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Imposta di registro Fusione per incorporazione - esclusione
Pubblicata il 24/06/2010
Sent. n. 13225 del 16 luglio 2004 (ud. del 25 febbraio 2004) della Corte Cass., Sez. tributaria
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Svolgimento del processo - Con ricorso notificato alla S.p.a. R... il 12 marzo 2001 (depositato il 30 marzo 2001), il Ministero delle finanze - premesso in fatto che detta società aveva impugnato innanzi al competente giudice tributario il silenzio rifiuto formatosi sull'istanza, presentata il 29 ottobre 1996, con la quale la stessa, assumendo che l'atto «avrebbe dovuto essere sottoposto ad imposta in misura fissa ai sensi della Direttiva 69.355 CEE», aveva chiesto il rimborso dell'imposta proporzionale di registro corrisposta per l'atto, registrato il 20 marzo 1996, di incorporazione della S.p.a. COMMERCIALE R... della quale già deteneva l'intero capitale sociale in forza di un solo motivo chiedeva di cassare la sentenza n. 202/33/00 depositata il 6 novembre 2000 dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, notificata i .15 gennaio 2001, che aveva respinto l'appello proposto da essa amministrazione avverso la decisione (n. 93/16/98) della Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva accolto il ricorso della contribuente. La società intimata non si costituiva in giudizio né svolgeva. attività difensiva. Motivi della decisione - 1. Con la sentenza gravata la Commissione tributaria della Lombardia - dopo aver esposto [1] che la S.p.a. R..., «incorporante della Commerciale R. S.p.A.», Si era opposta al «silenzio-rifiuto dell'Ufficio del Registro di Milano» formatosi sull'istanza, «presentata in data 4 novembre 1996», con la quale era stato chiesto il rimborso dell'«imposta proporzionale di registro dell'1% pari a £. 66.781.000 che assumeva indebitamente percetta su atto di fusione registrato a Milano-Atti Pubblici in data 20 marzo 1996», imposta chiesta all'atto della registrazione in «applicazione dell'art. 4, lettera b), parte prima Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1988» ma «in contrasto con la disciplina comunitaria di cui alla direttiva CEE 73/88 la quale, a sua volta, modificava la 69/335 del 17 luglio 1969» e [2] che la società (a) aveva sostenuto che «l'atto di fusione non doveva essere assoggettato ad imposta (salvo la misura fissa) in quanto la direttiva CEE n. 85/303 in vigore dal 1 giugno 1986 prevede l'esenzione dall'imposta sui conferimenti per tutte e operazioni che "alla data del 1° luglio 1984 erano esentate o assoggettate ad una aliquota pari o inferiore allo 0,50%" [e] l'assoggettamento all'aliquota dell'1% per tutti gli altri casi» e (b) aveva confutato «l'eventuale tesi che le direttive menzionate escludessero il caso di fusione» ricordando «la sentenza n. 168 del 18 aprile 1991 con la quale la Corte Costituzionale a riconosciuto la diretta applicabilità nell'ordinamento interno delle disposizioni contenute nelle direttive con il solo limite che si tratti di disposizioni incondizionate (che non lascino margini di discrezione agli Stati membri nella loro attuazione), sufficientemente precise, non recepite nel diritto nazionale entro il termine previsto o recepite in modo inadeguato» - ha rigettato il gravame dell'Amministrazione Finanziaria dello Stato adducendo che: «a) nell'eventualità di contrasto fra la disciplina comunitaria contenuta nelle direttive 73/80 del 9 aprile 1973 e 85/303 del 10 giugno 1985 e le disposizioni degli artt. 50, comma 4, e 4, lettera b), della Tariffa, Parte prima allegata al D.P.R. n. 131/1986 deve essere disapplicata la norma di diritto interno in forza di quanto deciso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 168 del 18 aprile 1991»; «b) l'atto di fusione deve essere assimilato agli atti di conferimento esclusivamente remunerati mediante attribuzione di quote sociali considerata la finalità delle direttive comunitarie richiamate (incentivare le operazioni di raggruppamento e di concentrazione tra imprese al fine di ridurre il più possibile gli ostacoli allo sviluppo ed al funzionamento del mercato comune dei capitali) (cfr. anche Corte di Giustizia 13 ottobre 1992, causa 50/95; relazione governativa al disegno di legge 16 luglio 1977 n. 904)»; «c) la norma applicabile nella fattispecie è pertanto quella compresa nella direttiva CEE 85/303 del 10 giugno 1985 per la quale non devono essere assoggettate ad imposizione i conferimenti remunerati mediante attribuzione di quote sociali». 