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Il danno patrimoniale da perdita da congiunto può essere riconosciuto solo ove si provi che il soggetto infortunato avrebbe contribuito ai bisogni della famiglia

Ai fini del riconoscimento di un danno patrimoniale in favore dei congiunti del defunto occorre che questi ultimi diano prova che "verosimilmente il soggetto infortunato avrebbe contribuito ai bisogni della famiglia". E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, con sentenza n. 18177 del 28 agosto 2007, confremando l'oriemntamento consolidatosi in materia con sentenza Cass. 8333 del 2004.
Ne consegue, continua la Corte, che la prova di tale circostanza non può essere data in via meramente ipotetica, ma piuttosto sulla base delle circostanze di fatto collegate al caso di specie.
Non può, quindi, ritenersi sussistente detto danno nel caso in cui il defunto coadiuvasse i congiunti solo nell'attivita' aziendale, se non vi è alcun elemento che lasciasse presumere che egli avrebbe continuato a lavorare nell'azienda familiare.



- Leggi la sentenza integrale -

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato in data 14 ottobre 2003 i due genitori, i fratelli, la zia e la nonna del defunto Di. Bi.Ni. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d'Appello dell'Aquila che, in relazione all'incidente stradale avvenuto in data (OMESSO) ed alla domanda di risarcimento dei danni dagli stessi avanzata, aveva riconosciuto un concorso di colpa del 25% del loro congiunto, trasportato sulla vettura condotta da Sc.Pa., di proprieta' del padre P., ponendo a carico di Pa. Sc. il residuo 75%.

Con la stessa decisione i Giudici di appello avevano proporzionalmente ridotto la liquidazione dei danni operata dal primo Giudice, fissando il risarcimento per danni morale per il padre in lire 60.000.000, in lire 75.000.000 per la madre, in lire 11.250.000 per il fratello convivente, in lire 7.500.000 per ciascuno dei fratelli non conviventi e per la nonna ed in lire 3.750.000 per la zia.

Gli stessi Giudici, in conformita' di quanto gia' deciso dal primo Giudice, escludevano l'esistensa di un danno patrimoniale economico, dopo aver posto in luce che il figlio era uno studente e che lo stesso solo occasionalmente coadiuvava nell'attivita' aziendale della famiglia.

Quanto al possibile apporto che il giovane avrebbe potuto arrecare in un prossimo futuro, la Corte precisava che nessun elemento lasciava presumere che il defunto avrebbe continuato a collaborare in azienda.

Al contrario gli studi intrapresi lasciavano supporre che egli intendesse dedicarsi ad altra attivita' lavorativa.

Quanto al danno biologico, gli stessi Giudici ne hanno escluso la sussistenza nel caso di specie "essendo la morte sopraggiunta senza alcuna aspettativa di vita residua e senza il riscontro di una soggettivazione afflittiva del periodo di coma".

Con quattro distinti motivi di ricorso, i congiunti di Di. Bi. Ni. ripropongono le eccezioni gia' formulate in grado di appello.

Il ricorso e' stato illustrato da successiva memoria, dopo le richieste scritte del Sostituto Procuratore Generale che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilita' del ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono vizio di motivazione, riferito a quella parte della decisione che ha ritenuto l'esistenza di un concorso di colpa del trasportato Di. Bi., per non avere allacciato la cintura di sicurezza.

Nessuna prova di tale circostanza, rilevano i ricorrenti, era stata raggiunta nel caso concreto. Inoltre non era neppure certo che la vettura in questione fosse dotata di cinture di sicurezza ne' che le stesse fossero funzionanti.

In ogni caso, la maggiore responsabilita' dell'incidente ricadrebbe sul conducente della vettura, sul quale incombe l'obbligo di controllare che il passeggero allaccia la cintura, rifiutando il trasporto in caso negativo.

Il motivo ripropone in modo inammissibile alcune questioni in ordine alle quali i giudici di appello hanno gia' compiuto il loro accertamento.

Il teste sentito ha confermato che il Di. Bi. non indossava le cinture di sicurezza.

I Giudici di appello hanno poi rilevato che la statura del De. Bi., peraltro non provata, non avrebbe comunque escluso l'obbligo di un utilizzo della cintura.

In ordine a tale affermazione non e' stata proposta alcuna censura da parte dei ricorrenti.

