La presentazione della denuncia di successione non integra una accettazione tacita dell'eredità

La presentazione della denuncia di successione, così come anche il pagamento delle relative imposte, in quanto atti di natura e finalità meramente fiscali, non integrano una accettazione tacita dell'eredità. (Corte di Cassazione, Sezione 2 Civile, Sentenza del 28 febbraio 2007, n. 4783)



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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 28/29-9-1992 Li. e Vi.Cu., quest'ultimo in proprio e quale procuratore speciale dei germani Re. ed El.Cu. e dei nipoti Gi.Pa. e Gi.Tr., convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Avellino Er.Cu., Or.Br. ed An.Cu., nato il (...), esponendo che il 21-1-1911 era deceduto in Ch.S.Do.An.Cu. cui erano succeduti quali eredi legittimi i figli Lu., Mi. (dante causa degli attori e del convenuto An.), Ar. e Gi.

Premesso che l'asse ereditario era costituito da terreni e fabbricati siti in Ch.Sa.Do., gli attori assumevano;

- in data 5-4-1942 era deceduto Mi. (la cui moglie era già deceduta precedentemente) lasciando eredi i figli An., An. e Gi. (questi ultimi due deceduti rispettivamente nel 1978 e nel 1939 senza figli e senza lasciare testamento), Vi., Re., Li., El. e Ma., poi deceduta, madre di Gi.Pa. e Gi.Tr.;

- Ar.Cu. aveva disposto con testamento di tutti i propri beni in favore dei fratelli Mi., Gi. e Lu.;

- nel 1981 era deceduto Gi.Cu., che aveva disposto con testamento dei suoi beni in favore del nipote En., figli del fratello Lu.Cu.;

- nel 1975 era deceduto Lu.Cu. lasciando i figli An. (il quale, deceduto nel 1989, aveva lasciato i propri beni alla moglie Or.Br.) En. (deceduto nel 1984) ed Er.;

- gli attori alla morte del padre Mi. erano stati affidati fino al 1957 alla tutela degli zii paterni Gi. e Lu., attesa la loro minore età ed il pregresso decesso della madre.

Gli attori chiedevano che il Tribunale dichiarasse aperta la successione del comune avo An.Cu. e disponesse lo scioglimento della comunione ereditaria costituitasi.

Er.Cu. ed Or.Br., costituitisi in giudizio, eccepivano la prescrizione del diritto degli attori di accettare la suddetta eredità nonché la conseguita usucapione del compendio ereditario.

An.Cu. restava contumace.

Con comparsa del 19-10-1995 La., Ir. e Ma.Ch.Cu. si costituivano in giudizio quali eredi del padre Er., deceduto il 6-7-1995.

Con sentenza dell'11.6.1999 l'adito Tribunale accoglieva l'eccezione di prescrizione del diritto di accettare l'eredità e pertanto rigettava la domanda di divisione.

Proposto gravame da parte di Li. e Vi.Cu., quest'ultimo in proprio e quale procuratore speciale dei germani Gi.Pa. e Gi.Tr., resistevano in giudizio La., Ir. e Ma.Ch.Cu. che proponevano appello incidentale.

Con sentenza dell'11-7-2002 la Corte di Appello di Napoli ha rigettato l'appello.

La Corte territoriale ha escluso una accettazione tacita dell'eredità di An.Cu. da parte degli attori per il fatto che il loro padre Mi. si era impossessato di una ingente quantità di oggetti di valore - poi passati in possesso degli appellanti - come se si fosse trattato di beni di sua esclusiva proprietà, rilevando che non vi era la prova di atti di Mi.Cu. incompatibili con la volontà di rinunciare all'eredità, essendo semmai emerso che egli si era impossessato dei beni in questione per far fronte ai numerosi debiti contratti, cosicché doveva presumersi che tutti i preziosi fossero stati a suo tempo venduti.

Il giudice di appello ha negato del pari rilevanza ai fini di una pretesa accettazione tacita dell'eredità da parte degli appellanti al promemoria dello zio Lu.Cu. del 1964, con il quale quest'ultimo aveva affermato che l'eredità di An.Cu., costituita dai beni in Ch., apparteneva "pro quota" anche agli eredi di Mi.Cu., considerato che non vi era alcuna prova che tale documento fosse stato redatto, come sostenuto dagli appellanti medesimi, su specifica richiesta dei nipoti.

La sentenza impugnata ha poi escluso l'operatività dell'art. 485 c.c., secondo cui il chiamato all'eredità che è a qualunque titolo nel possesso dei beni ereditari è considerato erede puro e semplice, ove non ottemperi alle disposizioni sulla compilazione dell'inventario nel termine prescritto, non essendo tale disposizione applicabile nell'ipotesi di eredità devolute a minori.