2. Con l'unico motivo di ricorso il Ministero - dopo avere esposto che, «come risultava chiaramente dalla pagina 3 dell'atto di fusione», la società incorporante «alla data dell'atto di fusione per incorporazione era già in possesso dell'intero capitale azionario della società incorporata» - lamenta, in relazione all'art. 360, n. 3, del codice di procedura civile, «violazione e falsa applicazione degli 12 della Direttiva 69/335/CEE» adducendo che, come chiarito dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee con la sentenza del 27 ottobre 1998 (in causa C-152/97, Abbruzzi Gas S.p.a.) e da questa Corte (Cass. 3 settembre 1999, n. 9284 e 6 ottobre 1999, n. 11100), alla fattispecie «non si rendeva applicabile» la disposizione dettata dal detto art. 7 (nel testo introdotto con la direttiva n. 85/303/CEE) «per mancanza del requisito essenziale, e cioè che il conferimento fosse esclusivamente remunerato "mediante attribuzione di quote sociali"» atteso che, «essendo la incorporante già proprietaria del 100% del capitale della società incorporata», la fusione non aveva comportato nessun aumento di capitale «con conseguente esclusione di qualsiasi attribuzione di quote o azioni della società incorporante». Secondo il ricorrente, quindi, «non essendosi realizzate le condizioni a cui l'art. 7 della direttiva subordinava la riduzione (fino al 31 dicembre 1985) dell'aliquota e, successivamente, la esenzione dall'imposta, correttamente la fusione è stata tassata in misura proporzionale in base alla normativa interna». 3. In via preliminare va verificata ex officio l'ammissibilità del ricorso per cassazione proposto dal Ministero. A. La questione nasce dal fatto che in tale ricorso l'inapplicabilità alla specie della Direttiva CEE n. 69/335/CEE viene collegata alla peculiarità, della quale non vi è cenno nella sentenza impugnata e che e stata evidenziata per la prima volta solo in questo giudizio di legittimità, secondo la quale, nella concreta fattispecie, la fusione per incorporazione è stata operata da una società la quale possedeva già l'intero capitale sociale della società incorporata. B. Il ricorso deve ritenersi ammissibile in forza di due concorrenti ordini di argomenti. B.1. In ordine al primo, va, innanzi tutto, ricordato che per l'art. 2501, primo comma, del codice civile «la fusione di più società può eseguirsi» o «mediante la costituzione di una società nuova» o «mediante l'incorporazione in una società di una o più altre» (fusione detta «per incorporazione)». Dalla prima specie di fusione, come noto, nasce un nuovo soggetto giuridico mentre la fusione per incorporazione determina (Cass., I, 28 giugno 2002 n. 9504; id., III, 2 agosto 2001, n. 10595) l'estinzione dell'ente incorporato. Una particolare ipotesi di fusione «per incorporazione», poi, è data dalla «incorporazione di una società in un'altra che possiede tutte le azioni o le quote della prima» alla quale, per l'art. 2504-quinquies del codice civile (aggiunto dall'ari. 16 del D.Lgs. 16 gennaio 1991 n. 22); «non si applicano le disposizioni dell'articolo 2501-bis, comma 1, numeri 3), 4), 5), e degli 2501-quinquies», cioè le disposizioni per le quali: 1) gli amministratori delle società partecipanti (a) non debbono indicare nel progetto di fusione redatto ai sensi dell'art. 2501-bis del codice civile (aggiunto dall'art. 3 D.Lgs. n. 22/1991 cit.) «3) il rapporto di cambio delle azioni o quote, nonché l'eventuale conguaglio in denaro», «4) le modalità di assegnazione delle azioni o delle quote della società che risulta dalla fusione o di quella incorporante» e «5) la data dalla quale tali azioni o quote partecipano agli utili» previsti dal primo comma dell'art. 2501-bis, e (b) non debbono redigere la «relazione la quale illustri e giustifichi, setto il profilo giuridico