Il rapporto di convivenza esclude il reto di abbandono di persona incapace

Il rapporto di convivenza, quale rapporto di fatto non disciplinato dalla legge, è privo di rilevanza penale ex articolo 591 del Cp, in quanto non può estendersi a esso, perché si incorrerebbe in un'inammissibile interpretazione analogica in malam partem, il disposto dell'articolo 143, comma 2, del Cc, che limita ai soli coniugi l'obbligo all'assistenza morale e materiale. Sarebbe infatti contra legem, in un sistema retto dal principio di legalità, rendere applicabile la norma penale anche alle violazioni di obblighi morali o di solidarietà, e quindi anche nei confronti delle famiglie di fatto, ovvero di coloro che convivono more uxorio. L'omissione di soccorso resta preclusa in tutti i casi in cui il dovere di soccorrere non sussiste. In particolare, non è configurabile tale dovere in caso di dissenso del soggetto ferito o altrimenti in pericolo, vale a dire quando questi opponga un rifiuto all'assistenza, implicante interventi chirurgici e farmacologici sul proprio corpo e, quindi, atti di disposizione dello stesso. (Corte d'assise di Milano, Sez. I, sentenza 24 luglio 2007 n. 11).



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Fatto e motivi della decisione

1. Con decreto emesso in data 14 dicembre 2005, (A), nato a Palermo 15 luglio 1946 e residente a Milano, in Via Comacchio, n. 4, veniva tratto a giudizio davanti a questa Corte di Assise, per rispondere:
del reato p. e p. dall'art. 591, commi 1 e 3 (c.p.) per avere abbandonato (B), persona incapace di provvedere a se stessa per malattia, ed in particolare per non averla assistita adeguatamente, anche mediante ricovero, lasciandola da sola presso la propria abitazione in pietose condizioni di vita aggravando in tal modo la malattia dalla stessa sofferta e cagionandone anticipatamente la morte in data 20/5/02.
Commesso in Milano fino al 19/5/2002 (sic!).
2. Il dibattimento, svoltosi in contumacia dell'imputato, aveva inizio il 20 aprile 2006: in tale udienza la Corte ammetteva tutte le prove orali e documentali richieste dalle parti. Il dibattimento veniva quindi sospeso e rinviato, sull'accordo delle parti, all'udienza del 12 ottobre 2006.
Nel corso della successiva udienza del 27 marzo, del pari concordata con le parti, la Corte conferiva incarico peritale al dr. (C) dell'istituto di Medicina legale dell'Università di Milano, affinché accertasse la causa del decesso della donna e, in particolare, la sussistenza o meno di un rapporto di causalità materiale tra lo stato di abbandono e il decesso; nonché il periodo di insorgenza della malattia che l'aveva portata alla morte. Veniva inoltre chiesto al perito di riferire sulle condizioni psico-fisiche della donna con accertata malattia neoplastica metastatizzata, con particolare riferimento ai giorni immediatamente precedenti il ricovero ospedaliero, e sulla sua capacità di provvedere a se stessa.
Nel corso della medesima udienza la Corte, su accordo delle parti, acquisiva al fascicolo per il dibattimento tutti gli atti inseriti in quello del pubblico ministero.
Il dibattimento proseguiva all'udienza del 2 luglio 2007.
In data odierna il P. M. e la difesa dell'imputato, dopo brevi chiarimenti richiesti al perito dr. (C), hanno formulato ed illustrato le loro rispettive conclusioni.
La Corte si è quindi ritirata in camera di consiglio per deliberare.
3. (B), nata il 30 maggio 1946, nubile e priva di parenti, come risulta dalla certificazione anagrafica in atti, era giunta in condizioni disperate presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale Maggiore di Milano - Ospedale Policlinico alle ore 21,50 del 18 maggio 2002.
Dalla documentazione sanitaria, inserita nel fascicolo per il dibattimento, risulta che la donna era stata trovata a letto e che il convivente aveva dichiarato che da quasi due mesi era allettata.
I lettighieri avevano riferito che l'ambiente domestico era in condizioni d'igiene scadentissime.
