In applicazione dell'art. 2087 c.c., l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa quelle misure che, con riguardo alle condizioni concrete, sono necessarie alla tutela dell'integrità fisica e morale dei lavoratori

In applicazione dell'art. 2087 c.c., l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa quelle misure che, con riguardo alle condizioni concrete, sono necessarie alla tutela dell'integrità fisica e morale dei lavoratori. Tale disposizione costituisce, pertanto, uno dei presupposti giuridici (l'altro è quello generale del neminem laedere) sui quali si fonda la responsabilità del datore di lavoro per i danni subiti dal dipendente sul luogo di lavoro. Tale responsabilità, in ogni caso, non ha natura oggettiva ma implica, comunque, la sussistenza di uno stretto nesso eziologico tra evento morboso (come verificatosi nello svolgimento del rapporto di lavoro) e comportamento colposo del datore di lavoro che, per negligenza, abbia omesso di approntare tutte le tutele richieste dalla norma su citata. Ai fini del riconoscimento di tale responsabilità in capo all'imprenditore, pertanto, compete al lavoratore l'onere della prova in merito all'esistenza del danno ed alla nocività dell'ambiente lavorativo che ne avrebbe costituito la fonte, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare di aver fatto tutto il necessario al fine di evitare qualsiasi pregiudizio e che, in ogni caso l'insorgenza della malattia non è affatto casualmente connessa con la violazione di obblighi a proprio carico. In tal senso, nel caso di specie, è stata esclusa la responsabilità dell'azienda in merito alle patologie invalidanti che avevano colpito il dipendente il quale, innanzi tutto, aveva accettato il tipo di lavoro proposto (un servizio di pulizia), e la conseguente naturale esposizione della propria persona ad un'attività faticosa. In seguito poi, in costanza di rapporto, non aveva mai denunciato alcuna formale carenza (rimasta comunque priva di qualsiasi riscontro), tanto da dover escludere qualsiasi profilo di colpa nella circostanza che il lavoratore avesse continuato ad effettuare le prestazioni per le quali era stato assunto. Dopo che l'azienda era venuta a conoscenza delle patologie insorte a carico del dipendente medesimo - che ne avevano determinato un'invalidità parziale -quest'ultimo non aveva mai, comunque, avanzato istanza formale per essere ammesso a svolgere mansioni differenti ( o dedotto che l'invalidità fosse ostativa alla prosecuzione del rapporto nel medesimo modo), usufruendo, peraltro, di lunghi periodi di malattia affatto osteggiati dal datore di lavoro.

Corte d'Appello Potenza Sezione Lavoro Civile, Sentenza del 8 febbraio 2011, n. 753



- Leggi la sentenza integrale -

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D'APPELLO DI POTENZA

SEZIONE LAVORO

nelle persone dei magistrati:

dott. Pio Ferrone - Presidente -

dott.ssa Maura Stassano - Consigliere -

dott.ssa Caterina Marotta - Consigliere rel. -

ha pronunziato all'udienza del 16.12.2010 la seguente

SENTENZA

nel giudizio di appello iscritto al n. 920 del ruolo generale appelli lavoro dell'anno 2008

TRA

Ce.Ri., rappresentata e difesa dall'avv. Pi.Pe., giusta procura a margine dell'atto di appello depositato in data 22 ottobre 2008, elettivamente domiciliata presso di lui in Potenza;

Appellante

E

Co.Gr. S.p.A. (già On. S.p.A.), in persona dell'Amministratore Delegato Ing. Ca.Sc., elettivamente domiciliata in Potenza, presso lo studio dell'avv. Fr.Bo., rappresentata e difesa dall'avv. Ma.Go. del foro di Milano unitamente e disgiuntamele all'avv. Fr.Le., come da procura in calce alla copia notificata del ricorso di primo grado;