ed economico, il progetto di fusione e in particolare il rapporto di cambio delle azioni o delle quote» richiesta per le fusioni ordinarie dal primo comma dell'art. 2501-quater del codice civile (aggiunto dall'art. 5 D.Lgs. n. 22/1991 cit.), né, quindi, «indicare i criteri di determinazione del rapporto di cambio» (secondo comma) né «le eventuali difficoltà d'valutazione» (terzo comma); 2) non si deve redigere la «relazione degli esperti» sulla «congruità del rapporto di cambio delle azioni o delle quote» prevista dall'art. 2501-quinquies (aggiunto dall'art. 6 D.Lgs. n. 22/1991 cit.). Ulteriore ipotesi riscontrata nella pratica (alla quale parte della dottrina ritiene applicabile, in via definita «iperestensiva», la delineata procedura semplificata), infine, è costituita dalla fusione cosiddetta inversa (reverse merger), caratterizzata dal fatto che l'intero capitale sociale è posseduto non già dalla incorporante ma dalla incorporanda, in ordine alla quale questa Corte (con ordinanza n. 994/04 depositata il 21 gennaio 2004) ha investito la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, ai sensi dell'art. 234 (ex 177) del Trattato di Roma, per l'esame della compatibilità con le norme contenute nella Direttiva del Consiglio 17 luglio 1969 n. 73/80/CEE e n. 85/303/CEE) della norma di diritto interno che, nel testo applicabile anche a quella fattispecie ratione temporis, prevedeva la soggezione ad imposta proporzionale di registro dell'atto con il quale veniva attuata una fusione Inversa, in particolare sotto l'aspetto della riscontrabilità, nella peculiare fattispecie, di un ostacolo alla libera circolazione dei capitali. B.2. In secondo luogo si deve rammentare che per la Corte di Giustizia CEE (decisione 13 febbraio 1996, n. 197) l'interpretazione di una norma di diritto comunitario da essa fornita chiarisce e precisa il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa e applicata al momento della sua entrata in vigore con la conseguenza che la norma così interpretata deve essere applicata dal giudice nazionale anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti dopo l'entrata in vigore detta ma prima della sentenza interpretativa (salvo che la stessa Corte, invia del tutto eccezionale, limiti gli effetti della sua pronuncia). L'art. 7 della Direttiva 69/335/CEE («concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali») emanata il 17 luglio 1969 dal Consiglio dell'Unione Europea - dopo aver disposto che, fino all'entrata in vigore delle disposizioni adottate dal medesimo Consiglio in conformità del paragrafo 2, (a) «l'aliquota dell'imposta sui conferimenti non può superare il 2% né essere inferiore all'1%» e (b) che «tale aliquota è ridotta del 50% almeno quando una o più società di capitali conferiscono la totalità dei loro patrimoni, o uno o più rami della loro attività, ad una o più società di capitali in via di creazione o già esistenti» nella sua originaria formulazione, ha previsto che «questa riduzione è subordinata alla condizione che ... i conferimenti siano esclusivamente remunerati mediante attribuzione di quote sociali». Con l'art. 1 della Direttiva n. 73/80/CEE del 9 aprile 1973 il Consiglio ha deliberato che «l'aliquota dell'imposta sui conferimenti prevista all'articolo 7 della direttiva precitata, è fissata all'1% a partire dal 1° gennaio 1976»; con l'art. 2, poi, si è disposto che «le aliquote ridotte di cui all'articolo 7, paragrafo 1, lettere b) e b)-bis, della precitata direttiva sono fissate dallo 0 allo 0,50% a partire dal 1° gennaio 1976». Successivamente, infine, con l'art. 1 della Direttiva 85/303/CEE del 10 giugno 1985 il Consiglio ha modificato l'art. 7 della direttiva 69/335/CEE come segue: 1) «gli Stati membri esentano dall'imposta sui conferimenti le operazioni diverse da quelle di cui all'articolo 9 e che, alla rata del 1° luglio 1984, erano esentate o assoggettate ad un'aliquota pari o inferiore a 0,50%. L'esenzione è sottoposta alle condizioni che a tale data erano applicabili per la concessione dell'esenzione o, se del caso, per l'assoggettamento ad un'aliquota pari o inferiore a 0,50 (omissis)»; 2) «gli Stati membri possono esentare