Nel giudizio di rivendicazione l'attore è onerato della prova dell'asserito diritto dominicale mediante la rigorosa dimostrazione del titolo originario di acquisto del bene

Nel giudizio di rivendicazione l'attore è onerato della prova dell'asserito diritto dominicale mediante la rigorosa dimostrazione del titolo originario di acquisto del bene - in regione o della progressione risalente dei titoli derivativi sino all'originario costitutivo, o del possesso ad usucapionem anche per accessione sino al compimento del ventennio - con la precisazione, tuttavia, che il principio stesso deve essere interpretato in relazione alle peculiarità di ciascun caso concreto sottoposto all'esame del giudice del merito. In ragione di tali peculiarità possono assumere rilevanza non solo le caratteristiche particolari della vicenda proprietaria, ma anche il contenuto della difesa di volta in volta opposta dal convenuto, nel rispetto del diverso e più generale principio per cui le dichiarazioni del possessore o del detentore possono essere ritenute significative, se interpretate nel complessivo contesto di tutte le risultanze relative alla condotta del soggetto, secondo un criterio di valutazione oggettiva. Il rigore dell'onere della prova in materia, pertanto, non può non attenuarsi quando il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene rivendicato al comune autore o a uno dei danti causa dell'attore in quanto, non sussistendo tra le pareti alcun conflitto in ordine all'appartenenza anteatta, ma solo a quella attuale, rimane sufficiente in tale caso che il rivendicante dimostri come il bene medesimo abbia formato oggetto del proprio titolo di acquisto. (Corte di Cassazione, Sezione 2 Civile, Sentenza del 12 marzo 2008, n. 6521)



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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I consorti La. Gr., alcuni dei quali tramite Ri.An. loro procuratore speciale, hanno citato i coniugi Mo.Br. Vi. e Ra.Ca. a comparire innanzi al tribunale di Vallo della Lucania per sentir dichiarare di loro esclusiva proprieta' un piccolo fabbricato - sito in (OMESSO) e composto di un vano, terraneo rispetto alla via comunale, e di un sovrastante vano, al livello della via nazionale, di circa 20 mq. ciascuno - che assumevano posseduto senza titolo dai convenuti nei confronti dei quali hanno chiesto condanna al rilascio ed ai danni.

Costituendosi, Mo.Br. Vi. ha proposto domanda riconvenzionale di usucapione, mentre Ra.Ca. e' rimasta contumace.

L'adito tribunale ha rigettato entrambe le domande sulla considerazione, quanto alla principale qualificata come revindica, che non fosse stata fornita la necessaria prova del vantato diritto di proprieta', e quanto alla riconvenzionale, che la prova del possesso fosse stata fornita solo a partire dal 1984, quindi per un tempo insufficiente alla pretesa usucapione.

Avverso tale decisione i consorti La. Gr. hanno proposto appello, cui ha resistito il Mo. B. V., contestualmente proponendo appello incidentale, mentre la Ra. C. e' rimasta ancora contumace.

Dei gravami ha deciso la Corte d'appello di Salerno accogliendo il principale e respingendo l'incidentale, con condanna del Mo. B. V. al rilascio dell'immobile conteso ed al risarcimento dei danni, sulla considerazione che i documenti in atti consentissero d'avere per acquisita la prova della proprieta' incombente sugli attori - ritenuta meno rigorosa a seguito della riconvenzionale per usucapione del convenuto per allegato possesso dagli anni settanta senza contestazione del titolo di proprieta' della controparte - all'uopo considerando idonea la sequela di trasferimenti dall'originario proprietario, tale risultante nel 1931, agli attuali rivendicanti, subentrati per donazione nel 1984, attraverso le successioni ereditarie dal primo alla donante e da questa ai rivendicanti, mentre dell'asserita usucapione da parte del convenuto, tra l'altro immesso nella disponibilita' dell'immobile a titolo di detenzione e diffidato al rilascio sin dal 1984 senza contestazioni al riguardo, non era risultata neppure idonea prova dell'elemento temporale.