Infine la Corte territoriale ha ritenuto altresì infondato la tesi degli appellanti secondo cui le controparti avrebbero rinunciato tacitamente a far valere la prescrizione, non ravvisando nel comportamento processuale di La., Ir. e Ma.Ch.Cu. alcun elemento rilevante in tal senso.

Per la cassazione di tale sentenza Li.Cu. e Vi.Cu. - quest'ultimo anche quale procuratore speciale dei germani Re. ed El. e dei nipoti Gi.Pa.Tr. e Gi.Tr. - hanno proposto un ricorso articolato in tre motivi cui La.Cu., Ir.Cu. e Ma.Ch.Cu. hanno resistito con controricorso; An.Cu. ed Or.Br. non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nonché violazione e falsa applicazione degli articoli 2697-2727 e 2729 c.c., censurano la sentenza impugnata per aver erroneamente valutato le risultanze istruttorie, in realtà chiaramente incompatibili con una pretesa volontà degli esponenti di rinunciare alla eredità dell'avo An.Cu.
I ricorrenti richiamano a tal riguardo la circostanza che il loro padre Mi.Cu. si era impossessato di una ingente quantità di oggetti di valore compresi nell'asse ereditario di An.Cu. dei quali successivamente si erano a loro volta impossessati gli esponenti, che avevano continuato ad abitare nella casa paterna in Na., via S.Ma.Ai.Mo.(...), anche dopo la morte di Mi.Cu., come era emerso dal certificato di stato anagrafico di famiglia del 2-11-1944; i ricorrenti rilevano che tali fatti - oggetto anche di una prova testimoniale non esaminata e quindi non ammessa dal giudice di appello senza alcuna motivazione - integravano gli estremi di una accettazione tacita da parte loro dell'eredità del nonno An.Cu., mentre la sentenza impugnata, facendo una erronea applicazione dei principi in materia di presunzioni, aveva ingiustificatamente ritenuto presumibile che Mi.Cu. avesse a suo tempo venduto i beni provenienti dalla eredità paterna di cui si era impossessato.

I ricorrenti inoltre richiamano il promemoria sottoscritto dallo zio Lu.Cu., risalente al 1964, con il quale quest'ultimo aveva riconosciuto che gli immobili siti in Ch.S.Do. appartenevano "pro quota" anche agli eredi di Mi.Cu.; essi sostengono che tale promemoria era stato consegnato da Lu.Cu. agli esponenti su loro sollecitazione, intendendo così costoro far valere i propri diritti sull'eredità, cosicché un simile comportamento denotava inequivocabilmente la loro volontà di accettare l'eredità di An.Cu. quantomeno dall'anno 1964.

La censura è infondata.

Il giudice di appello, nel considerare la sussistenza o meno di una accettazione tacita dell'eredità di An.Cu. da parte degli attuali ricorrenti, e nell'esaminare quindi a questo fine gli elementi dedotti dagli appellanti, ha anzitutto escluso una simile valenza alla circostanza, emergente dal promemoria redatto da Lu.Cu., secondo cui Mi.Cu. si era impossessato di una ingente quantità di oggetti di valore provenienti dalla eredità di An.Cu., avendo rilevato, sulla base dello stesso promemoria menzionato, che tale impossessamento era stato determinato dalla esigenza di far fronte ai numerosi debiti contratti dallo stesso Mi.Cu., cosicché doveva presumersi che tutti tali beni fossero stati a suo tempo venduti da quest'ultimo proprio a tale scopo, con la conseguenza che mancava la prova che essi fossero rimasti nel suo patrimonio e quindi, a maggior ragione, che degli stessi si fossero impossessati i di lui figli.

Orbene, premesso che nella prova per presunzioni non occorre che tra il fatto noto ed il fatto ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità (Cass. 9-4-2004 n. 6899), dovendosi ravvisare una connessione tra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità (Cass. 16-7-2004 n. 13169), non si ravvisa alcuna violazione delle regole prescritte dal codice civile in materia di presunzioni nelle argomentazioni svolte dalla sentenza impugnata che, movendo dal fatto noto dell'impossessamento da parte di Mi.Cu. di alcuni beni mobili provenienti dall'eredità patema per poter superare una sua pesante situazione debitoria, è giunta alla ragionevole conclusione che tali beni fossero stati a suo tempo venduti proprio a questo fine e che dunque non fossero rimasti nel suo patrimonio; in proposito è sufficiente osservare che, allorché la prova sia costituita da presunzioni, rientra nella valutazione del giudice di merito il giudizio circa l'idoneità degli elementi addotti ad essere utilizzati dal giudice per dedurne l'esistenza di un fatto principale ignoto, e che la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per poter valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione non è sindacabile in sede di legittimità se sorretta da una motivazione immessa da vizi logici e giuridici (Cass. 19-2-2004 n. 3321; vedi pure Cass. 9-2-2004 n. 2431), come appunto nella fattispecie.

