L'esistenza di un'opera muraria munita di parapetti e di muretti dai quali sia possibile guardare ed affacciarsi sul fondo del vicino è sufficiente ad integrare una veduta ed il possesso della relativa servitù

L'esistenza di un'opera muraria munita di parapetti e di muretti dai quali sia obiettivamente possibile guardare ed affacciarsi sul fondo del vicino è sufficiente ad integrare una veduta ed il possesso della relativa servitù, senza che occorra anche l'esercizio effettivo dell'affaccio (essendo la continuità dell'esercizio della veduta normalmente insita nella stessa situazione dei luoghi). (Corte di Cassazione Sezione 2 civile, Sentenza 16.01.2007, n. 866)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Vincenzo CALFAPIETRA - Presidente

Dott. Ennio MALZONE - Consigliere

Dott. Vittorio Glauco EBNER - Rel. Consigliere

Dott. Umberto GOLDONI - Consigliere

Dott. Ettore BUCCIANTE - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:Tu.Gi., Gr.Ro., elettivamente domiciliati in Ro. Lungotevere De.Me. (...), presso lo studio dell'avvocato Gi.Gi., che li difende unitamente all'avvocato Ca.Bi., giusta delega in atti

- ricorrenti -

contro

D'Al.Co., elettivamente domiciliata in Ro. Piazza Ca., presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, difesa dall'avvocato Nu.Ca., giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 3/03 della Corte d'Appello di Messina, depositata il 09/01/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/06/06 dal Consigliere Dott. Vittorio Glauco EBNER;

udito l'Avvocato Gi.Gi., difensore dei ricorrenti che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Libertino Alberto RUSSO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1 Con ricorso in data 1.12.1989, D'al.Co., premesso di essere proprietaria di un immobile urbano ad uso di civile abitazione sito in Ca., confinante con altro immobile, di proprietà di Tu.Gi. e Ro.Gr.; che costoro avevano demolito il fabbricato di loro proprietà (formato da un'elevazione fuori terra, coperta da un tetto a tegole) e stavano realizzando un nuovo edificio a due elevazioni; che tale nuova costruzione violava la servitù di veduta che essa D'al. esercitava sulla proprietà Tu./Gr., stante la mancata osservanza della distanza di mt. 3 previsti dalla legge; tutto ciò premesso, evocava i predetti innanzi al Pretore di Taormina, chiedendo la sospensione dei lavori.

Gli intimati si costituivano, contestando il fondamento dell'avversa pretesaci cui chiedevano il rigetto.

All'esito della fase cautelare il Giudice adito ordinava la sospensione dei lavori.

Successivamente veniva instaurato il giudizio di merito della causa, nel corso del quale veniva svolta istruttoria orale ed espletata altresì una consulenza tecnica d'ufficio.

All'esito, il Tribunale di Taormina - cui la causa era stata rimessa a seguito dell'abolizione dell'Ufficio del Pretore - con sentenza n. 111/2000, in accoglimento della domanda della D'al., ordinava ai convenuti di ripristinare la servitù di veduta.

2 La sentenza veniva gravata di appello dal Tu. e dalla Gr.

La D'al., costituitasi, chiedeva dal canto suo il rigetto dell'impugnazione.

La Corte di Appello di Messina, con sentenza n. 3/2003, depositata il 9.1.2003, disattesa preliminarmente l'eccezione di intervenuta decadenza dell'attrice dal diritto di assumere la prova testimoniale ammessa, in parziale accoglimento dell'appello, condannava gli appellanti a demolire le sole parti del fabbricato di loro proprietà poste a distanza inferiore a mt. 1,90 rispetto al bordo superiore del parapetto del terrazzino esistente sull'immobile di proprietà dell'appellata D'al. A sostegno del raggiunto convincimento i Giudici di appello esponevano quanto segue.