Avverso tale decisione propongono distinte impugnazioni per Cassazione tanto la Ra. C. quanto il Mo. B. V., con ricorsi affidati, rispettivamente, a tre motivi ciascuno.

Resistono a ciascuno di essi, con separati controricorsi, i consorti La. Gr..

Dispostasi con ordinanza 9.2.07 l'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'Ri.An. quale procuratore di La. Gr. Di., all'uopo i ricorrenti hanno tempestivamente provveduto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 - I due ricorsi 17859/05 e 18043/05, proposti avverso la medesima sentenza, vanno riuniti ex articolo 335 c.p.c. ma esaminati separatamente.

2 - Ricorso RG 17859/05 - Ra. C..

Con il primo motivo, la ricorrente - denunziando violazione dell'articolo 292 c.p.c. ed omessa motivazione - si duole che il giudice a quo abbia mancato di rilevare e/o valutare e decidere sul fatto che, propostosi appello incidentale dal Mo. B. V., l'atto dovesse esserle notificato.

Il motivo non merita accoglimento.

La contumacia del soggetto comunque interessato all'attuazione dell'ordinamento attraverso il processo - contumacia che ha quale presupposto la rituale chiamata del soggetto stesso a partecipare al giudizio ed a far valere in esso tutte le proprie ragioni eventualmente difformi da quelle degli altri soggetti interessati e tutte le proprie considerazioni in ordine alle situazioni che eventualmente emergano nel corso dell'istruttoria - implica, infatti, la rinunzia di questi, quale espressione dell'autonomia privata nella valutazione dell'interesse proprio e delle modalita' di realizzarlo, a contestare tanto le pretese dei detti altri soggetti, quanto l'eventuale evoluzione modificativa della situazione, quale originariamente dedotta in giudizio, a seguito dello svolgimento dell'iter processuale.

Tant'e' che il legislatore ha limitato a quelle espressamente previste con l'articolo 292 c.p.c. le ipotesi nelle quali il contumace - resosi per sua autonoma scelta estraneo al giudizio e pertanto a tutto quel che nel corso ed all'esito di esso avvenir possa - debba essere nuovamente contattato e portato a conoscenza di fatti od atti del processo; ipotesi che attengono a comportamenti richiesti al soggetto stesso, la cui omissione possa essere considerata significativa ai fini della decisione, od a modificazioni dei termini nei quali era stata originariamente impostata la controversia e tali, pertanto, da comportare una decisione diversa da quella ipotizzabile come conseguente all'atto introduttivo originario.

Pertanto, l'appello incidentale che il comparente - citato in secondo grado dall'appellante principale unitamente ad altro soggetto rimasto contumace - proponga nei confronti della controparte, ove abbia ad oggetto censure avverso capi dell'impugnata sentenza sfavorevoli ad una pretesa comune al deducente ed al contumace mantenendosi negli stessi limiti di causa petendi e petitum svolti nelle difese hinc et inde in primo grado, non puo' essere considerato come portatore d'una questione nuova e/o riconvenzionale, onde non ne e' necessaria la notificazione, ai sensi dell'articolo 292 c.p.c., comma 1, alla parte contumace, mentre tale notifica sarebbe ex lege necessaria ove la domanda proposta producesse, ove accolta, effetti sfavorevoli nei confronti di quest'ultima o si fondasse su di un titolo giuridico o contenesse pretese diversi da quelli fatti valere nel giudizio di primo grado, atteso che in tale ipotesi si verificherebbe una mutazione, anche oggettiva, del rapporto processuale che dovrebbe essere necessariamente portata a conoscenza dell'interessato contumace, in assolvimento dell'onere espressamente imposto dalla norma sopra richiamata.