La paziente era sveglia, pallida, disidratata, confabulante, cachettica. Le condizioni igieniche erano scarsissime. La mammella destra presentava una vasta probabile neoplasia ulcerata, necrotica, con metastasi diffuse cutanee. Erano presenti noduli nerastri probabilmente metastatici in regione sovraclavecolare, spalla e braccio destro. L'arto superiore destro appariva edematoso come da linfedema da stasi. L'arto inferiore destro era extraruotato, accorciato, non in asse, con probabile frattura scomposta di femore di vecchia data, mai trattata. Presenti infine feci biliari nella zona glutea e alla radice delle cosce e a livello sacro-lombare.
Dagli esami ematochimici era emerso, oltre ad una insufficienza renale, un grave stato di anemizzazione.
Alle ore 2,01 del 19 maggio 2002 la paziente veniva ricoverata presso l'Unità di Medicina di Via Pace.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno alla donna, in preda a dolori insopportabili, era stata somministrata morfina a scopo antalgico.
Alle ore 15,10 del giorno successivo (B) decedeva. Questa la diagnosi finale: cachessia neoplastica, metastasi diffuse ossee, polmonari da carcinoma ulcerato della mammella.
4. Nel corso del dibattimento venivano esaminati alcuni testimoni.
4.1. L'agente (D), in servizio al Posto di polizia presso l'Ospedale, riferiva che, sentiti i lettighieri, aveva effettuato una segnalazione alla Centrale operativa e poco dopo era sopraggiunta una Volante.
Il teste aveva chiesto notizie ai medici che avevano effettuato una prima valutazione sanitaria: costoro avevano trovato la donna in un grave stato di denutrizione e in condizioni sanitarie e igieniche pietose.
Il teste riferiva poi quanto aveva appreso dal personale del 118, intervenuto presso l'abitazione della (B) su richiesta del convivente (A) :
«...era denutrita. Poi ho appreso anche dal convivente, che è arrivato in Ospedale, le ragioni di questo denutrimento. Le condizioni dell'appartamento dicevano che erano assurde, perché comunque aveva un cane all'interno dell'abitazione che non usciva praticamente mai per i suoi bisogni, perché la donna veniva lasciata periodicamente per qualche giorno da sola, la donna non aveva la possibilità di deambulare, era ferma nel suo letto e aveva la possibilità di alimentarsi... con dello scatolame, con dei cibi inscatolati che venivano lasciati dal convivente sul comodino. Tra l'altro i bisogni della donna venivano fatti in una bacinella, quindi le condizioni che mi venivano descritte erano raccapriccianti...».
4.2. L'agente di polizia (E) riferiva quanto segue:
«Noi eravamo di pattuglia come Volante e fummo chiamati in ausilio al collega in servizio al posto di Polizia del Policlinico perché era giunta una persona in condizioni fisiche... pesava quasi 30 chili ...era quasi morta praticamente, e allora il collega ci chiamò perché era presente anche il marito o compagno della donna, adesso non ricordo.
Giunti sul posto andiamo dal Medico che, molto sconvolto, ci comunicava che questa donna... stava per morire ...aveva un buco sullo stomaco, era un tumore che le aveva divorato praticamente tutta la parte della pancia e del petto... ed era magrissima ...era denutrita... subito prendiamo contatti con la persona che l'ha portata lì. Che era il compagno... gli facciamo alcune domande ...e la cosa che ci ha molto colpito era la normalità, la tranquillità con cui parlava con noi.
L'aveva accompagnata in Ospedale aveva detto - perché aveva visto che non stava molto bene.
La donna - proseguiva il teste - pesava non più di 30 chili, senza pelle, con una voragine sullo stomaco, si vedevano gli interni, era una cosa sconvolgente».
4.3. (F) svolgeva dal 1998 le mansioni di portiere dello stabile di Via Comacchio, n. 4. Conosceva l'imputato, che di solito usciva da casa per lavoro verso le 5 e ritornava intorno alle 18, e la sua convivente, che non lavorava e beveva molto: «...la vedevo che ogni tanto quando passava, che usciva ogni tanto, che andava a prendere ...e la vedevo quando rientrava che barcollava, e una volta o due mi sembra che era caduta a terra fuori della portineria, sul marciapiede... non so se c'è stato anche un intervento dell'ambulanza ...No no... l'ambulanza è venuta un'altra volta che stava poco bene».
