E' sempre reato assumere sostanze dopanti in vista di una gara sportiva

E' sempre reato assumere sostanze dopanti in vista di una gara sportiva, perché la legge intende tutelare il bene primario dell’integrità psico – fisica degli atleti. E' quanto stabilito dalla Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, che ha così annullato la sentenza del Tribunale di Perugia che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano sul caso di un calciatore del Perugia trovato positivo al test antidoping per avere assunto nandrolone in territorio straniero. Secondo la S.C., poichè la condotta incriminata è stata realizzata in territorio italiano, sulla stessa è competente il giudice nazionale. Il collegio ha, altresì, ricordato che l’attività sportiva è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva e deve essere informata al rispetto dei principi etici e dei valori educativi richiamati dalla Convenzione di Strasburgo del 16 novembre 1989.



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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE


SEZIONE TERZA PENALE


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale monocratico di Perugia – con sentenza del 23.2.2006 pronunziata all’esito di giudizio celebrato con il rito abbreviato – affermando l’improcedibilità dell’azione penale derivante da difetto della giurisdizione italiana, dichiarava non doversi procedere nei confronti di A. G. S. in relazione al reato di cui:

- all’art. 9, comma 1, della legge 14.12.2000, n. 376 [per avere, quale calciatore professionista della squadra di calcio del "Perugia", assunto la sostanza denominata nandrolone, farmacologicamente attiva, non giustificata da condizioni patologiche ed idonea a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le proprie prestazioni agonistiche – acc. in Perugia, in occasione dell’incontro di calcio Perugia – Reggina disputato il 5.10.2003].

Il Tribunale evidenziava che:

- la presenza di un metabolita del nandrolone nell’urina dell’imputato, rilevata in seguito all’esame antidoping effettuato a termine dell’incontro tra le squadre di calcio Perugia e Reggina disputato il 5.10.2003, poteva razionalmente ritenersi conseguenza della somministrazione per via intramuscolare a quel calciatore, in Libia e nel giugno del 2003, di una fiala di "decadurabolin", contenente mg. 25 di "nandrolone undecanoato", al fine di porre rimedio ad una osteo-mialgia;

- Il fatto delittuoso, conseguentemente, doveva considerarsi "commesso all’estero", poiché l’intera condotta si sarebbe perfezionata in Libia in quanto "il reato oggetto dell’imputazione si consuma con l’assunzione del farmaco dopante, sia pur finalizzata all’alterazione della prestazione sportiva".

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Perugia, il quale ha eccepito la violazione dell’art. 9, 1° comma, della legge n. 376/2000, prospettando che la mera assunzione del farmaco dopante, non giustificata dalle condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, non rappresenta il momento consumativo del reato: questo, invece, essendosi in presenza di una condotta orientata e finalizzata alla alterazione della prestazione agonistica dell’atleta, andrebbe individuato proprio nell’effettiva esecuzione di tale prestazione. Nella, specie, pertanto, il reato si sarebbe consumato in Perugia, in coincidenza con la partita di calcio tenutasi il 5 ottobre 2003.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

1. Appare opportuno premettere una breve ricostruzione dei fatti, per consentire una più agevole comprensione della vicenda processuale.

Nell’estate del 2003 la squadra di calcio del Perugia, militante nel campionato di serie A, acquisì le prestazioni del calciatore S. A. G., figlio del premier libico e capitano della nazionale di calcio del suo Paese.

L’atleta giunse in Italia nel luglio di quell’anno, ma venne convocato dall’allenatore, per la prima volta, soltanto in occasione dell’incontro tra le squadre del Perugia e della Reggina tenutosi il 5 ottobre 2003.

Egli non fu utilizzato direttamente in quella partita, restando in panchina tra le riserve: al termine dell’incontro, però, venne sottoposto a rituale esame antidoping, in esito al quale risultò positivo al test, essendo state rinvenute nella sua urina tracce di norandrosterone, un metabolita del nandrolone, in percentuale di 4,6 ngt/ml., superiore al limite di tollerabilità (di 2 ngt/ml. per gli uomini) stabilito dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale).

Il giocatore rinunciò alla facoltà di ottenere una revisione delle analisi effettuate e, in sede di inchiesta sportiva, riferì al Procuratore antidoping di trattamenti farmacologici assunti nel corso del 2003 e prescrittigli sia da medici libici sia da un medico tedesco di sua fiducia al fine di fronteggiare gravi problemi articolari e ossei alla schiena ed uno stato di profonda astenia. In particolare prospettò – quale una delle probabili cause della presenza nell’urina del metabolita del nandrolone – il residuo di una fiala di "decadurabolin", contenente mg. 25 di "nandrolone undecanoato", somministratagli per via intramuscolare in Libia, da tale dottore M. A., nel giugno del 2003.

