le norme di legge che assume violate dalla sentenza impugnata, ugualmente esse sono facilmente identificabili dalla narrativa del ricorso nell'art. 155, quarto comma, c.c., nel testo in vigore prima della riforma introdotta con la legge 8.2.2006, n. 54. Invero l'indicazione, ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ., delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti della impugnazione, sicché la mancata od erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta l'inammissibilità del gravame ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme o i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione del "quid disputandum" (Cass. 4.6.2007, n. 12929; Cass. Sez. Un., 17.7.2001, n. 9652).

Né l'omessa indicazione delle norme di legge toglie specificità ai quesiti di diritto formulati dal ricorrente, che, pur senza indicare la norma che si assume violata dalla decisione impugnata, fanno chiaro riferimento all'interpretazione dell'art. 155, quarto comma, c.c. nel testo anteriore alla riforma del 2006.

3. Il primo motivo del ricorso non è fondato.

Va premesso che esso è ammissibile ancorché il ricorrente non abbia espressamente impugnato il rilievo della sentenza impugnata che afferma che il Sa. non è stato considerato coniuge più debole in sede di determinazione dell'assegno di mantenimento con statuizione che è stata confermata dalla Corte d'appello e non è stata più impugnata in questa sede. Il ricorrente sostiene infatti che ai fini dell'assegnazione della casa di abitazione coniuge più debole sarebbe non quello più debole economicamente, ma quello che appaia più meritevole di rimanere nell'ex casa coniugale alla luce della rete} sottesa al matrimonio, di interessi affettivi, sentimentali e sociali, ivi compresa la tutela del diritto alla salute (il Sa. è portatore di handicap).

Con recente pronuncia questa Corte ha confermato, sulla questione dedotta dal ricorrente, il proprio consolidato orientamento, affermando che, in materia di separazione e divorzio, il disposto dell'art. 155 quater cod. civ, come introdotto dalla legge 8 febbraio 2006 n. 54, facendo riferimento all'"interesse dei figli", conferma che il godimento della casa familiare è finalizzato alla tutela della prole in genere e non più all'affidamento dei figli minori, mentre, in assenza di prole, il titolo che giustifica la disponibilità della casa familiare, sia esso un diritto di godimento o un diritto reale, del quale sia titolare uno dei coniugi o entrambi, è giuridicamente irrilevante, con la conseguenza che il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale (Cass. 24.7.2007, n. 16398).

Con la sentenza citata questa Corte ha anzitutto osservato che l'art. 155 cod. civ., nel testo vigente sino all'entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54, sotto la rubrica "provvedimenti riguardo ai figli", al quarto comma prevedeva: "L'abitazione della casa coniugale spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli".

Tale norma era stata interpretata, già con la sentenza a Sezioni Unite del 23 aprile 1982, n. 2494, nel senso che essa, attribuendo al giudice il potere di assegnare l'abitazione nella casa familiare al coniuge cui vengono affidati i figli, che non sia il titolare o l'esclusivo titolare del diritto di godimento (reale o personale) sull'immobile, avesse carattere eccezionale e fosse dettata nell'esclusivo interesse della prole minorenne, con la conseguenza che essa non poteva essere ritenuta applicabile, neppure in via di interpretazione estensiva, al coniuge non affidatario.

Quella decisione si fondava su due argomenti: anzitutto, avuto riguardo alla rubrica dell'art. 155 c.c. (provvedimenti riguardo ai figli), la norma appariva diretta a regolare il caso in cui vi fossero figli minorenni, riguardo ai quali dovessero adottarsi i provvedimenti di cui ai primi due commi, cosicché il suo enunciato normativo doveva essere interpretato in coerenza con tale oggetto e l'affidamento della prole ne costituiva pertanto il presupposto necessario. In secondo luogo l'abitazione nella casa familiare non poteva essere assegnata, in mancanza di figli minorenni, in forza dell'art. 156 c.c., in quanto tale articolo non conferiva al giudice il potere di imporre al coniuge obbligato al mantenimento di adempiervi in forma diretta e non mediante prestazione pecuniaria.