Appellata

NONCHÉ

As.Ge. S.p.a., corrente in Trieste in persona dei suoi legali rappresentanti p.t. dott. To.Ce. e dott. Ro.Se., rappresentati e difesi, giusta mandato a margine della memoria difensiva dell'1.5.2007 del giudizio di primo grado, dall'avv. Ma.Fi. con il quale sono altresì elett.te dom.ti in Potenza;

Appellata/Appellante Incidentale

OGGETTO: risarcimento danni - Appello avverso la sentenza del Tribunale di Melfi - giudice del lavoro - n. 536/2008.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza resa in data 16.9.2008, il Giudice del Lavoro del Tribunale di Melfi rigettava la domanda proposta da Ce.Ri. nei confronti della Sa.On. S.p.A. con ricorso depositato in data 15.6.2005; le spese erano state compensate tra le parti. La Ce., premesso di essere stata assunta dalla Sa.On. S.p.A., con stabilimento nella zona industriale di Melfi, con mansioni di addetta alla mensa aziendale ed al servizio di pulizia, di essere stata sottoposta a visita medico legale presso la sede I.N.P.S. di Potenza e di essere stata riconosciuta invalida tanto da ottenere il riconoscimento dell'assegno di invalidità, di essere stata adibita a mansioni non consone al suo già compromesso stato di salute, che ne avevano azzerato ogni capacità lavorativa, aveva agito in giudizio per ottenere il risarcimento di tutti i danni (patrimoniale, biologico, esistenziale e morale) derivanti dalla menomazione dell'integrità psicofisica e riconducigli all'inadempimento contrattuale ai sensi dell'art. 2087 c.c. ma anche per violazione del più generale principio del neminem laedere. Aveva evidenziato che, a fronte della sua condizione di invalidità, avrebbe dovuto il datore di lavoro adibirla a mansioni diverse e comunque più leggere, predisponendo un ambiente di lavoro atto a salvaguardare, oltre ai diritti patrimoniali del lavoratore, anche il diritto alla salute ed al rispetto della dignità di questi. Aveva, perciò, chiesto la condanna della convenuta al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, della complessiva somma di Euro 250.000,00 ovvero di quella maggiore o minore che fosse stata ritenuta conforme a giustizia.

Si era costituita in giudizio la resistente, ed aveva concludeva per il rigetto della domanda, invocando, in ogni caso, la chiamata in causa della As.Ge. S.p.A., da cui intendeva essere manlevata.

Autorizzata la chiamata in causa, si era costituita la società di assicurazioni e pure aveva contestato quanto ex adverso dedotto.

Il giudice aveva rigettato la domanda ritenendo che parte ricorrente non avesse assolto all'onere probatorio imposto dall'art. 2087 c.c..

Avverso tale sentenza proponeva appello la Ce., con ricorso depositato in data 22.10.2008, e censurava la stessa nella parte in cui erano state ritenute non supportate da alcuna documentazione le asserzioni di cui alla domanda e nella parte in cui si era ritenuto che la consulenza medica di parte avesse la valenza di una mera allegazione difensiva; rilevava che le certificazioni mediche prodotte non erano state contestate dalla controparte e che la relazione del dott. Ma.Si., lungi dall'essersi limitata a riferire, sulla base di una anamnesi personale, di patologie presenti e remote, conteneva un oggettivo ed autonomo esame clinico accompagnato da una minuziosa descrizione delle malattie rinvenute. Evidenziava che, dovendo considerarsi i suddetti elementi non tamquam non esset ma, al più, una prova semipiena, avrebbe dovuto il giudice avvalersi dei poteri d'ufficio e nominare un proprio consulente per verificare la fondatezza delle conclusioni cui era giunto il medico di parte. Precisava di aver articolato prova testimoniale volta a dimostrare la gravosità delle prestazioni e che, sul punto, del tutto generica era stata l'eccezione della società convenuta. Da ultimo rilevava che, avendo fornito la prova dell'an debeatur, la quantificazione del danno patrimoniale, biologico ed esistenziale ben poteva essere effettuata secondo equità. Concludeva nei termini di cui alle surriportate conclusioni.