Con riguardo alla eccezione di rito, che la stessa non era condivisibile in quanto il giorno 27.10.1993, fissato per l'inizio della prova testimoniale ammessa, ma nel quale l'udienza non fu tenuta, la D'al. (cui era stato concesso termine fino a tale data per l'indicazione dei testi) aveva un atto di intimazione ai testimoni: atto da ritenersi equipollente al deposito della lista testimoniale o all'indicazione dei testi a verbale.

Nel merito, poi, ritenevano che correttamente il primo Giudice avesse ritenuto esistente la servitù di veduta, in quanto la veduta stessa risultava, in base alle prove espletate ed alle risultanze della CTU, esercitabile in modo sia diretto che obliquo.

Peraltro, la Corte territoriale, sul rilievo che era stato dimostrato che il preesistente tetto del fabbricato di proprietà degli appellanti non si trovava alla distanza di tre metri, ma di mt. 1,90 dal bordo del parapetto della vedutagli riforma della decisione di prime cure, disponeva la demolizione delle sole opere sottostanti al terrazzino stesso (e cioè delle opere in appoggio) poste a distanza inferiore a mt. 1,90 rispetto al bordo del parapetto.

La Corte di merito rigettava, invece, la richiesta degli appellanti diretta ad ottenere comunque una sentenza condanna non in forma specifica (e cioè alla demolizione delle opere su menzionate) ma al risarcimento dei danni per equivalente, sul rilievo divertendosi in materia di tutela di un diritto reale, una tale soluzione - in mancanza di consenso della parte danneggiata - era preclusa.

3 Avverso tale sentenza, notificata il 10.02.2003, hanno proposto congiunto ricorso per cassazione il Tu. e la Gr., con atto notificato il 9.3.2003, sostenuto da tre mezzi di doglianza.

L'intimata D'al. resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

3.1 Con un primo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 900 e ss. e 2697 c.c., nonché omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

I Giudici di appello non avrebbero tenuto conto che, in base allo stato dei luoghi accertato in causa, la servitù di veduta fatta valere dalla D'al. non era qualificabile come apparente, mancando una concreta possibilità di affaccio esterno (il terrazzino essendo recintato da un muretto alto soltanto 85 cm, realizzato in guisa da consentirne l'uso come sedile, ma evidentemente solo per guardare all'interno del terrazzino stesso e non verso l'antistante fabbricatole che pertanto tale servitù non poteva ritenersi essere stata oggetto di usucapione e tutelabile ex artt. 900 e ss. c.c.

Le censure, nonostante il formale richiamo alla violazione di disposizioni di legge, si risolvono sostanzialmente in censure di fatto, non consentite in questa sede; e sono comunque prive di fondamento.

Invero, al riguardo la Corte di merito ha osservato, da un lato, che la indicata configurazione dei luoghi non costituiva concreto ostacolo all'esercizio della veduta in quanto - alla stregua della documentazione fotografica allegata alla relazione del CTU - la stessa era possibile in forma diretta dalla porzione di parapetto corredata da sedile, ed in obliquo dalla porzione del parapetto prospiciente il lastrico solare del fabbricato di proprietà Pa.; e, d'altro lato, che i testi assunti (anche quelli indicati dagli appellanti Tu./Gr.) avevano confermato non solo che la veduta poteva essere esercitata ma anche che essa veniva di fatto esercitata.

Trattasi di motivazione adeguata e non contraddittoria del raggiunto convincimento, come tale non sindacabile in questa sede: essendo pacificamente precluso al Giudice di legittimità il riesame e la valutazione dei fatti di causa pur sulla base della diversa interpretazione e lettura che delle risultanze processuali prospetti la parte interessata.

D'altro canto, è da escludere che la Corte di merito sia incorsaci riguardo, nei denunciati errori di diritto.
In materia questa Corte (Cass. 6406/1984; Cass. 20205/2004) ha avuto modo di affermare che l'esistenza di un'opera muraria munita di parapetti e di muretti dai quali sia obiettivamente possibile guardare ed affacciarsi sul fondo del vicino è sufficiente ad integrare una veduta ed il possesso della relativa servitù, senza che occorra anche l'esercizio effettivo dell'affaccio (essendo la continuità dell'esercizio della veduta normalmente insita nella stessa situazione dei luoghi).