Con l'entrata in vigore della legge 74/1987 - la quale all'art. 6, in materia di divorzio, ha disposto che "l'abitazione della casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età" e "in ogni caso il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole" - il principio ora detto era stato esteso anche all'assegnazione della casa familiare a favore del genitore con il quale convivessero figli maggiorenni, non ancora economicamente autosufficienti, sulla base della identità di ratio rispetto all'assegnazione in caso di affidamento di figli minorenni (ex multis: Cass. 6 aprile 1993, n. 4108; 17 aprile 1994, n. 2524; 12 gennaio 1995, n. 334; 17 luglio 1997, n. 6557; 11 maggio 1998, n. 4727; 22 aprile 2002, n. 5857; 28 marzo 2003, n. 4753; 18 settembre 2003, n. 13736; 6 luglio 2004, n. 12309).

L'orientamento in esame è stato ribadito anche dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 28 ottobre 1995, n. 11297, che pur riguardando specificamente il tema dell'assegnazione della casa coniugale in materia di divorzio, ha confermato la precedente interpretazione dell'art. 155 c.c., comma 4 (in materia di separazione) e la sua ratio costituita dalla tutela dei figli. Tale interpretazione è poi stata fatta propria anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza 27 luglio 1989, n. 454 ed è stata confermata, più di recente, facendovi riferimento nella motivazione, dalla sentenza delle Sezioni Unite 21 luglio 2004, n. 13603 e successivamente da Cass. 4 maggio 2005, n. 9253.

In coerenza con questo orientamento si è affermato il principio secondo il quale in materia di separazione (come di divorzio) l'assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dalla legge 898/70, art. 6, comma 6 (come sostituito dalla legge 74/87, art. 11), essendo finalizzata alla esclusiva tutela della prole e dell'interesse di questa a permanere nell'ambiente domestico in cui è cresciuta, non può essere disposta a titolo di componente degli assegni rispettivamente previsti dall'art. 156 cod. civ. e dall'art. 5 legge 898/70, allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, al soddisfacimento delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati (così, da ultimo, Cass. 6 luglio 2004, n. 12309).

Questa Corte ha poi ancora affermato che i principi sopra esposti sono da confermare anche alla stregua dello jus superveniens, costituito dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, che ha aggiunto all'art. 155 cod. civ. - a proposito dei "provvedimenti riguardo ai figli" - l'art. 155 quater. La nuova disposizione, infatti, mostra di volere dare consacrazione legislativa, con il riferimento all'"interesse dei figli" in genere - e non più all'affidamento dei figli (minori) - proprio al suddetto consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, statuendo altresì che "il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli" e che "dell'assegnazione il Giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici fra i genitori, considerato l'eventuale titolo di proprietà" (Cass. 24.7.2007, n. 16398; Cass. 22.3.2007, n. 6979; e in materia di divorzio Cass. 14.5.2007, n. 10994).

Questo orientamento è stato da ultimo confermato da Cass. 23.11.2007, n. 24407, che ha negato che il giudice della separazione possa sostituire l'assegno di mantenimento con l'assegnazione della ex casa coniugale, ostando all'interpretazione estensiva il fatto che l'assegnazione è prevista nell'interesse esclusivo della prole.

Il ricorrente sottolinea che la casa coniugale è bene diverso dal mero immobile in cui essa si trova.

Contrappone all'immobile-parallepipedo-porzione di edificio oggetto del diritto reale o del diritto di godimento spettante ad uno dei coniugi, la casa coniugale intesa come complesso di beni immobili e mobili (arredi, suppellettili, elettrodomestici, pertinenze) e di servizi, centro degli affetti, interessi e consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare. Afferma che sarebbe incivile negare che tale bene esista e debba essere oggetto di assegnazione quando non vi sono figli, assegnazione che deve aver luogo asseritamente a favore del coniuge più debole. Ciò perché l'assegnazione della casa coniugale non sarebbe soltanto strumento di protezione della prole, ma mezzo atto a garantire anche il conseguimento di finalità diverse quali quella all'equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi anche dopo il divorzio o il favor per il coniuge più debole, che dovrebbe essere individuato come soggetto meritevole dell'attribuzione del centro di affetti, interessi e relazioni rappresentato dal bene casa coniugale.