Emesso il decreto presidenziale ex art. 435 c.p.c., notificato in uno all'atto introduttivo alle controparti, si costituiva la Co.Gr. S.p.A. (già On. S.p.A.) per resistere all'avverso gravame e ne deduceva l'infondatezza. Si costituiva la As.Ge. S.p.A. e pure contestava quanto ex adverso dedotto. Formulava detta ultima società appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza appellata nella parte relativa alla regolamentazione delle spese processuali.

All'odierna udienza comparivano i procuratori delle parti che si riportavano ai rispettivi scritti difensivi e discutevano la causa, decisa come da dispositivo pubblicamente letto.

MOTIVAZIONE

L'appello proposto da Ce.Ri. non è fondato.

Si premette che nel sistema della tutela risarcitoria di diritto civile il nesso causale del danno con l'attività svolta dal lavoratore subordinato consente di ipotizzare, per un fatto che violi contemporaneamente sia diritti che spettano alla persona in base al precetto generale del neminem laedere sia diritti che scaturiscono dal vincolo giuridico contrattuale, il concorso dell'azione extracontrattuale di responsabilità ex art. 2087 c.c..

La duplicità del titolo risarcitorio comporta un distinto regime per ciascuna delle due azioni per quanto riguarda la distribuzione dell'onere della prova (gravando sul datore di lavoro la dimostrazione, quando sia dedotta la violazione dei suddetti obblighi contrattuali, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno). Ciò tuttavia non incide sull'elemento costitutivo della fattispecie di illecito, rappresentato in entrambi casi dal requisito soggettivo del dolo o della colpa che caratterizza la condotta antigiuridica, dovendosi comunque escludere la configurabilità di una responsabilità risarcitoria dell'imprenditore, in base ad un criterio puramente oggettivo di imputazione, per l'evento collegato al rischio dell'attività svolta nel suo interesse (cfr. Cass. n. Cass. n. 8381 del 20.6.2001, Cass. n. 11120 del 26.10.1995; cfr. anche Cass. n. 5002/1992, n. 1844/1992, n. 11351/1993, n. 8090/1994, S.U. n. 4441/1987). In particolare, l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva: perché possa affermarsi una responsabilità del datore di lavoro in base alla suddetta disposizione non è sufficiente, infatti, che nello svolgimento del rapporto di lavoro si sia verificato un evento dannoso in pregiudizio del lavoratore, ma occorre che tale evento sia ricollegabile ad un comportamento colposo del datore di lavoro.

Ne consegue che incombe sul lavoratore il quale lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro nonché la connessione tra l'uno e l'altra. Incombe, invece, sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito ovvero che la malattia non è ricollegabile alla violazione degli obblighi a suo carico (cfr. Cass. n. 4840 del 7.3.2006, Cass. n. 12467 del 25.8.2003, Cass. n. 12905 del 20.11.1999, n. 6388 del 27.6.1998, cfr. anche Cass. n. 12661/1995, n. 10361/1997).

Nella specie, non è dedotta la mancata predisposizione di misure atte a consentire la conoscenza e l'aggiornamento costante delle condizioni di salute dei lavoratori presenti in azienda né si ravvisa violazione alcuna degli obblighi posti a carico della On. S.p.A. nell'esecuzione del rapporto di lavoro con la Ce., in particolare di quelli posti a tutela delle condizioni di lavoro (la responsabilità datoriale non ricorre per la sola insorgenza della malattia durante il rapporto di lavoro, richiedendosi che l'evento sia ricollegabile ad un comportamento colposo dell'imprenditore che, per negligenza, abbia determinato uno stato di cose produttivo dell'infermità - così Cass. n. 4184 del 21.2.2006, Cass. n. 10175 del 26.5.2004 - ).