dall'imposta sui conferimenti o assoggettare ad un'unica aliquota non superiore all'1% le operazioni diverse da quelle di cui al paragrafo 1». B.4. In ordine a tali disposizioni la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, all'uopo investita «a norma dell'art. 177 del Trattato CE», nella sentenza del 27 ottobre 1998 resa nel procedimento C-152/97 (Abbruzzi Gas, S.p.a. [Agas] e Amministrazione Tributaria di Milano), ha testualmente statuito che: - «un, operazione di fusione ad opera di una società che già detiene la totalità delle azioni e delle quote delle società incorporate non comporta un aumento del capitale sociale della stessa società e non rientra, pertanto, nella previsione dell'art. 4, n. 1, lett. c), della direttiva»; - «una simile operazione non rientra neanche nell'ambito di applicazione dell'art. 4, n. 1, lett. d), della direttiva» in quanto, pur potendo «il conferimento alla società incorporante dei patrimoni netti delle società incorporate ... causare un aumento del patrimonio sociale della prima società», tale operazione, «per essere assoggettabile ad imposta», deve, «secondo la disposizione in esame, trovare una contropartita non in quote rappresentative del capitale o del patrimonio sociale, bensì in diritti della stessa natura di quelli dei soci, quali il diritto di voto, la partecipazione agli utili o all'attivo risultante dalla liquidazione» mentre «nel caso di incorporazione ad opera di una società che detiene la totalità delle azioni o delle quote sociali della società incorporata, una remunerazione di questo tipo è semplicemente inapplicabile». La stessa Corte, infine, ha dichiarato che «un'operazione come quella considerata nella causa a qua non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 4, n. 2, lett. b), della direttiva» perché «questa disposizione presuppone ... che l'aumento del patrimonio sociale consista in prestazioni effettuate da un socio, il che non si verifica nell'operazione in esame». B.5. In base a tale principio, il contrasto della normativa nazionale italiana; che sottopone(va) ad imposta proporzionale di registri l'atto di fusione delle società,con il diritto comunitario «concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali» sussiste non già in qualsivoglia ipotesi di fusione per incorporazione ma unicamente in quelle d'fusione per incorporazione per così dire "propria" perché il medesimo contrasto non sussiste nell'ipotesi di fusione (definibile "impropria") di cui al citato art 2504-quinquies del codice civile, ovverosia nell'ipotesi di fusione operata mediante l'incorporazione di una società di cui la società incorporante, al momento della fusione, già possiede l'intero capitale sociale. La pronuncia della Corte di Giustizia, quindi, ha esattamente delimitato la fattispecie cui è applicabile la normativa comunitaria su indicata «concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali» precisando che è esclusa dal divieto della stessa normativa la riscossione di un'imposta di registro nel peculiare caso di fusione per incorporazione "impropria" di una società ad opera di un'altra società che già detiene la totalità delle sue azioni e delle sue quote. B.6. Discende da tanto che quando si invoca il riconoscimento giudiziale del diritto al rimborso dell'imposta proporzionale di registro corrisposta in sede di registrazione di un atto societario di fusione per incorporazione [1] la contribuente deve allegare e provare (in quanto elemento costitutivo del diritto preteso e da essa azionato) e [2] il giudice nazionale (del merito) adito, nell'esercizio del suo potere-dovere, deve accertare se, nella specifica fattispecie sottoposta al suo esame, l'atto per il quale è stata corrisposta l'imposta proporzionale di registro di cui si chiede la restituzione contenga una fusione per incorporazione "propria" (e come tale, quindi, non sia assoggettabile, per il diritto comunitario, ad imposta proporzionale di registro) o non, piuttosto, una fusione per incorporazione "impropria" che, invece, il medesimo diritto, ritiene assoggettabile a detta imposta. Ovviamente, giusta le ordinarie norme procedurali, il giudizio di diritto e di fatto