L'atto in questione, cosi' nell'intestazione come nel contenuto, e' solo un appello incidentale del soggetto portatore del medesimo interesse del contumace e riproduce le difese gia' svolte in primo grado e note al contumace stesso per essergli stata notificata (al riguardo non c'e', infatti, contestazione) la citazione con domanda riconvenzionale proposta in detto grado; non trattavasi, dunque, di domanda nuova e non necessitava, pertanto, di notifica nei confronti dell'appellata contumace, essendone sufficiente il deposito in cancelleria giusta il disposto dell'articolo 292 c.p.c., comma 11.

Con il secondo motivo, la ricorrente - denunziando violazione degli articoli 948 e 2697 c.c. e vizi di motivazione - si duole che il giudice a quo abbia ravvisato nel caso di specie un'ipotesi d'attenuazione dell'onere probatorio dell'attore in revindica sulla considerazione della riconvenzionale per usucapione proposta dal convenuto, sebbene questa non avesse comportato alcun riconoscimento dell'avversa pretesa ed attenesse a stato di fatto anteriore al dedotto titolo d'acquisto, e per tale abbia ritenuto valida la donazione dalla Di. Ma.Be. al dante causa dei rivendicanti La. Gr. Pi., nonostante il difetto di prova della proprieta' in capo ai precedenti danti causa e l'inidoneita' temporale dello stesso a dimostrare un acquisto per usucapione.

Il motivo non merita accoglimento.

Principio fondamentale, in materia, e' quello per cui, nel giudizio di revindica, l'attore e' onerato della prova dell'asserito diritto dominicale mediante la rigorosa dimostrazione del titolo originario d'acquisto del bene - in ragione o della progressione risalente dei titoli derivativi sino all'originario costitutivo, o del possesso ad usucapione, anche per accessione sino al compimento del ventennio - con la precisazione, tuttavia, che il principio stesso dev'essere interpretato in relazione alle peculiarita' di ciascun caso concreto sottoposto all'esame del giudice del merito, dacche', in ragione di tali peculiarita', possono assumere rilevanza, non solo le caratteristiche particolari della vicenda proprietaria, ma anche il contenuto della difesa di volta in volta opposta dal convenuto, nel rispetto del diverso e piu' generale principio per cui le dichiarazioni del possessore o del detentore possono essere ritenute significative, se interpretate nel complessivo contesto di tutte le risultanze relative alla condotta del soggetto, secondo un criterio di valutazione oggettiva.

Pertanto, e' indiscutibile che il rigore dell'onere probatorio in materia di rivendicazione non possa non attenuarsi quando il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene rivendicato al comune autore o ad uno dei danti causa dell'attore, in quanto, non sussistendo tra le parti alcun conflitto in ordine all'appartenenza anteatta ma solo a quella attuale, rimane sufficiente in tal caso che il rivendicante dimostri come il bene medesimo abbia formato oggetto del proprio titolo di acquisto.

Se e' vero, poi, che il riferito criterio dell'attenuazione dell'onere della probatio diabolica a carico del rivendicante non puo' trovare applicazione nel caso in cui il convenuto proponga una domanda riconvenzionale od opponga un'eccezione d'usucapione - in quanto, essendo quest'ultima un titolo d'acquisto originario, la sua deduzione non implica alcun riconoscimento in favore della controparte ed in quanto il convenuto nel giudizio di rivendicazione non ha l'onere di fornire alcuna prova, potendo avvalersi del principio possideo quia possideo anche se opponga un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata, poiche' neppure tale difesa implica rinunzia alcuna alla vantaggiosa posizione di possesso - e' anche vero che tale criterio torna ad essere applicabile ove il convenuto stesso opponga un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo a quello del titolo del rivendicante ovvero, avendo riconosciuto l'originaria appartenenza del bene ad uno dei danti causa del rivendicante medesimo, deduca essersi verificata l'usucapione solo successivamente, in quanto, anche in tal caso, il thema disputandum pertiene all'appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell'invocata usucapione e non all'acquisto di esso da parte dell'attore, il cui onere probatorio puo', dunque, ritenersi assolto, nel fallimento dell'avversa prova della prescrizione acquisitiva, con la dimostrazione della validita' del titolo in base al quale quel bene gli e' stato trasmesso dal dominus originario.