Va, infatti, osservato in primis che la lavoratrice, accettando di svolgere le mansioni di operaia addetta alla mensa aziendale ed al servizio di pulizia, dapprima con un rapporto di lavoro part - time (cfr. contratto del 29.8.1996), poi con un orario di 30 ore settimanali per sei giorni alla settimana (cfr. comunicazione della società del 12.11.98 sottoscritta per accettazione dalla Ce.) e, quindi, con un orario di 36 ore settimanali (cfr. comunicazione della società dell'1 marzo 1999 sottoscritta per accettazione dalla Ce.), ha di fatto accettato il rischio elettivo della naturale esposizione della sua persona ad una attività faticosa.

Né d'altra parte risulta dedotto che la stessa abbia svolto turni massacranti in condizioni di lavoro particolarmente disagevoli.

Nessuna violazione delle norme di sicurezza e di tutela dell'ambiente di lavoro è stata mai denunciata dalla lavoratrice (ovvero dai rappresentati delle OO.SS. aziendali) né d'altra parte la Ce., nel suo ricorso, ha allegato ragioni di doglianza legate a una tale violazione. Sino, dunque, al momento (del quale, in ogni caso, non si è data, da parte dell'appellante, una prova certa e convincente) in cui l'Azienda è venuta a conoscenza delle patologie - asseritamele incompatibili con l'attività lavorativa - dalle quali era affetta la Ce., nessuna condotta colposa può essere a quella imputata, avendo adibito la lavoratrice alle mansioni per le quali era stata assunta, in un ambiente di lavoro in cui (si presume, non essendo stata data la prova contraria) erano rispettate tutte le norme di sicurezza a tutela della salute dei dipendenti.

Venuta, quindi, a conoscenza delle condizioni di salute della ricorrente e, per meglio dire, di una sua invalidità parziale (dato, quest'ultimo, che, sia pure non provato dall'appellante nella sua precisa collocazione temporale, è ammesso nell'ara dalla stessa On. S.p.A. - pag. 3 della comparsa di costituzione in primo grado -), l'Azienda datrice di lavoro, senza che in alcun modo le fosse stato formalmente rappresentato dall'interessata che detta parziale invalidità era, in concreto, ostativa allo svolgimento delle mansioni per cui era stata assunta né mai manifestata una qualche sintomatologia di sofferenza o di affaticamento ovvero mai richiesta l'assegnazione a compiti diversi, e, dunque, nella obiettiva consapevolezza della sua idoneità, ha in ogni momento (non vi è la prova contraria) consentito alla stessa di assentarsi dal lavoro per malattia (cfr. buste paga e certificazioni di malattia in atti da cui si evincono ben 48 giorni di malattia nel 2002, 13 giorni nel 2003, 14 giorni nel 2004 - e fino alle dimissioni del settembre 2004 -) così da permetterle di recuperare le energie psico - fisiche transitoriamente compromesse.

Nessuno degli elementi di cognizione raccolti nel corso del giudizio consente di affermare che la permanenza della lavoratrice nello svolgimento delle mansioni di addetta alla mensa aziendale ed al servizio di pulizia, abbia comportato un aggravamento delle affezioni che avevano portato al riconoscimento della invalidità parziale.

Sul punto, concorda la Corte con quanto evidenziato dal primo giudice in ordine al fatto che si rilevino dalla prospettazione di cui al ricorso introduttivo difetti di allegazione con inevitabili ripercussioni sull'adempimento degli oneri probatori.