In ogni caso, nella specie, i requisiti necessari per l'esistenza di una servitù di veduta (e cioè la possibilità ad una qualsiasi persona di media altezza di vedere e guardare non solo di fronte ma anche obliquamente o lateralmente sul fondo del vicino: ex plurimis, Cass. 15371/2000; Cass. 12898 e 17343/2003) sono stati riscontrati sussistere entrambi, con motivazione adeguata e coerente: quindi, nessuna violazione del disposto dell'art. 900 c.c. è dato rilevare nella impugnata sentenza.

3.2 Con un secondo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 244 cpc, nonché omessa e/o contraddittoria e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

La Corte territoriale per un verso non avrebbe offerto alcuna concreta motivazione in ordine alle ragioni per le quali aveva ritenuto dimostrati tanto la esistenza quanto l'effettivo esercizio della servitù di veduta sul fondo dei Tu./Gr., posto che le dichiarazioni dei testi (in particolare Fo., Si., Ca., Pr. e Ra.) erano state, in realtà, di tutt'altro tenore, avendo gli stessi riferito di una situazione dei luoghi incompatibile con l'esistenza di una servitù apparente di veduta.

Per altro verso, la Corte medesima, una volta accertata la mancata osservanza, da parte dell'attrice, del termine perentorio fissato dal Giudice per la indicazione dei testi, erroneamente avrebbe escluso la decadenza della D'al. dal diritto di assumere la prova testimoniale ammessa.

Le doglianze non sono condivisibili.

Anzitutto, è da rilevare che i Giudici di appello hanno ritenuto che una vera e propria servitù di veduta fosse nella specie non solo possibile ma anche concretamente esercitata: ed al riguardo si sono richiamati alle dichiarazioni rese in tal senso da tutti i testi assunti.

Vero è che i ricorrenti assumono l'erroneità di un siffatto convincimento, avendo a loro avviso i testi reso dichiarazioni incompatibili con l'esistenza di una servitù di veduta apparente.

Trattasi peraltro di una diversa interpretazione delle deposizioni testimoniali, che non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità, come del resto già si è sottolineato in sede di esame del primo motivo del ricorso.

Quanto, poi, alla dedotta violazione dell'art. 244 cpc, in cui sarebbero incorsi i Giudici di appello, per avere omesso di rilevare la decadenza dell'attrice dalla prova per testi, nonostante l'attrice stessa non ne avesse tempestivamente indicato i nominativi nell'apposita lista, la questione si rivela priva di fondamento.

Invero, dalla impugnata sentenza risulta che, dopo l'ammissione della prova chiesta dalle parti, il primo Giudice rinviò la causa all'udienza del 27.10.1993, con termine fino a tale data per indicare i testi; e che, nel giorno fissato l'udienza non fu tenuta, ma il difensore dell'attrice depositò l'atto di intimazione ai testimoni dei quali chiedeva l'esame.

Orbene, in tale situazione, essendo cioè puntualmente indicati, in tale atto processuale, i nominativi dei testi dei quali l'attrice chiedeva l'audizione, deve ritenersi che la Corte territoriale correttamente abbia ritenuto l'equivalenza del deposito di tale atto di intimazione al deposito della lista dei testi e quindi rispettato il disposto dell'art. 244 cpc (nel testo, qui applicabile, vigente anteriormente alle modifiche introdotte dall'art. 89 comma primo L. 353/1990, con effetti dal 30.4.1995:ndr).