Nel caso in esame, ricorre la seconda delle indicate ipotesi, dacche', come ha accertato il giudice a quo, senza contestazioni sul punto, l'asserito possesso ad usucapionem dell'attore in riconvenzionale risale agli anni settanta, mentre la serie continua di trasferimenti che porta alla proprieta' dei rivendicanti lo stesso giudice ha accertata, a sua volta, al 1931.

A proposito dei quali accertamenti, la ricorrente contesta l'idoneita' degli elementi presi in considerazione dal giudice a quo - dati catastali nonche' testamento del Di. Ma.Lu. in favore della figlia Be. e donazione da quest'ultima al figlio La. Gr.Gi. - a fornire la prova della proprieta' ex adverso rivendicata e richiama la giurisprudenza di questa Corte in materia.

Non tiene conto, tuttavia, che la stessa giurisprudenza, nel negare loro, singolarmente considerati, il valore di prova piena ai fini della dimostrazione del diritto di proprieta', attribuisce, non di meno, a ciascuno dei detti elementi, un valore indiziario che, se adeguatamente valutato con rigore logico, puo' essere sufficiente a giustificare di per se stesso il convincimento in ordine all'appartenenza del bene (e pluribus, Cass. 8.11.02 n. 15716, 21.2.94 n. 1650, 14.4.76 n. 1314); ond'e' che, a maggior ragione, nel concorso di piu' elementi di tal sorta, il giudice ben puo' utilizzarli, con una valutazione degli stessi globale e sintetica, nella formazione del proprio convincimento, in funzione della loro pluralita', univocita' e concordanza, in quanto la proprieta', quale stato di fatto rilevante sul piano giuridico, puo' essere desunta anche da mezzi indiretti nonche' da presunzioni (Cass. 3 0.11.76 n. 318, 11.2.76 n. 455, 25.5.79 n. 3028, 24.11.79 n. 6163, 16.12.81 n. 6666, 13.8.85 n. 4432, 16.12.86 n. 7557).

Si duole ancora la ricorrente - denunziando con ulteriore censura la violazione dell'articolo 345 c.p.c. nonche' vizio d'omessa motivazione - che il giudice a quo non abbia rilevato l'inammissibilita', nel giudizio di secondo grado, della documentazione prodotta dalla controparte a sostegno della proposta revindica.

Il motivo e' inammissibile.

La questione prospettatvi, in vero, dell'invalida avversa produzione in appello dei nuovi documenti sui quali e' basato lo specifico capo di pronunzia oggetto di cen-sura, non ha formato oggetto di trattazione nel giudizio d'appello, secondo quanto risulta dall'esame delle componenti essenziali dell'impugnata sentenza - conclusioni delle parti riportate nell'epigrafe ed, inoltre, motivi dell'impugnazione riportati all'inizio della motivazione; esposizione del fatto; motivazione - contro la quale non e' stata formulata alcuna puntuale e rituale censura ex articolo 112 c.p.c. per omesso esame ed omessa pronunzia in ordine alla stessa ne', per il vero, la ricorrente deduce d'averla gia' sollevata nel giudizio a quo, mentre denunzia un non pertinente vizio di motivazione.

Come ripetutamente evidenziato da questa Corte, infatti, l'omessa pronuncia, quale vizio della sentenza, dev'essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell'articolo 112 c.p.c. e non gia' con la denunzia della violazione di norme di diritto sostanziale ovvero del vizio di motivazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 24.6.02 n. 9159, 11.1.02 n. 317, 27.9.00 n. 12790, 28.8.00 n. 11260, 10.4.00 n. 4496, 6.11.99 n. 12366); perche', poi, possa utilmente dedursi il detto vizio, e' necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile, e, dall'altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per Cassazione, con l'indicazione specifica, altresi', dell'atto difensivo del giudizio di secondo grado nei quali l'una o l'altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualita' e la tempestivita' ed, in secondo luogo, la decisivita' delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell'articolo 112 c.p.c., cio' che configura un'ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte e' giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere - dovere del giudice di legittimita' d'esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all'adempimento da parte del ricorrente, per il principio d'autosufficienza del ricorso per Cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell'onere d'indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 23.9.02 n. 13833, 11.1.02 n. 317, 10.5.01 n. 6502).