E' poi evidente che, una volta affermato per le esposte ragioni che Mi.Cu. non aveva lasciato nel suo patrimonio alcun bene di provenienza dall'eredità paterna, il giudice di appello ha ritenuto sia pure implicitamente l'irrilevanza della prova per testi dedotta dagli appellanti riguardante il fatto che essi avrebbero continuato a possedere i beni di cui si era impossessato a suo tempo il loro genitore nella abitazione di quest'ultimo in Na.

La Corte territoriale ha poi negato rilevanza, ai fini della ricorrenza di una accettazione tacita dell'eredità di cui trattasi, al promemoria risalente all'anno 1964 con cui Lu.Cu., zio degli attuali ricorrenti, riconosceva che l'eredità di An.Cu. apparteneva "pro quota" agli eredi di Mi.Cu., assumendo in proposito che non vi era alcuna prova che tale documento fosse stato redatto su specifica richiesta dei nipoti, considerato altresì che tale richiesta sarebbe stata fatta oralmente e non per iscritto, cosicché era preclusa la conoscenza del suo effettivo tenore e dunque l'apprezzamento circa la sua idoneità a configurare una accettazione tacita dell'eredità.

La Corte rileva che tali deduzioni, non specificamente censurate in questa sede, non possono essere superate dal semplice rilievo che il documento sopra menzionato era stato prodotto nel presente giudizio dagli attuali ricorrenti, posto che la mera disponibilità di tale documento da parte di costoro non integra evidentemente alcun atto ad essi riferibile e idoneo a configurare una accettazione tacita di eredità; quest'ultima 10 infatti ricorre quando il chiamato all'eredità compie un atto che presuppone la sua volontà di accettare e che non avrebbe diritto di compiere se non nella qualità di erede, e può essere desunta anche dal comportamento del chiamato che abbia posto in essere una serie di atti incompatibili con la volontà di rinunciare o siano concludenti e significativi della volontà di accettare (Cass. 7-7-1999 n. 7075), atti nella fattispecie ritenuti insussistenti dal giudice di appello all'esito di una indagine di fatto sorretta da motivazione congrua e priva di vizi logici, come tale insindacabile in questa sede.

Con il secondo motivo i ricorrenti, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nonché violazione degli articoli 485 e 489 c.c., censurano la sentenza impugnata perché - avendo affermato che l'art. 485 c.c., secondo cui il chiamato all'eredità che è a qualunque titolo nel possesso dei beni ereditari è considerato erede puro e semplice, ove non ottemperi alle disposizioni circa la compilazione dell'inventario nel termine prescritto, non è applicabile nell'ipotesi di eredità devolute a minori - è incorsa nell'errore di ritenere che l'eredità di Mi.Cu., deceduto il 5-4-1942, fosse stata devoluta a soggetti all'epoca ancora minorenni, mentre invece era risultato che An.Cu., nato il 19-1-1921 e sottoscrittore della denuncia di successione anche per gli altri minori, al momento dell'apertura della successione era già maggiorenne, e che An. e Ma.Cu. erano diventati maggiorenni mentre erano nel possesso dei beni ereditari; tale errore aveva impedito al giudice di appello di accertare l'avvenuta accettazione dell'eredità, atteso che l'acquisto "ope legis" dell'eredità previsto per il chiamato all'eredità nel possesso dei beni ereditari dall'art. 485 c.c. ricorre anche nel caso di compossesso del patrimonio ereditario indiviso o di possesso di un solo bene di tale patrimonio.

La censura è in parte inammissibile ed in parte infondata.

Sotto un primo profilo deve rilevarsi l'inammissibilità del motivo in esame nella parte in cui prospetta un errore di fatto da parte del giudice di appello nell'accertamento dell'età maturata da An.Cu. alla morte del padre Mi., ovvero alla data del 5-4-1942, e nel non aver verificato che anche gli altri fratelli minori di An.Cu. avevano raggiunto la maggior età entro il decennio dall'apertura della successione paterna; e d'altra parte gli stessi ricorrenti deducono di aver già proposto avverso tali statuizioni una impugnazione per revocazione ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c.