Si trattava di due persone tranquille, che non davano fastidio e non avevano rapporti con gli altri inquilini: abitavano in un appartamento, sprovvisto di citofono, composto da due locali, nel quale comunque non era mai entrato. I due avevano un cane, che stava sempre in casa.
Da un inquilino aveva appreso della morte della donna, una settimana dopo, e successivamente ne aveva ricevuto conferma dallo stesso (A). Non si era mai accorto che la donna non stesse bene: era sempre ubriaca ma non sapevo che stava male. Aveva difficoltà nel camminare, barcollava e si appoggiava al muro. Negli ultimi giorni non l'aveva più vista uscire per andare a comprare il vino.
Poco dopo il (A) si era trasferito in Via Ravenna n. 5 e non era più ritornato in Via Comacchio, neppure per ritirare quella poca corrispondenza che ogni tanto riceveva. In verità, solo una volta vi aveva fatto ritorno, su invito dello stesso (F), che gli aveva fatto recapitare un biglietto, nel quale gli comunicava di aver ricevuto la citazione da parte dell'avvocato a presentarsi come testimone davanti a questa Corte.
Il teste, rispondendo ad una contestazione del P. M., confermava quanto aveva dichiarato in sede di indagini: «(AA), pur lavorando, assicurava alla convivente la dovuta assistenza. Aggiungo inoltre che negli ultimi mesi di vita, lo stesso non si è allontanato dal predetto indirizzo per più giorni...».
Aggiungeva che (A) «certe volte non andava al lavoro, che stava a casa per guardare la moglie».
Ignorava comunque l'avvenuto aggravamento delle condizioni di salute della donna: «il signor (A), quando è rimasto a casa mi ha detto Sono a casa perché c'è mia moglie che non sta molto bene.
5. Sentito dalla Polizia alle ore 22,30 del 18 maggio, (A) dichiarava di convivere con la donna da circa quindici anni e di lavorare come operaio-autista alle dipendenze di una ditta di Fizzonasco di Pieve Emanuele. Il contratto di locazione dell'appartamento di Via Comacchio n. 4, dove erano sempre vissuti, era a lui intestato.
Dopo aver precisato che la propria convivente faceva un uso smodato di bevande alcoliche, aggiungeva:
«Più di un mese e mezzo fa, rientrando a casa, dopo uno dei miei soliti viaggi di lavoro, della durata media di circa 2-3 giorni, ho trovato la mia convivente distesa nel letto e chiedendole cosa fosse successo. Mi veniva riferito che era caduta, ma che sarebbe tutto passato al più presto, dicendomi inoltre di non voler essere toccata. Durante tutto il periodo della sua degenza a letto, non ho mai provveduto a chiamare il nostro medico curante, in quanto la mia convivente mi riferiva che avrebbe provveduto, prima o poi a chiamarlo lei. Nei giorni in cui rimanevo a casa, per assenza di lavoro, provvedevo a cucinare per entrambi, ma quando mancavo per diversi giorni lasciavo, nel primo periodo, sul suo comodino delle scatolette di carne, mentre ultimamente delle bottiglie di latte ed alcune brioches.
All'interno della nostra abitazione, oltre a noi vi era un cane di razza lupo... che in questo periodo di malattia della mia convivente nessuno provvedeva a portare in strada per i suoi bisogni, quindi al mio rientro trovavo l'appartamento pieno di escrementi animali sul pavimento.
In merito all'ultimo viaggio che ho fatto, ho lasciato la mia dimora il giorno mercoledì 15 c.m. alle ore 19,00 circa per poi fare rientro nella mattinata odierna... alle ore 11,00 circa, trovando la mia convivente più magra del solito, trovando tutto il latte che avevo lasciato inacidito e le paste indurite. Durante tutto il periodo della sua malattia, a causa della gamba dolente avevo fornito una bacinella alfine che potesse fare i suoi bisogni corporali all'interno, per poi svuotarla periodicamente solo quando la vedevo piena.