La Commissione Disciplinare sportiva, anche sulla base di un parere espresso dal professore Luigi Frati, componente della Commissione Scientifica Antidoping, comminò all’A. G., in data 16.1.2004, la sanzione della sospensione per tre mesi, dando credito alla tesi dell’assunzione di nandrolone attraverso la fiala di "decadurabolin" ed escludendo l’ipotesi di assunzione intenzionale di sostanza dopante.

Nel corso delle indagini penali il Pm affidò una consulenza al dr. Dario D’Ottavio, le risultanze della quale hanno:

- escluso la possibilità di una produzione endogena di nandrolone superiore al limite di tollerabilità fissato dal CIO in 2 ngt/ml., e ciò pure a fronte di una pretesa infezione da cestodi (correlazione prospettata, quale ulteriore ipotesi, dalla difesa);

- affermato che un’iniezione per via intramuscolare di un estere del nandrolone può determinare la presenza per molti mesi dei suoi metabolici nell’urina, potendosi in particolare ricollegare tale presenza, a distanza di tempo, alla formazione di accumuli di detto estere nei tessuti adiposi, da cui verrebbe poi a mano a mano rilasciato;

- evidenziato la possibilità di ipotizzare, comunque, un’assunzione per via orale di nandrolone o di suoi precursori, se del caso per il tramite di integratori, di poco precedente la data delle analisi.

A fronte di tali conclusioni del consulente del Pm e di un’ampia documentazione prodotta dalla difesa, il Tribunale di Perugia ha considerato attendibile la tesi difensiva dell’assunzione risalente nel tempo per via intramuscolare, ponendo in rilievo "l’inemendabile assenza di adeguati supporti probatori della diversa tesi di un’assunzione per via orale del nandrolone o di suoi precursori, in tempi assai prossimi alla data fissata per l’incontro di calcio in oggetto".

2. L’individuazione del momento consumativo del reato contestato ad A. G. è legata ovviamente al verificarsi di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie legale, ma – trattandosi di un reato interpretabile in chiave di offesa – un riscontro siffatto va effettuato, comunque, anche alla stregua del principio di offensività.

L’art. 1 della legge n. 376/2000 stabilisce:

- al primo comma, che "l’attività sportiva è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva e deve essere informata al rispetto dei principi etici e dei valori educativi richiamati dalla Convenzione contro il doping, con appendice, fatta a Strasburgo il 16 novembre 1989, ratificata ai sensi della legge 29 novembre 1995, n. 522. Ad essa si applicano i controlli previsti dalle vigenti normative in tema di tutela della salute e della regolarità delle gare e non può essere svolta con l’ausilio di tecniche, metodologie e sostanze di qualsiasi natura che possano mettere in pericolo l’integrità psicofisica degli atleti".

- al secondo comma, che "costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti".

Ai sensi dell’art. 9, 1° comma, della stessa legge n. 376/2000, "salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da euro 2.582 ad euro 51.645 chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze".

L’oggetto della tutela che il legislatore ha inteso assicurare attraverso l’introduzione delle fattispecie penali descritte nell’art. 9, dianzi trascritto, va individuato – anzitutto – nel bene personale primario della integrità psico-fisica dei partecipanti ad un’attività sportiva.

L’art. 1 della legge n. 376/2000 espressamente riconosce, infatti, all’attività sportiva una funzione di "promozione della salute individuale e collettiva", vietando che la stessa sia svolta "con l’ausilio di tecniche, metodologie e sostanze di qualsiasi natura che possano mettere in pericolo l’integrità psicofisica degli atleti".

Il bene dell’integrità personale trascende la libera disponibilità del singolo per effetto della sua connessione diretta con il valore costituzionale della salute, che l’art. 32 della Costituzione riconosce e tutela, oltre che come diritto fondamentale dell’individuo, anche come interesse della collettività.

Accanto alla protezione del bene-salute le fattispecie incriminatrici di cui all’art. 9 della legge n. 376/2000 sono rivolte, però, a tutelare pure il leale e regolare svolgimento delle competizioni sportive, nonché a salvaguardare i principi etici ed i valori educativi espressi dall’attività sportiva (vedi Cass., Sez. Unite, 29.11.2005 – 25.1.2006, n. 3087, ric. P.M. in proc. Cori ed altri).

3. Il reato di illecita assunzione di sostanze dopanti e reato di pura condotta (poiché la legge non richiede che l’azione produca anche un determinato effetto esteriore) e di pericolo presunto (per la sua funzione di tutela anticipata dei beni protetti).

La configurazione dello stesso si articola attraverso la previsione della stretta relazione che deve intercorrere tra l’assunzione della sostanza vietata in assenza di specifiche esigenze terapeutiche, i suoi effetti modificativi delle condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo e la finalizzazione alla "alterazione" della prestazione agonistica.