Il motivo è comunque anche infondato, posto che l'applicazione dell'art. 485 c.c. invocata dai ricorrenti presuppone che il chiamato all'eredità si trovi nel possesso dei beni ereditari, circostanza quest'ultima che nella fattispecie il giudice di appello ha ritenuto non essere stata provata neppure con riferimento a quella parte dell'asse ereditario relitto da An.Cu. costituito dagli oggetti di valore di cui si sarebbe impossessato a suo tempo Mi.Cu., padre degli attuali ricorrenti, come già rilevato in sede di esame del primo motivo di ricorso.

Infine nessun rilievo può riconoscersi alla circostanza, pure dedotta dai ricorrenti, secondo la quale An.Cu. avrebbe sottoscritto la denuncia di successione relativa alla eredità di Mi.Cu. anche per gli altri fratelli minori, costituendo orientamento consolidato di questa Corte che la denuncia di successione, così come il pagamento delle relative imposte, in quanto atti di natura e finalità meramente fiscali, non integrano una accettazione tacita dell'eredità (vedi "ex multis" Cass. 27-3-1996; Cass. 13-5-1999 n. 4756).

Con il terzo motivo i ricorrenti, denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 480 e 2937 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver escluso che le controparti avessero tacitamente rinunciato a far valere la prescrizione del diritto degli esponenti di accettare l'eredità di An.Cu.

Essi assumono che dagli atti del giudizio risulta che nell'anno 1989, a fronte di una formale richiesta degli esponenti di ottenere la quota di loro spettanza sulla eredità di An.Cu., tale prescrizione non era mai stata dedotta dalle controparti, le quali del resto nel presente giudizio avevano significativamente chiesto anzitutto dichiararsi l'avvenuto usucapione dei beni ereditari, e solo in via subordinata avevano eccepito per la prima volta la prescrizione del diritto degli esponenti di accettare l'eredità.

I ricorrenti rilevano quindi l'incompatibilità di tale comportamento con la volontà di avvalersi della prescrizione già maturata, cosicché il giudice di appello avrebbe dovuto ritenere tacitamente rinunciata la relativa eccezione, o comunque avrebbe dovuto dichiararla inammissibile in quanto configgente con la richiesta di declaratoria della avvenuta usucapione. La censura è in parte infondata ed in parte inammissibile.

La sentenza impugnata, nell'esaminare il motivo di appello secondo cui gli appellanti avrebbero rinunciato alla prescrizione, essendo la relativa eccezione incompatibile con la richiesta avanzata in via prioritaria di intervenuta usucapione dei beni ereditari, ha ritenuto infondato tale assunto sostenendo che rivendicare la proprietà di un bene per intervenuta usucapione integra in ogni caso un comportamento volto ad escludere l'esistenza di qualsiasi diritto di altri soggetti, e ritenendo irrilevante l'ordine con cui erano state articolate le difese, posto che comunque l'eccezione di prescrizione era stata sollevata.
Orbene il convincimento espresso dal giudice di appello è pienamente condivisibile alla luce dell'orientamento consolidato di questa Corte secondo cui la rinuncia tacita alla prescrizione presuppone un comportamento processuale in cui sia necessariamente insita la univoca volontà di non sollevare la relativa eccezione, e che l'essersi difeso nel giudizio di primo grado sul merito della causa senza eccepirne preliminarmente la prescrizione non integra di per sé stesso un fatto univoco incompatibile con la volontà di sollevare tale eccezione (Cass. 28-7-2000 n. 9927), giacché il debitore potrebbe avere interesse in un primo tempo a contestare l'esistenza dell'obbligazione, riservandosi di eccepire successivamente, se necessario, l'intervenuta prescrizione (Cass. 17-9-1996 n. 8304; vedi pure Cass. 14-9-1992 n. 10480).

Ritenuto quindi che la rinuncia tacita alla prescrizione non si configura quando la parte, pur insistendo nella eccezione della prescrizione stessa, ponga in essere una difesa nel merito, deve concludersi che l'accertamento compiuto al riguardo dal giudice di appello, sorretto da congrua e logica motivazione, è immune dalle censure sollevate dai ricorrenti. La censura è poi inammissibile nella parte in cui, a sostegno dell'assunto circa la rinuncia tacita delle controparti a far valere la suddetta eccezione di prescrizione, deduce la corrispondenza intercorsa tra le parti in epoca antecedente alla instaurazione della presente controversia; invero, essendo stata prospettata una questione che implica un accertamento di fatto non trattata nella sentenza impugnata, i ricorrenti avevano l'onere, in realtà non assolto, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo avessero fatto, per dar modo a questa Corte di controllare "ex actis", la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa.

Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento di euro 100,00 per spese e di euro 3000,00 per onorari di avvocato oltre accessori di legge.

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