Sono a conoscenza che la (B) ha sul seno destro una piccola piaga, che lei avrebbe dovuto curarsi autonomamente apponendovi delle bende da cambiare periodicamente, come il medico curante le aveva prescritto, operazione che io non le ho mai visto fare, nonostante fornissi... le bende necessarie.
In tutto questo periodo, non mi sono preoccupato di lavare o pulire mia moglie, in quanto non voleva da me essere toccata i nessuna maniera. Ho deciso di chiamare il 118 solo questa sera, per poter accertare in quali condizioni fisiche si trovasse la mia convivente, non prima di averla pulita e averle cambiato le bende di medicazione».
6. Elementi utili, ai fini del giudizio, venivano forniti dalla perizia medico-legale.
Il perito ha accertato, con indagine scrupolosa e scientificamente corretta, che le cause della morte dovevano identificarsi in quelle già indicate nella cartella clinica: si trattava di una paziente in fase terminale, affetta da una neoplasia al seno destro ulcerata con metastasi cutanee, scheletriche e polmonari.
Non era possibile stabilire, sulla base degli elementi a disposizione, se la donna fosse affetta da una forma tumorale che ab origine prospettasse un esito sfavorevole quoad vitam nonostante un corretto approccio diagnostico terapeutico, ovvero se un ritardo diagnostico o un mancato approccio terapeutico avessero condizionato il quadro evolutivo neoplastico.
In sostanza, la donna era affetta da una malattia cronica inguaribile e presentava localizzazioni metastatiche all'omero destro, al bacino e al femore; erano inoltre presenti esiti di fratture patologiche in sede diafisaria omerale e femorale prossimale destra. Tale quadro scheletrico comportava una intensissima sintomatologia dolorosa, sorta prima del ricovero.
Non era stato tuttavia possibile accertare se, prima del ricovero, la donna avesse seguito a casa un trattamento sintomatico della stessa. Mancava qualsiasi riferimento in sede anamnestica ospedaliera e nessun elemento utile era stato in grado di fornire il dr. (G), il quale aveva riferito di non aver mai avuto contatti di alcun genere con la (B), nonostante risultasse sua assistita dal 1994.
La segnalazione del convivente di una frattura femorale occorsa un paio di mesi prima, suffragata dal reperto radiografico e clinico, consentiva - a giudizio del perito - di affermare che le metastasi ossee fossero precedenti a tale periodo e che, pertanto, da almeno un paio di mesi la sintomatologia dolorosa fosse rilevante e che la donna fosse attendibilmente impossibilita ad alzarsi dal letto: si veniva così a delineare un quadro complessivo caratterizzato da un soggetto sofferente e, quanto meno a causa del forzato allettamento, non autosufficiente.
Ovviamente, non era possibile neppure sapere - aggiungeva il perito - se il mancato ricorso a trattamenti terapeutici prima del ricovero ospedaliero fosse da rapportarsi ad una libera scelta della (B), espressione del principio di autonomia del paziente, ovvero se proprio la condizione di non autosufficienza avesse condizionato la vicenda, sì da potersi configurare una possibile responsabilità di terzi. Occorre tuttavia precisare che tale condizione non implica necessariamente la soppressione di una autonomia decisionale, così da non ammettere una condivisione partecipata alla situazione clinica e circostanziale che veniva direttamente vissuta, sempre ammesso che la donna avesse mantenuto inalterata la sua capacità di giudizio. Al riguardo, non erano emersi elementi sicuri per poter sostenere l'instaurarsi di questa incapacità prima del ricovero.
Concludeva il perito osservando che un idoneo approccio assistenziale e terapeutico, disposto anche solo pochi giorni prima del ricovero, avrebbe posticipato l'evento terminale certo ed avrebbe reso il percorso di avvicinamento più dignitoso e più sopportabile da un punto di vista sintomatologico.
