In tema di levata illegittima del protesto, parte convenuta nell'azione risarcitoria può essere anche la sola banca

In tema di levata illegittima del protesto, parte convenuta nell'azione risarcitoria può essere anche la sola banca, ove le informazioni da essa fornite al pubblico ufficiale che procede alla levata ovvero le omissioni informative abbiano inciso casualmente sulla determinazione dell'evento. Nella fattispecie la Suprema Corte ha ritenuto, con sentenza del 30 agosto 2007, n. 18316, ex art.2043 cod.civ. la responsabilità della banca che, pur in possesso dello "specimen" del cliente, aveva omesso di confrontare lo stesso con la firma (diversa) apposta sui titoli (assegni bancari),spiccati sul conto corrente del protestato e ha affermato il diritto di quest'ultimo al risarcimento dei danni cagionati dal protesto per la pubblicità "ipso facto" conferita all'insolvenza del debitore e conseguente discredito tanto personale quanto patrimoniale (anche sotto il profilo della lesione dell'onore e della reputazione al protestato come persona, a prescindere dai suoi interessi commerciali), senza che al danneggiato incombesse l'onere di provare la esistenza del pregiudizio, poiché il protesto illegittimo e non seguito da una efficace rettifica è risultato lesivo di diritti della persona).



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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 20 febbraio 1997 Pa. Er. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale la Banca CA. s.p.a. - Ca. di. Ri. di. Ge. e. Im. esponendo di essere imprenditore commerciale e di avere appreso, nel corso di svolgimento della propria attivita', da un istituto finanziario cui si era rivolta per chiedere un prestito che le era stato negato, dell'esistenza di protesti vari a suo carico.
A seguito di ricerche aveva scoperto che effettivamente esistevano due protesti elevati e pubblicati su i-stanza della Banca Ca., il primo elevato il 28 dicembre 1993 ed il secondo il 24 febbraio 1993, relativi a due assegni tratti sul conto corrente intrattenuto presso la convenuta e facenti parte di un carnet oggetto di furto denunziato alla banca.
A seguito della pubblicazione dei protesti illegittimamente elevati, l'attrice aveva subito un grave danno morale e patrimoniale in relazione alla sua qualita' di imprenditore commerciale, nonche' un danno all'attivita' da essa svolta quale socia della Ra. Tr. s.r.l., la quale, proprio in relazione all'avvenuto protesto di cui sopra, si era vista negare l'assenso alla stipula di un contratto di agenzia del valore di 100 milioni.
Tanto premesso l'attrice chiedeva che la convenuta fosse condannata alla pubblicazione di una rettifica sul bollettino dei protesti, nonche' al risarcimento dei danni morali da liquidarsi in via equitativa, e dei danni patrimoniali da liquidarsi nella misura di lire 100.000.000 o nell'altra somma da quantificare in corso di causa.
Si costituiva in giudizio la Banca Ca. e resisteva alle domande avversarie, deducendo tra l'altro che il protesto degli assegni costituiva non un atto antigiuridico, ma un atto dovuto in quanto gli assegni contenevano firme di girate, e che il soggetto legittimato alla levata ed alla pubblicazione dei protesti era nel caso di specie il Segretario Comunale, il quale aveva fatto pubblicare i protesti con la specifica causale F.F. e cioe' con la dicitura "Firma Falsa". Peraltro la Sig.ra Pa. mai era stata "imprenditrice commerciale" e non aveva subito alcun danno, tanto meno di carattere "morale".
Il Tribunale di Genova respingeva le domande dell'attrice, ma la decisione veniva riformata dalla Corte d'appello di Genova la quale, con sentenza n. 221 del 7 marzo 2002, dichiarava l'illegittimita' dei protesti elevati a carico della Pa. e, ritenuta la responsabilita' della Banca, la condannava al risarcimento sia mediante pubblicazione di rettifica su Bollettino dei protesti sia mediante pagamento di una somma di euro 1.100.00 equitativamente determinata a titolo di danno alla reputazione.