La Ce., come detto, prospetta un inadempimento datoriale consistente nell'adibizione, da parte della On. S.p.A., a mansioni incompatibili con il proprio stato di salute e tale da determinare un azzeramento di ogni sua residua capacità lavorativa. Fa, al riguardo, riferimento all'accertamento effettuato presso la sede I.N.P.S. di Melfi a seguito di istanza presentata in data 5.4.2002 ed al conseguente riconoscimento dell'assegno ordinario di invalidità (atti, questi, neppure prodotti), senza tuttavia alcuna specificazione del rapporto di relazione causale tra il proseguito svolgimento delle mansioni di assunzione e l'aggravamento del quadro patologico e risultando solo dedotta una certa gravosità di compiti di assegnazione (per quanto sopra detto, connaturale all'espletamento degli stessi). Non si evince dalla stessa consulenza di parte che le patologie riscontrate al momento del riconoscimento dell'invalidità da parte dell'I.N.P.S. (riportate nella relazione del dott. Ma.Si. e non altrimenti documentate) fossero in qualche rapporto causale con l'attività lavorativa (si fa, infatti, riferimento ad esiti di carcinoma ovarico, ad una sofferenza artrosica a carico dei metanieri C5-C6 per un trauma cervicale con schiacciamento dello spazio intervertebrale risalente all'età scolare, ad un deficit respirato ostruttivo da bronchite cronica). Inoltre, proprio il consulente di parte colloca la patologia che, rispetto a quelle asseritamente già riconosciute dall'I.N.P.S. come invalidanti, avrebbe gravemente compromesso la residua capacità lavorativa - e cioè la depressione-reattiva di grado marcato -, in relazione alla "complessa situazione venutasi a creare a seguito della diminuita efficienza fisica". Anche tale patologia, dunque, non è posta in diretto rapporto causale con l'attività lavorativa ma con uno stato soggettivo più verosimilmente condizionato dalla pregressa anamnesi personale (la Ce. non aveva avuto gravidanze pur avendo tentato più volte l'inseminazione) e patologica (era stata sottoposta ad un primo intervento di utero-annessiectomia e ad un secondo intervento di omentectomia residua con aspirazione del moncone e linfo - adenectomia retro peritoneale).

Anche dalla certificazione medica versata in atti dall'appellante, ed in particolare, dal certificato della Casa Sollievo della Divina Provvidenza di San Giovanni Rotondo del 10.2.2004 si rileva chiaramente che lo stato depressivo della Ce. era da ricollegarsi all'intervento di asportazione del carcinoma ovarico.

Rispetto a tale condizione, non si evince quali siano state le precise misure precauzionali e/o protettive disattese dal datore di lavoro e la riferita mancata adozione da parte della On. S.p.A. delle più elementari misure di salvaguardia della sicurezza e salute psico - fisica si risolve in una mera formula, priva di un preciso contenuto atto qualificare, in concreto, l'inadempimento.

A fronte, dunque, di "esperienze" di tipo personale idonee a cagionare un turbamento psichico anche di natura acuta e, dunque, a fronte di una chiara (quantomeno) multifattorialità, vi era, evidentemente, la necessità che la prova di una genesi lavorativa della asserita patologia depressiva fosse fornita in modo puntuale e rigoroso. Tanto, però, nello specifico non è accaduto non risultando neppure chiaramente dedotte in sede di ricorso introduttivo - nel quale si rinviene solo un generico riferimento ad una gravosità del lavoro unita ad angherie, soprusi ed umiliazioni - precise circostanze idonee a dare contenuto ad una condizione di lavoro determinativa del pregiudizio psico - fisico lamentato ed a rendere, così ammissibile, la prova testimoniale sul punto.

Non vi è, inoltre, nella prospettazione di cui al ricorso alcuna deduzione relativa alla differente possibilità di utilizzazione della Ce. da parte dell'azienda, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore, idonea a garantire una collocazione lavorativa non pretestuosa e tale da meglio salvaguardare la salute del dipendente, nel rispetto dell'organizzazione aziendale.

