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Norma antiabuso
In via generale si rileva che i governi, all'interno dell'Unione europea, hanno competenza esclusiva per quanto riguarda i livelli dell'imposizione diretta, ovvero l'imposta sui redditi individuali e sugli utili societari, a condizione che tali imposte siano compatibili con il mercato unico e con la libera circolazione dei capitali, ossia non ostacolino gli investimenti transfrontalieri.
In via generale si rileva che i governi, all’interno dell’Unione europea, hanno competenza esclusiva per quanto riguarda i livelli dell’imposizione diretta, ovvero l’imposta sui redditi individuali e sugli utili societari, a condizione che tali imposte siano compatibili con il mercato unico e con la libera circolazione dei capitali, ossia non ostacolino gli investimenti transfrontalieri.
Le imposte sulle persone fisiche e le relative aliquote sono pertanto di competenza dagli Stati membri, salvo l’eventuale intervento dell’UE per impedire discriminazioni o agevolazioni speciali per chi si avvale della possibilità di lavorare o investire in un altro paese. Pertanto la Commissione europea o i soggetti direttamente interessati - qualora le norme tributarie di un singolo stato membro ledano i principi comunitari del mercato unico quali la libera circolazione dei capitali, dei diritti e dei lavoratori - possono adire la Corte di giustizia delle Comunità europee. Le norme antiabuso emanate da uno Stato Membro, avendo come fine esclusivo quello di prevenire trasferimenti di residenza o esterovestizioni volte a conseguire indebiti vantaggi fiscali, per la loro potenziale esizialità nei confronti delle libertà fondamentali, devono necessariamente confrontarsi con le norme comunitarie.
La Commissione europea, con la comunicazione Com (2007) 785, adottata il 10 dicembre 2007, ha sollevato il problema della compatibilità delle norme antiabuso degli Stati membri con le libertà del mercato interno, verificando anche i principi enunciati dalla Corte di Giustizia; in particolare le sentenze nei casi Cadbury Schweppes (2006) e Thin Cap Group Litigation , relativi alla disciplina britannica delle Cfc e dei finanziamenti fra parti correlate.
La comunicazione in parola si ricollega agli indirizzi formulati con le comunicazioni del 23 ottobre 2001, n. 582, e del 19 dicembre 2006, in cui si auspicava l’adozione di soluzioni coordinate in tema di doppia imposizione internazionale, di restrizioni alle libertà fondamentali e di costi di compliance.
Secondo il documento della commissione la nozione di abuso va individuata nel conseguimento di un vantaggio, pur in presenza di un’osservanza formale della norma comunitaria, quando tale vantaggio ne tradisce la finalità. Si tratta di una nozione desunta dalle pronunce della Corte di giustizia nei casi Halifax (2006) ed Emsland-Stärke (2000).
La Commissione ha evidenziato come la prevenzione degli abusi rientra fra le ragioni imperative di interesse generale che giustificano il diniego delle libertà fondamentali; peraltro la norma nazionale antiabuso non deve avere una applicazione generalizzata ma deve essere strutturata in modo tale da essere applicabili solo nei confronti delle «costruzioni di puro artificio finalizzate a sottrarre l’impresa alla legislazione dello Stato membro interessato» (Corte di Giustizia – caso Cadbury Schweppes).
Pertanto, in conformità a questa impostazione, la scelta di localizzazione di una impresa, seppur funzionale alla ricerca di un trattamento fiscale più vantaggioso rispetto alla normativa fiscale interna dello stato membro, non costituisce, di per sé, abuso della libertà di stabilimento.
Parimenti la Commissione ha ribadito la necessità che venga consentito ai contribuenti la possibilità di dimostrare, senza eccessivi oneri amministrativi, le ragioni economiche sottostanti a scelte di struttura o di localizzazione; tutto ciò al fine di evitare le doppie imposizioni o i rischi di arbitraggio (cosiddetto rispetto del principio di proporzionalità).
Inoltre sono di rilevante interesse le conclusioni della commissione relative alla normativa interna in materia di Cfc e di thin capitalization, delle quali è stata affermata l’opportunità di consentirne l’applicazione anche in ambito comunitario, pur nella consapevolezza che a tal fine sarebbe necessaria un’articolazione diversa delle stesse. Infatti sarebbe inutile, se non dannosa l’estensione di norme concepite in un contesto internazionale alle fattispecie puramente interne ai singoli Stati membri.
