Il trasferimento del coniuge affidatario dei figli in altra città per motivi di lavoro esclude l'assegnazione della casa coniugale per il venir meno dei presupposti fondanti di detto provedimento

Il previgente art. 155 c.c. ed il vigente art. 155 quater c.c. in tema di separazione e l'art. 6 della legge sul divorzio subordinano il provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minori o maggiorenni non autosufficienti economicamente conviventi con i coniugi; in assenza di tale presupposto, sia la casa in comproprietà o appartenga a un solo coniuge, il giudice non potrà adottare, con la sentenza di separazione, un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non essendo la medesima neppure prevista dall'art. 156 c.c.. Questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, Sezione I Civile, con sentenza 14 dicembre 2007, n. 26476. Alla di tale principio la S.C. ha quindi proseguito statuendo che l'assegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario di un figlio minore o convivente con un figlio maggiorenne incolpevolmente non autosufficiente, si giustifica solo in quanto sia finalizzata ad assicurare l'interesse della prole alla permanenza nell'ambiente domestico in cui essa è cresciuta. Ne consegue che deve ritenersi esclusa in caso di trasferimento in altra città per motivi di lavoro, del coniuge affidatario.



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Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 7 maggio 2004, il Tribunale di Grosseto pronunciava la separazione dei coniugi Peri Maurizio e Rubini Marina, negando l'assegnazione della casa coniugale richiesta da entrambe le parti e ponendo a carico del marito un assegno di Euro 500,00 mensili per il mantenimento del figlio Riccardo, convivente con la madre e non ancora autosufficiente.
Questa sentenza è stata confermata dalla Corte d'appello di Firenze con la pronuncia qui impugnata. Per quanto rileva in questa sede, la Corte osservava che esattamente il Tribunale aveva ravvisato nell'esigenza del mantenimento della dimora domestica, ma nell'esclusivo interesse dei minori, la ratio dell'assegnazione della casa coniugale; e nella specie, tale esigenza non poteva ritenersi sussistente perché dagli atti emergeva non solo che il figlio convivente con la madre era maggiorenne e studente, ma soprattutto che la Rubini M. viveva stabilmente con il figlio a Piacenza, dove aveva trovato un lavoro e aveva quindi formato un nuovo centro dei suoi interessi familiari. In questa prospettiva era priva di rilievo la circostanza che la Rubini M. aveva affermato di recarsi a Grosseto con una certa continuità, godendo del diritto di abitazione nella casa coniugale, né che la stessa avesse manifestato l'intenzione di lavorare nella stessa città, e ciò perché soltanto la effettiva e continuativa abitazione, insieme al figlio, della casa coniugale poteva giustificare il mantenimento dell'assegnazione.
Per la cassazione di questo provvedimento, ricorre Rubini Marina, sulla base di un motivo; resiste, con controricorso, Peri Maurizio.
Motivi della decisione
Con l'unico motivo di ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 155 c.c.. La casa coniugale, di proprietà di entrambi i coniugi, osserva la ricorrente, le era stata data in uso in quanto genitore affidatario del figlio. Pur avendo momentanea dimora per motivi di lavoro fuori Grosseto, ella e il figlio avevano continuato ad utilizzare quella casa come loro casa principale, mantenendovi la residenza e sperando di potervi fare ritorno appena possibile. La sentenza impugnata sarebbe quindi erronea perché sostiene che il trasferimento per motivi di lavoro di essa ricorrente aveva fatto venire meno i presupposti legittimanti l'assegnazione della casa coniugale, laddove è ben possibile mantenere il proprio centro degli affetti e degli interessi da parte dei figli nella casa familiare anche se lontani per motivi contingenti. Il ricorso è manifestamente infondato e va pertanto rigettato.
Al riguardo, è sufficiente osservare come la giurisprudenza di questa Corte (a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 11297 del 28 ottobre 1995, condivisa da Cass. 17 gennaio 2003, n. 661; Cass. 18 settembre 2003, n. 13736; Cass. 6 luglio 2004, n. 12309; Cass. 1 dicembre 2004, n. 22500) possa ormai dirsi consolidata nel senso che, anche sotto il vigore della L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 11 ha sostituito la L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6 la disposizione contenuta nel comma 6 della norma appena richiamata consente il sacrificio della posizione del coniuge titolare di diritti reali o personali sull'immobile adibito ad abitazione familiare, mediante assegnazione di siffatta abitazione in sede di divorzio all'altro coniuge, solo alla condizione dell'affidamento a quest'ultimo di figli minori o della convivenza con esso di figli maggiorenni ma non ancora provvisti, senza loro colpa, di sufficienti redditi propri, laddove, in assenza di tali condizioni, coerenti con la finalizzazione dell'istituto alla esclusiva tutela della prole e del relativo interesse alla permanenza nell'ambiente domestico in cui essa è cresciuta, l'assegnazione medesima non può essere disposta in funzione integrativa o sostitutiva dell'assegno divorzile, ovvero allo scopo di sopperire alle esigenze di sostentamento del coniuge ritenuto economicamente più debole, a garanzia delle quali è destinato unicamente l'assegno anzidetto, onde la concessione del beneficio in parola resta subordinata agli imprescindibili presupposti sopra indicati (Cass., n. 8221 del 2006).
Più di recente, questa Corte ha affermato che "il previgente art. 155 c.c. ed il vigente art. 155 quater c.c. in tema di separazione e l'art. 6 della legge sul divorzio subordinano il provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minori o maggiorenni non autosufficienti economicamente conviventi con i coniugi; in assenza di tale presupposto, sia la casa in comproprietà o appartenga a un solo coniuge, il giudice non potrà adottare, con la sentenza di separazione, un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non essendo la medesima neppure prevista dall'art. 156 c.c. in sostituzione o quale componente dell'assegno di mantenimento. In mancanza di norme ad hoc, la casa familiare in comproprietà resta soggetta alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l'uso e la divisione". (Cass., n. 6979 del 2007).
Alla luce di tali principi, risulta dunque evidente come l'assegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario di un figlio minore o convivente con un figlio maggiorenne incolpevolmente non autosufficiente, in tanto si giustifica in quanto sia finalizzata ad assicurare l'interesse della prole alla permanenza nell'ambiente domestico in cui essa è cresciuta; evenienza, questa, che postula la destinazione dell'immobile a stabile abitazione del coniuge e del figlio.
Nel caso di specie, viceversa, con valutazione in fatto, di per sé incensurabile in sede di legittimità, la Corte d'appello ha accertato l'insussistenza di tale condizione, essendo emerso uno stabile radicamento della madre e del figlio convivente in un'altra città. A fronte di tale valutazione, l'affermazione della ricorrente, secondo cui l'allontanamento dalla casa sarebbe solo momentaneo, risulta una mera contrapposizione della propria valutazione a quella recepita dal giudice del merito, che ha invece ravvisato nella permanenza della ricorrente in una diversa città il carattere della stabilità.
Tanto basta ad escludere la fondatezza del ricorso, che deve quindi essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura di cui al dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.100,00, di cui Euro 1.000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori come per legge.

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