all'uopo espresso dal giudice nazionale (del merito), se contenuto in sentenza avverso la quale è possibile proporre ricorso innanzi a questa Corte, sarà censurabile in sede di legittimità, rispettivamente, per «violazione o falsa applicazione di norme di diritto» ex art. 360, n. 3), del codice di procedura civile ovvero, in forza del n. 5 di questo medesimo articolo, per «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione». B.7. In base ai rilievi che precedono, quindi, deve concludersi affermando [1] che la deduzione della circostanza del possesso, al momento della fusione, dell'intero capitale sociale della società incorporanda da parte della società incorporante costituisce mera specificazione di una particolarità della concreta fattispecie-fusione sottoposta all'esame del giudice del merito, necessaria al fine di stabilire se la fusione dedotta in giudizio possa essere sussunta nell'invocato schema legale di contrasto con norme comunitarie, e [2] che l'indicazione, anche per la prima volta nel ricorso per cassazione, di quella specificazione non significa inammissibile introduzione nel thema decidendi di un fatto nuovo ma soltanto la segnalazione, con il porla in evidenza, di una peculiarità della fattispecie concreta - non considerata, (od erroneamente considerata, in fatto od in diritto) dal giudice del merito benché a tanto obbligato - idonea ad escludere l'applicabilità al caso della disposizione invocata ex adverso e, quindi, a determinare una decisione opposta da quella impugnata. C. Il secondo argomento in favore dell'ammissibilità del ricorso discende da principi di diritto comunitario. C.1. La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, invero: 1) nella sentenza 14 dicembre 1995 (C-312/93, Peterbroek, Van Campenhout & C.ie SCS), dopo aver ricordato che «i giudici nazionali hanno l'obbligo di verificare la compatibilità del diritto interno con le norme di diritto comunitario primario e secondario, indipendentemente da una specifica domanda di parte», ha affermato il principio secondo cui «il diritto comunitario osta all'applicazione di una norma processuale nazionale che, in condizioni analoghe a quelle del procedimento di cui trattasi nella causa davanti al giudice a quo, vieta al giudice nazionale, adito nell'ambito della sua competenza, di valutare d'ufficio la compatibilità di un provvedimento di diritto nazionale con una disposizione comunitaria, quando quest'ultima non sia stata invocata dal singolo entro un determinato termine"»; 2) nella sentenza resa nella medesima data nelle cause riunite C-430 e 431/93 (Van Schijndel), al punto 1 del sommario, ha statuito che «"è compito del giudice nazionale applicare disposizioni comunitarie vincolanti anche qualora la parte che ha interesse alla loro applicazione non le abbia invocate", pur nei procedimenti aventi ad oggetto diritti disponibili»; 3) nella sentenza 13 marzo 1997, C-358/95 (Morellato), ha ribadito, al punto 2 del sommario, che «"allorché si richieda al giudice nazionale di applicare una legge nazionale incompatibile con l'art. 30 del Trattato, esso ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tale norma, disapplicando di propria iniziativa la detta legge"». C.2. Sulla scorta di tali decisioni, quindi, questo giudice di legittimità (Cass., Sez. tributaria, 28 marzo 2001, n. 4555 ma già Cass., trib., 9 giugno 2000 n. 7909) ha avuto modo di statuire e di ribadire (Cass., Sez. tributaria, 10 dicembre 2002 n. 17564) il principio - da confermare per carenza di contrarie argomentazioni logiche e giuridiche - secondo il quale, poiché «il giudice nazionale deve verificare la compatibilità del diritto interno con le disposizioni comunitarie vincolanti e fare applicazione delle medesime anche d'ufficio», nel giudizio di cassazione la verifica della compatibilità col diritto comunitario «non è condizionata alla deduzione di uno specifico motivo e, come nei casi dello ius superveniens e della modifica normativa determinata dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, le relative questioni possono essere conosciute anche d'ufficio purché l'applicazione del diritto interno sia ancora controversa costituendo