Contro la sentenza della Corte d'appello la Banca Ca. ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi, ulteriormente illustrati con memoria successiva. La parte intimata non ha svolto difese.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto violazione dell'articolo 2043 cod. civ., Regio Decreto 14 dicembre 1933, n. 1669, articolo 68, Regio Decreto 21 dicembre 1933, n. 1736, articolo 60, Decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1975, n. 290, articolo 89 in relazione all'articolo 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 in quanto la Corte d'appello per un verso non ha considerato che il protesto e' un atto doveroso, per l'altro verso non ha tenuto conto che il soggetto legittimato ad elevare il protesto non e' la Banca, ma il Pubblico Ufficiale (Notaio, Ufficiale Giudiziario o Segretario Comunale nell'ipotesi in cui - come nel caso in esame - non siano disponibili i primi due), con la conseguenza che la domanda della Pa. avrebbe dovuto essere rivolta non contro la Banca, ma contro il segretario Comunale, al quale comunque erano state fornite tutte le informazioni necessarie per un'esatta rappresentazione della vicenda, come si desume sia dalle parole scritte di pugno del Segretario comunale sull'atto di protesto del 24 febbraio 1994 ("infruttuoso perche' il Direttore mi ha detto assegno rubato firma apocrifa") e su quello del 28 novembre 1993 ("infruttuoso perche' il Direttore mi ha detto assegno rubato denunzia alla Questura di Genova 13/2/93"), sia dal fatto che entrambi i protesti furono pubblicati con al dicitura F.F. e, cioe', firma falsa.
Il motivo e' infondato. Pur essendo infatti incontestabile che l'elenco dei protesti per mancato pagamento di cambiali accettate, di vaglia cambiari e di assegni bancari costituisce - in base al disposto della Legge n. 77 del 1955 articoli 3 e 4 - attivita' propria del pubblico ufficiale che procede alla levata del protesto (cfr., tra le altre, Cass. 30 agosto 2004, n. 17415), cio' non esclude la configurabilita' di una colpa concorrente della banca ove le informazioni da essa fornite, ovvero l'omissione o l'incompletezza nel fornirle abbiano inciso causalmente sull'illegittimo protesto; e nella specie il giudice d'appello, prescindendo dall'approfondire la questione se il protesto sia stato o no un atto legittimo, ha ravvisato l'elemento di responsabilita' a carico della Banca nel fatto che il protesto avrebbe dovuto essere elevato, comunque, nei confronti del vero traente e che la Banca, depositarla dello specimen della firma della sua cliente, mettendo a confronto la firma in suo possesso con quella apposta sui titoli, sarebbe stata in grado di desumerne la non corrispondenza della seconda alla prima. L'affermazione di responsabilita' della banca e' stata dunque fondata sul rilievo che la ricorrente non fece presente al pubblico ufficiale - come invece avrebbe dovuto fare secondo il giudice d'appello - che si trattava di assegni i quali non potevano considerarsi tratti sul conto della Pa.; e in questi termini la motivazione della sentenza impugnata (che ha fatto applicazione - estendendolo anche al caso di firma illeggibile ma inidonea ad essere ricondotta al correntista - del principio secondo cui, nell'ipotesi di assegno bancario sul quale sia stata apposta una firma di traenza con un nome leggibile che risulti totalmente diverso da quello del titolare del conto di traenza, la banca, al fine di evitare che il protesto dell'assegno sia levato al nome del correntista, ha l'onere di dichiarare che di quel conto di traenza e' titolare un soggetto diverso da quello il cui nome figura nella sottoscrizione dell'assegno ed altresi' che al nome di quest'ultimo nessun conto di traenza esiste presso di essa: cfr. Cass. 16 aprile 2003, n. 6006) non e' stata investita dalle censure della ricorrente. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto violazione dell'articolo 345 c.p.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 in quanto la Corte d'appello non ha considerato che la Pa., dopo aver prospettato nel corso del giudizio di primo grado esclusivamente il danno morale e quello patrimoniale che essa avrebbe subito quale imprenditore commerciale, nel giudizio d'appello, modificando la "causa pretendi", ha per la prima volta prospettato un danno per asserita lesione alla reputazione, all'onore e persino alla salute. Il motivo e' infondato. Si legge infatti testualmente nella sentenza impugnata che il Tribunale aveva respinto non solo la domanda di liquidazione del danno patrimoniale, ma anche quella di liquidazione del danno alla reputazione, richiesto sotto il profilo dell'attentato al decoro ed alla dignita' della persona. Cio' significa che la domanda di risarcimento era stata proposta anche con riguardo al profilo del danno alla persona; e di fronte all'affermazione contenuta nella sentenza del giudice d'appello, la ricorrente non poteva limitarsi a dedurre l'asserita novita' della "causa petendi", ma avrebbe dovuto riprodurre gli atti difensivi del giudizio di primo grado in cui la Pa. ha formulato la domanda di risarcimento del danno, in modo da consentire alla Corte di verificare se il lamentato mutamento effettivamente o no vi sia stato.