Nell’ottica interrelazionale anzidetta appare evidente che, sotto il profilo della causalità adeguata e con giudizio prognostico ex ante, il pericolo (correlato alla duplice tutela della salute e del leale e regolare svolgimento delle competizioni sportive) sussiste fino a quando la sostanza dopante è idonea a modificare le condizioni psicofisiche e biologiche dell’atleta che l’ha assunta (condizione evidenziata appunto dalla positività del test antidoping); sicché, allorquando una situazione siffatta venga riscontrata in occasione dello svolgimento di una precipua prestazione agonistica, deve convenirsi che l’iter criminis non possa considerarsi precedentemente esaurito.

Il riconoscimento della pericolosità (intesa quale idoneità a modificare le condizioni psicofisiche e biologiche dell’atleta), inoltre, è già insito nell’inserimento di una determinata sostanza, ovvero nelle previsione di soglie di concentrazione non consentite di essa, nelle liste di riferimento delle classi farmacologiche di sostanze dopanti e di metodi doping vietati stabilite dalle organizzazioni internazionali, con la conseguenza il giudice non deve accertare, di volta in volta, la concreta attitudine offensiva, per qualità e quantità, delle sostanze assunte o somministrate.

Allorquando si individuasse il momento consumativo del reato ipotizzato nel mero atto istantaneo di assunzione della sostanza dopante (attraverso le diverse modalità di somministrazione della stessa) potrebbe pervenirsi, tra l’altro, all’inaccettabile conseguenza che un atleta deliberatamente decida di assumere detta sostanza nel territorio di uno Stato che non reprime o che comunque disciplina con regole più benevoli il fenomeno doping, con la finalità di effettuare poi la prestazione agonistica (alla quale l’assunzione è finalizzata) nel territorio dello Stato italiano, pretendendo di non violare, attraverso tale espediente, la normativa penale vigente nel nostro Paese, che è rivolta invece anche a salvaguardare i principi etici ed i valori educativi espressi dall’attività sportiva.

4. Appare opportuno ricordare che – successivamente all’accertamento del fatto per il quale si è proceduto – il Regolamento dell’attività antidoping, attuativo del Codice mondiale antidoping Wada (World Anti Doping Agency), approvato dalla Giunta nazionale del CONI con deliberazione n. 482 del 21.10.2003, come modificato ed integrato, ha previsto che gli atleti affetti da una patologia documentata che necessita l’uso di una sostanza vietata o di un metodo proibito possano richiedere di essere autorizzati all’uso della sostanza o del metodo (c.d. esenzione a fini terapeutici).

Un apposito Disciplinare per l’esenzione a fini terapeutici (EFT) del CONI fissa i criteri e le procedure per la concessione dell’esenzione in oggetto – anteriore all’inizio della terapia ed alla partecipazione ad un evento agonistico – prevedendo che, in ogni caso, l’uso terapeutico non può produrre un miglioramento della prestazione, salvo sia attribuibile al ritorno allo stato di salute normale dopo il trattamento della patologia medica accertata, e prescrivendo che non deve esistere "ragionevole terapia alternativa" all’uso del farmaco o metodo vietato.

Eccezionalmente viene prevista pure la possibilità di una autorizzazione retroattiva, allorquando si sia reso necessario un trattamento di emergenza o un trattamento per una patologia medica acuta, oppure a causa di circostanze eccezionali, il richiedente non abbia avuto la possibilità o il tempo sufficiente per presentare tempestiva domanda ovvero tale domanda non abbia potuto avere sollecita istruzione.

5. Alla stregua delle considerazioni dianzi svolte va rilevato in conclusione, che, nella vicenda in esame, il Tribunale monocratico di Perugia ha erroneamente escluso la giurisdizione italiana, sul mero ed erroneo presupposto che la condotta delittuosa dell’imputato possa considerarsi limitata ed esaurita al momento della somministrazione per via intramuscolare, in Libia, di una fiala di "decadurabolin", contenente mg. 25 di "nandrolone undecanoato".

A fronte della successiva partecipazione ad una gara sportiva in territorio italiano, invece, e della rilevata presenza, in detta occasione, di sostanza dopante in limiti non consentiti nell’organismo dell’atleta, si doveva ravvisare l’estrinsecazione di una condotta penalmente rilevante posta in essere in territorio italiano ed effettuare, quindi, i necessari accertamenti riguardanti la sussistenza dei profili oggettivi e soggettivi di responsabilità caratterizzanti la fattispecie delittuosa contestata.

Si impone, conseguentemente, l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Perugia per nuovo giudizio.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 608, 615 e 623 c.p.p., annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Perugia.

Depositata in Cancelleria l’11 luglio 2007.

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