Ne', quand'anche avesse sollevato la questione (ma non l'ha fatto e cio' e', comunque, assorbente), la ricorrente avrebbe potuto fondatamente dolersi, per le ragioni in precedenza esposte in relazione alla tassativita' delle ipotesi di comunicazione di atti al contumace ex articolo 292 c.p.c., di non aver avuto notizia in ordine a tale produzione, trattandosi di atti amministrativi e inter alios inidonei ad assumere l'efficacia probatoria del riconoscimento tacito di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 317/89 (nello specifico: Cass. 10.3.94 n. 2602, 22.12.86 n. 7849).

Pertanto, poiche' la questione dedotta con i motivi in esame introduce temi di dibattito completamente nuovi, implicando una decisione su elementi di giudizio in fatto che non hanno formato oggetto di contraddittorio nella fase di merito, stanti la natura ed i limiti del giudizio di legittimita', che ha per oggetto solo la revisione della sentenza impugnata in rapporto alla regolarita' formale del processo ed alle questioni di diritto nello stesso gia' proposte, non puo' essere presa in considerazione.

In proposito questa Corte ha, infatti, avuto ripetutamente occasione d'evidenziare come i motivi del ricorso per Cassazione debbano investire, a pena d'inammissibilita', statuizioni e questioni che abbiano gia' formato oggetto di gravame e che siano, dunque, gia' comprese nel thema decidendum del giudizio di secondo grado quale fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti, mentre non e' consentita, a parte le questioni rilevabili anche d'ufficio, la prospettazione di questioni che modifichino la precedente impostazione difensiva ponendo a fondamento delle domande od eccezioni titoli diversi da quelli fatti valere nella fase di merito o questioni di diritto fondate su elementi di fatto nuovi o diversi da quelli dedotti in detta fase (e pluribus, Cass. 22.10.02 n. 14905, 16.9.02 n. 13470, 21.6.02 n. 9097, ma gia' Cass. 9.12.99 n. 13819, 4.10.99 n. 11021, 19.5.99 n. 4852, 15.4.99 n. 3737, 15.5.98 n. 4910).

3 - Ricorso 18043/05 - Mo. B. V..

I primi due motivi del ricorso in esame riproducono testualmente i motivi secondo e terzo del ricorso Ra. C. e vanno, pertanto, disattesi per le medesime ragioni.

Con il terzo motivo, il ricorrente - denunziando violazione degli articoli 1140 e 1158 c.c., e degli articoli 115 e 116 c.p.c., errata ed inesatta valutazione delle risultanze istruttorie, vizi di motivazione - si duole che il giudice a quo ne abbia respinto l'appello incidentale, con il quale aveva impugnato il capo della sentenza di primo grado a sua volta reiettivo della sua domanda d'usucapione, omettendo d'operare una valutazione ragionevole del contenuto e dell'efficacia delle fonti dell'espresso convincimento, dalle quali era a suo avviso risultata, per contro, una situazione possessoria temporalmente idonea alla pretesa usucapione.

Il motivo non merita accoglimento per difetto di specificita' in relazione ad entrambi i profili di denunziata illegittimita' della sentenza impugnata, donde la sua inammissibilita'.