Invero, il termine perentorio (del 27.10.1993), assegnato dal primo Giudice per la indicazione dei testi, risulta essere stato comunque rispettato dalla D'al.: dall'atto di intimazione, depositato ritualmente dal difensore quel giorno, risultava appunto - come accertato dalla Corte territoriale e come del resto non è specificamente contestato dai ricorrenti - l'elenco dei testi dei quali l'attrice intendeva chiedere l'audizione (tanto da averli anche citati per tale udienza).

I nominativi dei testi risultano quindi essere stati portati tempestivamente a conoscenza sia della controparte che del Giudice.

Pertanto, deve concludersi che del tutto corretto, in fatto e in diritto - tenuto anche conto del principio della libertà delle forme fissato nell'art. 121 c.p.c. - è il convincimento al riguardo manifestato dalla Corte di Messina; e conseguentemente deve ritenersi del tutto rituale la successiva audizione dei testi così indicati dalla parte attrice.

3.3 Con un terzo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 2058 c.c. e 112 c. e ss. cpc, nonché omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

I Giudici di appello, nel disattendere la richiesta di condanna al risarcimento dei danni per equivalente, non avrebbero tenuto conto che gli appellanti avevano prospettato concreti elementi idonei a giustificare una simile soluzione: sottolineando anche che - in base alla relazione del CTU - la demolizione parziale del solaio di copertura della seconda elevazione fuori terra del fabbricato dei convenuti avrebbe compromesso la stabilità dell'intero solaio.

Pertanto, la Corte avrebbe dovuto prendere atto della impossibilità, nel caso di specie, di una reintegrazione in forma specificaci sensi dell'art. 2058 comma primo cc., o comunque disporre il risarcimento per equivalente ai sensi del secondo comma dell'art. 2058 cit., essendo eccessivamente oneroso per la parte condannata il ripristino così come ordinato dal Giudice.

Le doglianze per un verso appaiono generiche, e quindi inammissibili, non essendo specificato nel ricorso - che sul punto evidenzia una mancanza di autosufficienza - in quale atto ed in quali esatti termini fossero stati prospettati ai Giudici di appello dei "profili articolati di censura idonei a consentire l'applicazione dell'art. 2058 c.c."; per altro verso, sono comunque prive di giuridico fondamento.
In tema di risarcimento del danno questa Corte ha avuto modo di affermare che la tutela riservata ai diritti reali non consente l'applicabilità dell'art. 2058 c.c. nel caso di azioni volte appunto a far valere uno di tali diritti, atteso il carattere assoluto degli stessi (ex multis, Cass. 5113/1995; Cass. 10694/1997; Cass. 11744/2003) salvo che sia la stessa parte danneggiata a chiedere la condanna per equivalente (Cass. 10694/1997 cit.); e che comunque rientra nei poteri discrezionali del Giudice del merito - il cui mancato esercizio non è pertanto sindacabile in sede di legittimità (Cass. 3004/2004), di attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché in forma specifica: salvo il caso (che tuttavia nella specie non ricorre) in cui la demolizione della cosa sia di pregiudizio all'economia nazionale, dovendo il giudice - in tale evenienza - provvedere (soltanto) per equivalente ex art. 2933 comma secondo c.c.

Alla luce di tali orientamenti, che il Collegio condivide, deve ritenersi del tutto corretta in fatto ed in diritto - oltre che adeguatamente motivata - la decisione di rigetto della istanza di condanna non in forma specifica, cui sono pervenuti al riguardo i Giudici di appello; ai quali, d'altro canto, per quanto or ora rilevato, non è comunque addebitabile il mancato esercizio della facoltà di disporre il risarcimento per equivalente ex art. 2058 comma secondo c.c.

4 Alla stregua dei rilievi tutti che precedono il ricorso deve essere rigettato.

I ricorrenti debbono essere condannati, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano a favore della resistente D'al. come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio, liquidate a favore della controricorrente in complessivi euro 1,600,00 (milleseicento/00) di cui euro 1.500,0 (millecinquecento/00) per onorari;oltre spese generali ed accessori di legge.

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