oggetto del dibattito introdotto con i motivi di ricorso». C.3. Nel caso emerge incontestabilmente dalla lettura dei conferenti atti processuali che l'applicabilità del diritto interno ha costituito oggetto specifico ed unico del dibattito processuale néi pregressi gradi di giudizio e costituisce unico oggetto del ricorso per cassazione in esame avendo l'Amministrazione Finanziaria sempre protestato l'inapplicabilità alla specifica fattispecie delle disposizioni contenute nella direttiva comunitaria invocata da controparte e, di conseguenza, la applicabilità a tale fattispecie delle norme di diritto interno per la loro compatibilità con le disposizioni comunitarie invocate ex adverso. 4. Il ricorso del Ministero va accolto perché fondato. A. In ordine all'influenza delle specifiche disposizioni comunitarie indicate supra, sub 3.B.3., sulle norme di diritto interno (in specie su quella contenuta nell'art. 4 della tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), infatti, questa Corte (Cass., trib., 18 aprile 2003, n. 6234; id., trib., 6 novembre 2002 n. 15528; id., trib., 26 marzo 2002, n. 11100; id., I, 3 settembre 1999, n. 9284) ha già affermato il principio - che deve essere ribadito in difetto di qualsivoglia contraria osservazione od argomentazione convincenti - secondo il quale in tema di imposta di registro, in caso di incorporazione di una società ad opera di altra società la quale detiene la totalità delle azioni o delle quote della società incorporata, la direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, n. 69/335/CEE, come modificata dalle direttive n. 85/303/CEE, non osta alla riscossione dell'imposta proporzionale di registro perché tale operazione non può inquadrarsi nella fattispecie (regolata dalle norme comunitarie) dei conferimenti dell'intero patrimonio societario in altra società di capitali remunerati esclusivamente mediante attribuzione di quote sociali essendo già tutte le quote od azioni appartenenti all'incorporante in quanto non si realizza nessuno spostamento o movimento di capitali o, comunque, modifica dell'assetto societario e, quindi, difettano i presupposti della tutela apprestata dalle norme comunitarie alla libertà di circolazione dei capitali medesimi. B. Gli esposti principi giuridici impongono di cassare la sentenza impugnata perché la stessa si è limitata ad affermare la prevalenza delle norme del diritto comunitario su quelle nazionali ma non ha neppure verificato se per la specifica fusione dedotta in giudizio ricorresse effettivamente il delineato contrasto normativo e, quindi, se il giudice nazionale dovesse disapplicare le norme nazionali confliggenti con quelle comunitarie. 5. La cassazione della sentenza impugnata non comporta il rinvio della causa al giudice del merito in quanto la controversia non richiede nessun ulteriore accertamento di fatto e, di conseguenza, può essere decisa nel merito come impone il primo comma dell'art. 384 del codice di procedura civile L'accertata inesistenza di qualsivoglia contrasto tra la norma interna - contenuta, come detto, nell'art. 4, lettera b), della tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 [nel testo, applicabile alla specie ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate a detta lettera con l'art. 10 del D.L. 6 novembre 1996 n. 323, convertito nella L. 8 agosto 1996 n. 425], che assoggettava gli atti di «fusione tra società» all'imposta proporzionale dell'uno per cento - e le disposizioni comunitarie surrichiamate impone di rigettare il ricorso proposto in primo grado dalla contribuente perché questa non vanta nessun diritto al rimborso dell'imposta di registro corrisposta sull'atto di fusione registrato il 20 marzo 1996 in quanto essa, al momento della fusione, già possedeva la totalità del capitale sociale della società incorporata. 6. Le spese processuali dell'intero giudizio vanno compensate integralmente tra le parti ai sensi del secondo comma dell'art. 92 del codice di procedura civile P.Q.M. - La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso di primo grado della contribuente; compensa integralmente tra le parti le spese processuali dell'intero giudizio.