Anzi tutto, va rilevato come il vizio della sentenza previsto dall'articolo 360 c.p.c., n. 3, debba essere dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimita' e/o dalla prevalente dottrina, diversamente non ponendosi la Corte regolatrice in condizione d'adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione; ond'e' che risulta inidoneamente formulata, ai fini dell'ammissibilita' del motivo di ricorso dedotto ai sensi della disposizione in esame, la critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito, nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata dal ricorrente non mediante puntuali contestazioni delle soluzioni stesse nell'ambito d'una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo, bensi' mediante la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata ed, a maggior ragione, la totale mancanza - come nella specie - di prospettazioni in diritto.

Tanto meno puo', poi - come con il motivo in esame - ricondursi nell'ambito d'una censura per violazione di legge idoneamente formulata, secondo i principi sopra precisati, la deduzione con la quale si contesti al giudice del merito non di non aver correttamente individuato la norma regolatrice della questione controversa o di averla applicata in difformita' dal suo contenuto precettivo, bensi' di avere o non avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d'una determinata fattispecie normativamente regolata, il che non comporta un giudizio di diritto, bensi' un giudizio di fatto, da impugnarsi, se del caso, sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. 30.3.05 n. 6654, 29.4.02 n. 6224, 18.3.95 n. 3205, 10.1.95 n. 228).

Profilo che, tuttavia, non risulta idoneamente prospettato, dacche' vi si deduce come omissione e contraddittorieta' della motivazione non un vizio logico della stessa, ma una pretesa erronea o mancata valutazione delle risultanze istruttorie.

Al qual proposito devesi considerare che la violazione dell'articolo 115 c.p.c. puo' essere imputata al giudice del merito sotto due distinti profili: da un lato, ove, nell'esercizio del suo potere discrezionale quanto alla scelta ed alla valutazione degli elementi probatori - donde la mancanza d'uno specifico dovere d'esame di tutte le risultanze e di confutazione dettagliata delle singole argomentazioni svolte dalle parti, del che meglio in seguito - ometta tuttavia di valutare quelle risultanze delle quali la parte abbia espressamente dedotto la decisivita', salvo ad escluderne la rilevanza in concreto indicando, sia pure succintamente, le ragioni del suo convincimento, il difetto della quale indicazione ridonda, peraltro, in vizio della motivazione; dall'altro, ove, in contrasto con i principi della disponibilita' e del contraddittorio delle parti sulle prove, ponga a base della decisione o fatti ai quali erroneamente attribuisca il carattere della notorieta' o la propria scienza personale, cosi' dando ingresso a prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati ne' discussi ai quali non puo' essere riconosciuto, in legittima deroga ai richiamati principi, il carattere dell'universalita' della conoscenza e, quindi, dell'autonoma sussumibilita' nel materiale probatorio utilizzabile ai fini della decisione.

E', dunque, solo l'esorbitanza da tali limiti, che deve peraltro essere specificamente e motivatamente denunziata, ad essere suscettibile di sindacato in sede di legittimita' per violazione dell'articolo 115 c.p.c., sindacato che, con riferimento a tale norma, non puo' essere, invece, esteso all'apprezzamento espresso dal giudice del merito in esito alla valutazione delle prove ritualmente acquisite, apprezzamento che e' autonomamente regolato dal successivo articolo 116 c.p.c., comma 1.

Il quale articolo 116 c.p.c., comma 1, sancisce la fine del sistema fondato sulla predeterminazione legale dell'efficacia della prova, conservando solo specifiche ipotesi di fattispecie di prova legale, e con la formula del "prudente apprezzamento" vi si allude alla ragionevole discrezionalita' del giudice nella valutazione della prova, che va compiuta tramite l'impiego di massime d'esperienza; onde la doglianza con la quale si denunzi che il giudice abbia fatto un cattivo uso del suo "prudente apprezzamento" nella valutazione della prova si risolve in una doglianza non sulla violazione della norma de qua ma sulla motivazione della sentenza, che puo' trovare ingresso in sede di legittimita' solo nei limiti entro i quali e' ammissibile il sindacato da parte della cassazione sulla sulle ragioni giustificatrici allegate dal giudice a supporto dell'adottata decisione.