Con il terzo motivo la ricorrente ha dedotto violazione del Regio Decreto 14 dicembre 1933, n. 1669, articolo 68, articoli 2043 e segg. e 1226 cod. civ. per non avere la Corte d'appello considerato che, qualora sia stata proposta domanda di risarcimento del danno con liquidazione da effettuarsi nel corso dello stesso processo, in mancanza di prove del danno la domanda deve essere rigettata, senza che sia possibile una pronuncia di condanna generica con liquidazione da effettuarsi in separato giudizio, ne' una pronuncia di condanna con liquidazione equitativa, consentita solo quando il danno non possa essere provato nel suo esatto ammontare, e non anche allorche' manchi la prova della sua entita'. Il motivo e' infondato, desumendosi dalla sentenza impugnata che la Pa. aveva formulato domanda di liquidazione del danno anche in via equitativa. Come questa Corte ha gia' avuto modo di affermare in altre occasioni, in tema di risarcimento danni il protesto cambiario, conferendo pubblicita' "ipso facto" all'insolvenza del debitore, non e' destinato ad assumere rilevanza soltanto in un'ottica commerciale/imprenditoriale, ma si risolve in una piu' complessa vicenda - di indubitabile discredito - tanto personale quanto patrimoniale, cosi' che, ove illegittimamente sollevato, ed ove privo di una conseguente, efficace rettifica, esso deve ritenersi del tutto idoneo a provocare un danno patrimoniale anche sotto il profilo della lesione dell'onore e della reputazione al protestato come persona, al di la' ed a prescindere dai suoi interessi commerciali. Ne consegue che, qualora l'illegittimo protesto venga riconosciuto lesivo di diritti della persona, come quello alla reputazione, il danno, da ritenersi "in re ipsa", andra' senz'altro risarcito senza che incomba, sul danneggiato, l'onere di fornire la prova della sua esistenza, mentre nella (diversa) ipotesi in cui sia dedotta specificamente una lesione della reputazione commerciale per effetto dell'illegittimita' del protesto, quest'ultima costituira' semplice indizio dell'esistenza di un danno alla reputazione, da valutare nel contesto di tutti gli altri elementi della situazione cui inerisce (Cass. 5 novembre 1998, n. 11103).
Con il quarto motivo la ricorrente ha dedotto violazione degli articoli 91 e 92 c.p.c., articolo 75 disp. att. c.p.c. e del Decreto Ministeriale Giustizia 5 ottobre 1994, n. 585 (tariffa professionale degli Avvocati) in quanto la Corte d'appello, liquidando a carico di essa Ca. in via equitativa la somma di euro 2.000,00 per diritti, onorari e spese del primo grado di giudizio, e quella di euro 2.500,00 per il secondo grado, da un lato ha omesso di considerare che a fronte di una domanda di risarcimento del danno per oltre 100.000.000, era la Pa. la parte realmente soccombente, con la conseguenza che si sarebbe imposta quanto meno una pronuncia di compensazione; dall'altro lato non ha tenuto conto che la legge non consente una liquidazione degli onorari e dei diritti in via equitativa e, in ogni caso, avrebbe dovuto considerare la causa di valore pari ad euro 1.100,00 (pari, cioe', alla somma riconosciuta all'attrice) e, quindi, ad uno scaglione per il quale l'importo massimo liquidabile per diritti ed onorari non avrebbe potuto superare i 1.500,00 euro per ciascun grado di giudizio. Il motivo e' infondato. Premesso che l'espressione usata in sentenza ("spese ... che liquida in via equitativa") appare impropria, essendo evidente che si e' voluto effettuare, "in mancanza di notula", una liquidazione (non equitativa, ma) "onnicomprensiva", per un verso occorre ricordare che, in base al principio ripetutamente affermato da questa Corte (cfr., tale altre, Cass. 13 febbraio 2006, n. 3083; 8 settembre 2005, n. 17953) il rispetto del principio di soccombenza impone soltanto che, al di fuori dell'ipotesi di compensazione per reciproca soccombenza o per giusti motivi, la parte totalmente vittoriosa non puo' essere condannata neppure parzialmente al pagamento delle spese di giudizio; per l'altro verso si deve rilevare che il motivo appare formulato del tutto genericamente, non essendo indicato nel ricorso (e, cioe', nell'atto difensivo in cui i motivi debbono essere formulati) quali siano le voci specifiche della Tariffa che la Corte d'appello avrebbe violato, mentre il richiamo, ai fini del valore della controversia, alle somme in concreto attribuite anziche' a quelle domandate vale per gli onorari, ma non per i diritti di avvocato.
Consegue da quanto sopra che il ricorso deve essere rigettato.
Non vi e' luogo a pronunciare sulle spese, attesto il mancato svolgimento di attivita' difensiva da parte dell'intimata.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

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