In più la Commissione ha evidenziato che i vincoli comunitari nei confronti delle norme antiabuso interne - operanti in relazione ai rapporti con paesi terzi - si applicano non tutte le libertà fondamentali del mercato interno ma solo quelle relative alla libertà di circolazione dei capitali. Infatti l’articolo 56 del Trattato dell’Unione – al fine di aumentare la credibilità della moneta unica e garantire la competitività internazionale dei maggiori centri finanziari europei - vieta non solo le restrizioni tra Stati membri, ma anche, espressamente, quelle «tra Stati membri e Paesi terzi».
Le regole nazionali antiabuso in materia di Cfc e di thin capitalization nei rapporti tra Stati membri e paesi terzi non sono soggette a particolari vincoli dettati dal diritto comunitario quando dispiegano i propri effetti per quanto riguarda la libertà di stabilimento di cui all’articolo 43 del Trattato.
Diversamente le stesse incontrano dei vincoli con riferimento all’articolo 56. In particolare le norme antiabuso sono applicabili a condizione che la norma nazionale incida solo su «costruzioni interamente artificiose» o operi solo in assenza di un adeguato scambio di informazioni.
Con riferimento alla Corte di giustizia si rileva che la stessa ha emanato una serie di importanti sentenze in questo settore, nelle quali ha chiarito le limitazioni dell’utilizzazione legittima delle norme antielusione. Le sentenze eserciteranno indubbiamente un impatto significativo sulle norme vigenti, che sono state formulate senza tener presenti tali vincoli. Secondo la Corte di Giustizia le norme interne non devono avere una portata troppo ampia, ma essere mirate a situazioni in cui non esiste un insediamento effettivo o, più in generale, in cui manca una motivazione commerciale. È pertanto opportuno che gli SM rivedano le loro norme antielusione. La Corte di giustizia ha definito criteri chiari da applicare a singoli casi, peraltro, secondo la commissione, è necessario implementare l’applicazione pratica di tali principi in modo più generale, al di là dei particolari contesti da cui hanno tratto origine. In dettaglio è necessario elaborare specifiche soluzioni coordinate in stretta collaborazione con gli SM al fine di:
- mettere a punto definizioni comuni di abuso e costruzioni di puro artificio (per fornire orientamenti sull’applicazione di questi concetti nel settore dell’imposizione diretta),
- migliorare la cooperazione amministrativa in modo da individuare e contenere più efficacemente gli abusi e i meccanismi fiscali fraudolenti,
- condividere le migliori pratiche compatibili con il diritto comunitario, in particolare allo scopo di garantire la proporzionalità delle misure antiabuso,
- ridurre le discordanze potenziali causa della non tassazione involontaria e - assicurare un migliore coordinamento delle misure antiabuso nei confronti dei paesi terzi.
Norme aniabuso in ambito interno
Il legislatore nazionale ha previsto, con riferimento alle imposte dirette, la norma antielusiva di cui all’articolo 37 bis del DPR n. 600/1973 che si applica esclusivamente a determinate fattispecie (operazioni di carattere straordinario: fusioni, scissioni, trasformazioni ecc.). Pertanto nella normativa italiana non esiste una norma antiabuso di carattere generale.
Peraltro la Corte di Cassazione ha ritenuto direttamente applicabile in Italia la norma antiabuso comunitaria.
In particolare il principio di divieto di “abuso del diritto”, così affermato in sede comunitaria, è stato quindi recepito dalla Corte di Cassazione che, nelle più recenti sentenze n. 8772 e n. 10257 del 2008, lo ha rielaborato in questi termini: “Non hanno efficacia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscono ‘abuso del diritto’, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale; ed incombe sul contribuente fornire prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico”. La traslazione del principio dall’ambito comunitario a quello nazionale ha comportato, quindi, l’ampliamento del concetto stesso di abuso.
Inoltre, secondo la Suprema Corte, sebbene il principio di abuso del diritto scaturente dalla sentenza Halifax si riferisce alla materia IVA, non sussiste alcun dubbio in merito sulla generale applicabilità nell’ordinamento tributario italiano della nozione di abuso del diritto.
A tal riguardo la Corte di Cassazione già nel 2006, con la sentenza n. 21221, ha sostenuto : “Pur riguardando la pronuncia del Giudici di Lussemburgo un campo impositivo di competenza comunitaria (l’IVA), questa Corte ritiene che, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria, anche l’imposizione fiscale diretta, pur essendo questa attribuita alla competenza degli Stati membri, gli stessi devono esercitare tale competenza nel rispetto dei principi e delle libertà fondamentali contenuti nel Trattato CE”.