In conclusione, nessuna responsabilità per comportamento antigiuridico nei confronti della lavoratrice può essere nella specie affermata ai fini del preteso risarcimento del danno. Si aggiunga, poi, che una mancata precisa individuazione degli elementi strutturali delle voci di danno finisce con il pregiudicare la prova della sua esistenza in concreto. Come è noto un danno non patrimoniale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e, dunque, lo stesso non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, della natura e delle caratteristiche del pregiudizio medesimo; così il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico - fisica medicalmente accertata, il danno esistenziale - che, a seguito di Cass. n. 26972/2008 non ha una sua autonomia concettuale, ma è un elemento da considerare, ove ricorra il presupposto della sua "serietà", nel danno non patrimoniale - va ricollegato ad ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile) provocato sul fare aredditruale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno e va dimostrato con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, potendo assumere rilievo anche la prova per presunzioni ricavatole, però, dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti).

Alla luce delle considerazioni che precedono l'appello proposto da Ce.Ri. deve essere rigettato.

Va anche rigettato l'appello incidentale proposto dalla As.Ge. S.p.A..

Si duole tale società della regolamentazione delle spese processuali come effettuata dal primo giudice ed invoca l'applicazione del principio della soccombenza che, a suo dire, nello specifico, non poteva essere eluso dal mero richiamo alla "natura della controversia".

Il motivo non è fondato.

Il principio di soccombenza poteva essere invocato dalla società chiamata in garanzia solo nei confronti del convenuto chiamante (nell'ipotesi di palese infondatezza della domanda di garanzia medesima) ma non anche nei confronti dell'originario ricorrente, rispetto al quale il terzo assume la posizione di diretto contraddittore solo nel caso (diverso da quello in esame) in cui venga ritenuto soggetto effettivamente e direttamente obbligato o, in caso di azione risarcitoria, quale unico responsabile del fatto dannoso. Si richiama, al riguardo, il principio espresso dalla Suprema Corte nella sentenza n. 8363 dell'8/4/2010 nonché nella sentenza n. 27525 del 29.12.2009.

L'esito dell'appello principale e quello dell'appello incidentale costituiscono giusto motivo per compensare tra Ce.Ri. e la As.Ge. S.p.A. le spese del presente grado di giudizio.

La condizione delle parti ed il comportamento della On. S.p.A. (ora Co.Gr. S.p.A.) - che è rimasta inadempiente, senza alcun plausibile motivo, all'ordinanza collegiale del 28.5.2009 (la documentazione richiesta dalla Corte è stata, infatti, poi, in parte, prodotta dalla stessa appellante) - consentono di compensare tra la Ce. e la predetta società, per metà, le spese processuali del presente grado di giudizio e di porre a carico dell'appellante la residua quota.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Potenza - Sezione Lavoro - definitivamente pronunziando sull'appello proposto da Ce.Ri. con atto depositato in data 22.10.2008 nei confronti della Co.Gr. S.p.A. (già On. S.p.A.) e della As.Ge. S.p.A. e sull'appello incidentale proposto dalla As.Ge. S.p.A. con atto depositato in data 14.5.2009 avverso la sentenza del Tribunale di Melfi n. 536/08 pronunziata in data 16.9.2008, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa così provvede:

1) rigetta l'appello principale;

2) rigetta l'appello incidentale;

3) compensa tra Ce.Ri. e la As.Ge. S.p.A. le spese del presente grado di giudizio;

4) condanna Ce.Ri. al pagamento in favore della Co.Gr. S.p.A. (già On. S.P.A.) di metà delle spese del presente grado di giudizio e compensa tra le parti la residua quota; liquida, per intero, le spese del presente grado in complessivi Euro 2.306,00 di cui Euro 750,00 per diritti, Euro 1.300,00 per onorari ed Euro 256,00 per rimborso forfettario oltre Iva e Cpa come per legge.

Così deciso in Potenza, il 16 dicembre 2010.

Depositata in Cancelleria il 8 febbraio 2011.

INDICE
DELLA GUIDA IN Infortuni sul lavoro

OPINIONI DEI CLIENTI

Vedi tutte

ONLINE ADESSO 2664 UTENTI