La Corte dell'Aquila ha rilevato che non vi era alcuna prova che l'auto fosse sprovvista delle cinture di sicurezza precisando che l'affermazione del teste (circa il mancato uso di queste) lasciava ragionevolmente presumere che le stesse fossero regolarmente in dotazione nell'automezzo.

Si richiama la costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la mancata adozione di misure di sicurezza da parte del passeggero puo' costituire una ipotesi di cooperazione colposa, con conseguente riduzione proporzionale del risarcimento del danno: Cass. n. 4993 del 2004.

I giudici di appello si sono attenuti ai principi piu' volte affermati da questa Corte, secondo i quali la quantificazione del danno morale viene effettuata sulla base di una valutazione equitativa da parte del Giudice (Cass. 25 maggio 2004 n. 10035, 25 settembre 2002 n. 13933, 16 luglio 2002 n. 10268) ed e' in ogni caso applicabile l'articolo 1227 c.c., in tema di concorso di fatto colposo del danneggiato.

Quanto all'esistenza di un danno biologico (tema questo che forma oggetto del secondo motivo di ricorso) i Giudici di appello con accertamento in fatto lo hanno escluso in relazione al breve lasso di tempo intercorso tra l'incidente ed il decesso, tenuto conto anche del fatto che il Di. Bi. non riprese piu' conoscenza.

Consolidato orientamento di questa Corte richiede, ai fini del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno biologico un lasso di tempo "apprezzabile" tra l'evento ed il decesso dell'infortunato (In questo senso: Cass. 11601 del 1995, 15408 del 2004, 13585 del 2004, 4754 del 2004, 11003 del 2003).

I Giudici di appello hanno spiegato i motivi che li hanno indotto ad escludere tale voce "essendo la morte sopraggiunta, senza alcuna aspettativa di salute residua e senza il riscontro di una soggettivizzazione affittiva del periodo di coma".

I ricorrenti censurano tale ultima affermazione, rilevando che lo stato di coma del soggetto leso sarebbe comunque ininfluente ai fini dell'ammissione del danno biologico, considerato che in ogni caso si avrebbe compromissione pressoche' totale della salute, da risarcire con la massima quantificazione del danno possibile.

Attraverso la denuncia di vizi della motivazione e di violazione di norme di legge (peraltro neppure individuate, donde un ulteriore profilo di inammissibilita' di questo motivo) i ricorrenti sollecitano a questa Corte una nuova e diversa valutazione del materiale probatorio, inammissibile in questa sede.

Con il terzo motivo i ricorrenti censurano la statuizione della sentenza impugnata che ha escluso il riconoscimento del diritto dei genitori del defunto al danno patrimoniale per perdita dell'aspettativa al contributo economico che sarebbe stato apportato nel futuro del figlio Ni..

Anche in questo caso, si tratta di censure di merito, inammissibili in questa sede di legittimita'.

Si richiama l'insegnamento di questa Corte il quale, richiede - ai fini del riconoscimento di un danno patrimoniale in favore dei congiunti del defunto - la dimostrazione che "verosimilmente" il soggetto infortunato avrebbe contribuito ai bisogni della famiglia (Cass. 8333 del 2004).

La prova di tale circostanza non deve essere certo data in via meramente ipotetica, ma sulla base delle circostanze di fatto collegate al caso di specie.

Nella sentenza impugnata, i Giudici di appello - dopo avere rilevato che il giovane solo occasionalmente coadiuvava i genitori nell'attivita' aziendale della famiglia - hanno sottolineato che "nessun elemento lascia presumere che il defunto avrebbe continuato a lavorare nell'azienda familiare".

Con motivazione del tutto logica, che sfugge pertanto a qualsiasi censura, la stessa Corte ha motivato tale conclusione con la osservazione che "gli studi intrapresi fanno supporre che egli intendesse dedicarsi a diversa attivita' lavorativa".

Quanto alla censura relativa alla compensazione delle spese del secondo grado di giudizio, le ragioni della disposta compensazione sono state chiaramente enunciate nella sentenza impugnata corrispondono ad un esatto criterio di valutazione, che e' sostenuto sia dal principio di causalita' che da quello di soccombenza.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese che liquida in euro 2.100,00 (duemilacento/00) di cui euro 2.000,00 (duemila/00) per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

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