7. Si contesta all'imputato una colpevole omissione: (A) avrebbe abbandonato (B), con la quale conviveva da quindici anni, nonostante fosse incapace di provvedere a se stessa a causa della malattia dalla quale era stata colpita, e non l'avrebbe assistita adeguatamente, lasciandola sola e senza cure in precarie condizioni di salute, che si aggravavano di giorno in giorno, cagionandone in tal modo anticipatamente la morte.
Secondo l'accusa, l'imputato si sarebbe reso responsabile del reato previsto dall'art. 591 commi 1 e 3, c.p., che, per quanto interessa in questa sede, punisce chiunque abbandona una persona incapace, per malattia, di provvedere a se stessa e della quale debba avere la cura.
Occorre subito precisare che l'ambito di operatività dell'obbligo di cura deve essere individuato con riferimento alle varie disposizioni di legge che tale obbligo direttamente o indirettamente prevedono a carico di determinati soggetti. Nonostante la generica designazione del soggetto attivo da parte della norma, si tratta di reato proprio che può essere commesso esclusivamente da quelle persone sulle quali gravano specifici obblighi di cura.
A questo punto, ci si deve chiedere se a carico dell'imputato esistessero veramente obblighi di cura nei confronti della propria convivente (B), obblighi che comprendono prestazioni e cautele protettive delle quali hanno bisogno persone che di regola sono capaci di provvedere a se stesse, ma che tali non sono per particolari contingenze, quali la malattia. Da notare che di tali obblighi non è fatta alcuna menzione nel capo d'imputazione, ancorché essi contribuiscano a delineare il fatto tipico.
La risposta non può che essere negativa, alla luce di una corretta interpretazione della norma penale. La cura, al pari della custodia, deve fondarsi su uno specifico obbligo giuridico che trova la propria fonte nella legge o nel contratto, che peraltro fonda pur sempre nella legge la propria forza vincolante (art. 1372 c.c.).
Il rapporto di convivenza, quale rapporto di fatto non disciplinato dalla legge, è privo di rilevanza penale ex art. 591 c.p., in quanto non può estendersi ad esso, ché si incorrerebbe in una inammissibile interpretazione analogica in malam partem, il disposto dell'art. 143 comma 2, c.c., che limita ai soli coniugi l'obbligo all'assistenza morale e materiale. Sarebbe infatti contra legem, in un sistema retto dal principio di legalità, rendere applicabile la norma penale anche alle violazioni di obblighi morali o di solidarietà, e quindi anche nei confronti delle famiglie di fatto, ovvero di coloro che convivono more uxorio.
8. L'unico obbligo di intervento che residua è quello imposto e sanzionato dall'art. 593 c.p., che prevede il meno grave reato comune (secondo l'interpretazione che appare preferibile, anche se non da tutti condivisa) di omissione di soccorso, consistente, per quanto interessa in questa sede, nel fatto di chi, trovandosi in presenza di una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente.
L'omissione di soccorso resta preclusa in tutti i casi in cui il dovere di soccorrere non sussiste. In particolare, non è configurabile tale dovere in caso di dissenso del soggetto ferito o altrimenti in pericolo, vale a dire quando questi opponga un rifiuto all'assistenza, implicante interventi chirurgici e farmacologici sul proprio corpo e, quindi, atti di disposizione dello stesso.
Le dichiarazioni rese sul punto alla polizia dal (A), confermate in parte dal teste (F), non consentono di ritenere con sicurezza che l'imputato, nel suo stato di ignoranza e nella situazione di degrado totale in cui viveva con la propria compagna, si sia volontariamente sottratto al dovere generale di prestare soccorso. Non si può infatti escludere, alla luce delle dichiarazioni rilasciate dal dr. (G) e delle considerazioni svolte dal perito, l'esistenza di un dissenso consapevole alle cure manifestato dalla (B), come riferito dallo stesso imputato, espressione dei principi di libertà e di autonomia del malato.
9. Alla stregua delle considerazioni che precedono, (A) deve essere assolto dal reato ascrittogli, perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.

La Corte di Assise di Milano, in applicazione dell'art. 530 c.p.p. Assolve (A) dal reato ascrittogli, perché il fatto non sussiste.


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