La tesi sostenuta dal ricorrente non trova fondamento nell'interpretazione della disciplina normativa previgente ed attualmente vigente, che si è in precedenza richiamata. Se è indubbio che il ricorrente rappresenta una situazione, quella del coniuge più. debole nel senso già indicato, che può apparire de iure condendo meritevole di tutela, non può trascurarsi il fatto che tale tutela non è apprestata dall'ordinamento e che la sentenza che pronuncia la separazione ha pacificamente carattere costitutivo, sì che il suo contenuto, giusta il disposto dell'art. 2908 c.c., è di stretta interpretazione e non può andare al di là di quanto espressamente previsto dalla legge.

L'interpretazione proposta non coglie il fatto che, secondo la mens legis, in tanto ha un senso l'assegnazione della casa coniugale, intesa come centro di affetti, interessi e relazioni interpersonali, ad uno dei coniugi, in deroga all'ordinario assetto di interessi che discende dal diritto dominicale o dal diritto di godimento gravante sull'immobile, in quanto possa ritenersi che, nonostante la separazione dei coniugi, ancora sussista una famiglia. Venuta meno la comunanza di vita e di affetti tra i coniugi, in tanto può ancora parlarsi di famiglia in quanto vi siano i figli e la convivenza dei membri della famiglia prosegua, nonostante il vulnus inferto dalla separazione intervenuta tra i coniugi.

Ove non vi sia prole convivente, questo tipo di tutela non ha più ragione di sussistere né il legislatore ha ritenuto di adottare un diverso tipo di regolamento, facendo prevalere l'interesse alla tutela del coniuge più debole sul diritto reale o di godimento relativo all'immobile già sede della casa coniugale.

A tale proposito costituisce significativa eccezione la disciplina dettata in tema di successione legittima dall'art. 540, comma 2, c.c. che riconosce al coniuge superstite i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni, disciplina che il legislatore non ha ritenuto di estendere al di fuori del caso espressamente previsto.

Per quanto concerne la separazione, pertanto, il coniuge più debole andrà altrimenti tutelato in sede di regolamento economico degli interessi di ciascun membro della coppia, tenendo peraltro conto dell'incidenza sul reddito che la disponibilità della casa di abitazione, in forza degli anzidetti diritti, può assumere.

Deve pertanto affermarsi il seguente principio di diritto: "Il previgente art. 155 c.c., nel testo in vigente sino all'entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54, e il vigente art. 155 quater cod. civ., in tema di separazione, come l'art. 6 della legge legge 898/70, subordinano l'adottabilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi. In difetto di tale elemento, sia che la casa familiare sia in comproprietà fra i coniugi, sia che appartenga in via esclusiva ad un solo coniuge, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l'art. 156 c.c., che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell'assegno di mantenimento".

Il primo motivo di ricorso va dunque rigettato. Il secondo è inammissibile vuoi perché il ricorrente in appello ha censurato la sentenza di primo grado per non aver riconosciuto il suo diritto sulla casa coniugale, ma non ha contestato la sussistenza delle condizioni perché il giudice della separazione pronunciasse in favore dell'altro coniuge, vuoi perché il provvedimento pronunciato dal Tribunale è meramente ricognitivo del diritto di usufrutto della Sa. e quindi la relativa statuizione è priva di contenuto decisorio.

Sussistono giusti motivi, avuto riguardo alle condizioni delle parti, entrambe anziane e bisognose di assistenza, per dichiarare integralmente compensate tra di esse le spese del grado.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente le spese del grado.

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