A tal fine va osservato che e' devoluta al giudice del merito l'individuazione delle fonti del proprio convincimento e, pertanto, lo sono anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilita' e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l'unico limite dell'adeguata e congrua giustificazione del criterio adottato; conseguentemente, ai fini d'una corretta decisione, il giudice non e' tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, ne' a confutare singolarmente le argomentazioni prospettategli dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento e l'iter seguito nella valutazione degli stessi onde pervenire alle assunte conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata.

Pertanto, vizi motivazionali in tema di valutazione delle risultanze istruttorie non possono essere utilmente dedotti ove la censura si limiti - come nella specie - alla contestazione d'una valutazione delle prove effettuata in senso difforme da quello preteso dalla parte, perche' proprio a norma dell'articolo 116 c.p.c., comma 1, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito l'individuare le fonti del proprio convincimento, il valutare all'uopo le prove, il controllarne l'attendibilita' e la concludenza e lo scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti.

Devesi, inoltre, considerare come, allorche' sia denunziato, con il ricorso per Cassazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5, un vizio di motivazione della sentenza impugnata, della quale si deducano l'incongruita' e/o l'insufficienza delle argomentazioni svoltevi in ordine alle prove, per asserita omessa od erronea valutazione delle risultanze processuali, sia necessario, in ottemperanza al principio d'autosufficienza del ricorso - posto al fine di consentire al giudice di legittimita' il controllo, tra l'altro, anche sulla decisivita' degli elementi di giudizio assuntivamente non valutati od erroneamente valutati - che il ricorrente indichi puntualmente ciascuna delle risultanze istruttorie alle quali fa riferimento e ne specifichi il contenuto mediante loro sintetica ma esauriente esposizione ed, all'occorrenza (come il caso di specie avrebbe richiesto), integrale trascrizione nel ricorso, non essendo idonei all'uopo il semplice richiamo agli elementi di giudizio acquisiti nella fase di merito e la prospettazione del valore probatorio di essi quale inteso soggettivamente dalla parte in contrapposizione alle valutazioni effettuate dal giudice di quella fase con la sentenza impugnata in ordine al complesso delle acquisizioni probatorie e/o a quelle di esse ritenute rilevanti ai fini dell'adottata decisione e, tanto meno, inammissibili richiami per relationem agli atti della precedente fase del giudizio.

Nella specie, la censura ex articolo 360 c.p.c., n. 5, gia' non intesa a contestare la ratio decidendi ma a prospettare una diversa interpretazione degli elementi di giudizio posti dal giudice a quo alla base dell'adottata decisione, estranea alle valutazioni rimesse al giudice della legittimita' e per cio' solo inammissibile, neppure risulta adeguatamente specifica in ordine alle risultanze istruttorie delle quali denunzia l'erronea od insufficiente valutazione, e tale inottemperanza al principio d'autosufficienza del ricorso per Cassazione ne e' ulteriore motivo d'inammissibilita', risultandone violati i principi d'autosufficienza e preclusione.

Non senza considerare, sia pure solo per completezza argomentativa, che la motivazione fornita dal detto giudice all'assunta decisione risulta logica e sufficiente, basata com'e' su considerazioni adeguate in ordine alla valenza oggettiva dei vari elementi di giudizio risultanti dagli atti e su razionali valutazioni di essi; un giudizio operato, pertanto, nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell'articolo 360 c.p.c., n. 5, la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente e' inidonea a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa.

4 - Nessuno degli esaminati motivi risultando meritevole d'accoglimento, entrambi i ricorsi vanno, dunque, respinti.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza per ciascuno dei ricorrenti.

P.Q.M.

LA CORTE

Riuniti i ricorsi, li respinge e condanna ciascuno dei ricorrenti alle spese in favore dei resistenti in solido, spese che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 2.500,00 per onorari, oltre ad accessori di legge, a carico di Ra. Ca. ed in pari misura a carico di Mo. Br. Vi..

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