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Imposte e tasse - Normativa comunitaria - Applicazione - Inderogabilità
Pubblicata il 24/06/2010
Sent. n. 26948 del 18 dicembre 2006 (ud. del 6 luglio 2006) della Corte Cass., SS.UU.
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1. Svolgimento del processo La Commissione tributaria provinciale di Parma accoglieva il ricorso della P. S.r.l. avverso il silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza presentata dalla società per ottenere il rimborso dell'imposta di registro pagata oltre quella in misura fissa, a seguito dell'atto di fusione del novembre 1993, con cui venivano incorporate nell'istante le società P.A. S.p.a. e F. S.p.a. Proponeva appello l'ufficio, deducendo: - il nuovo criterio di tassazione degli atti di fusione, modificato dall'art. 10, comma 5, del D.L. 20 giugno 1996, n. 323, col quale venivano trasposte le Direttive 85/303/CEE, decorreva dal giugno 1996, e non era, pertanto, applicabile al caso di specie; - le disposizioni delle predette Direttive, invocate dalla società e poste a base della decisione di primo grado, non erano immediatamente applicabili, in quanto non incondizionate e sufficientemente precise. Con sentenza 23 aprile-30 ottobre 2001 la Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna rigettava l'appello, osservando che le norme della Direttiva n. 85/303/CEE, in quanto stabilivano l'esenzione delle operazioni di fusione dal 1° gennaio 1986, erano sufficientemente chiare, per cui dovevano essere immediatamente applicate nell'ordinamento statale, secondo il principio affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 168 del 1991. Avverso tale sentenza il Ministero dell'economia e delle finanze e l'Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso per cassazione, sulla base di un motivo e di memoria. La P. S.r.l. resiste con controricorso. 2. Il motivo di ricorso Denunciando violazione e falsa applicazione degli 12 della Direttiva n. 69/335/CEE; 7, comma 1, della L. n. 218 del 1990, in relazione agli artt. 62 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e 360, comma 1, n. 3), del codice di procedura civile, le Amministrazioni ricorrenti deducono che la disposizione dell'art. 7 della Direttiva n. 69/335/CEE non poteva essere applicata, perché l'aliquota ivi prevista era subordinata alla condizione che i conferimenti siano esclusivamente remunerati mediante attribuzione di quote sociali. Tale requisito è rimasto vigente anche dopo le modifiche introdotte con le Direttive 85/303/CEE, la prima disponente una riduzione dell'aliquota, la seconda l'esenzione. Essendo l'incorporante già proprietaria del 100 per cento del capitale delle società incorporate, la fusione non ha comportato alcun aumento del capitale sociale, con conseguente esclusione di qualsiasi attribuzione di quote o azioni alla società incorporante. Viene, in proposito, invocata la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee 27 ottobre 1998 in causa C-152/97, Agas c. Amministrazione finanziaria, nella quale è stato esplicitamente affermato che le predette Direttive non ostano alla riscossione di un'imposta di registro in caso di incorporazione di società da parte di un'altra società che già ne detiene la totalità delle azioni o delle quote. Secondo l'Avvocatura, l'applicazione di tale principio sarebbe consentita anche in cassazione, pur essendosi la difesa dell'ufficio nei precedenti gradi di giudizio limitata a contestare l'immediata applicabilità della Direttiva. Infatti, il principio jura novit curia comporta che il giudice ha l'obbligo di verificare anche d'ufficio se le norme di diritto interno siano o meno compatibili col diritto comunitario, e, secondo Cass., n. 4555/2001, tale verifica non può essere condizionata alla deduzione di uno specifico motivo. 3. Il contrasto di giurisprudenza Sulla questione dell'esenzione, e particolarmente se la regola enunciata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sia o meno applicabile ove per la prima volta dedotta in cassazione, si sono formate due linee contrastanti nella giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte. Con ordinanza 30 maggio 2005, n. 11425, la Sezione tributaria della Corte rimetteva, pertanto, la causa al Primo Presidente, il quale, a sua volta, l'assegnava alle Sezioni Unite. Secondo un primo indirizzo, ove la circostanza dell'intero possesso del capitale da parte dell'incorporata sia stata dedotta per la prima volta in Cassazione e la stessa non risulti da un accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata e non sia stata dedotta nei precedenti gradi di giudizio, non può essere rilevata in sede di legittimità. Secondo alcune pronunce, la deduzione, per la prima volta in sede di illegittimità, dell'inapplicabilità del divieto di imposizione nel caso di specie è inammissibile, ove non risulti dall'accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata e non sia stata dedotta nei precedenti gradi di giudizio. Tali decisioni si basano su diverse rationes decidendi. Alcune sentenze (n. 1752, n. 2015, n. 2261, n. 2429 del 2003) rilevano che nei precedenti gradi di giudizio la difesa dell'Amministrazione si era basata sulla diversa allegazione che la Direttiva non era direttamente applicabile nell'ordinamento nazionale. Altre sottolineano che nella sentenza impugnata non appariva alcun riferimento all'atto di fusione e alle percentuali di capitale possedute, e che nel giudizio di merito non era stata trattata in alcun modo la questione della compatibilità col diritto comunitario della sottoposizione ad imposta di registro proporzionale di una fusione che non comporti spostamento di capitali (n. 6542 e n. 7454 del 2004), e che, per evitare una pronuncia di inammissibilità, l'Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto dedurre di aver sollevato la questione nel giudizio di merito e indicare in quale atto lo avesse fatto. Secondo un diverso indirizzo, anche esso fondato su diverse rationes decidendi, il ricorso dell'Amministrazione sarebbe ammissibile. Alcune decisioni rilevano che nel giudizio d'appello l'ufficio aveva dedotto l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione immediata delle Direttive, e cioè tra conferimento e fusione societaria (sentenza n. 19371 del 2003). Altre che l'applicabilità del diritto comunitario nell'ordinamento nazionale aveva costituito oggetto del dibattito nei precedenti gradi ed era ugualmente oggetto del ricorso per cassazione, in quanto l'Amministrazione finanziaria aveva costantemente sostenuto l'inapplicabilità alla fattispecie delle disposizioni contenute nella Direttiva (n. 12394 del 2004). In sostanza, la deduzione della circostanza che l'incorporazione aveva ad oggetto una società integralmente posseduta dall'incorporante sarebbe una delle tante possibili difese, già contenuta in quella di inapplicabilità della Direttiva. Altre sentenze giungono alla stessa conclusione, rilevando che per l'ipotesi di fusione per incorporazione de qua l'art. 2504-quinquies del codice civile esclude l'applicazione delle disposizioni di cui agli 2501-quinquies, relativamente alle modalità di determinazione del rapporto di cambio e alle cautele che la debbono accompagnare. Invocano, poi, il principio affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza 27 ottobre 1998 in causa C-152/97, Abruzzi Gas - Agas S.p.a., secondo cui l'operazione di fusione de qua non comporta un aumento di capitale della società incorporante e non rientra, pertanto, nell'ambito di applicazione dell'art. 4, nn. 1, lettera c), e 2, lettera b), della Direttiva, a differenza dei casi di fusione definiti propri. Pertanto, chi invoca il diritto ad ottenere il rimborso dell'imposta proporzionale di registro è tenuto ad allegare e provare che l'atto contenga una fusione per incorporazione propria, e cioè tale da comportare un effettivo trasferimento di capitali. In tale prospettiva, quindi, la circostanza del possesso dell'intero capitale dell'incorporata da parte dell'incorporante sarebbe una mera specificazione di una particolarità della concreta fattispecie sottoposta all'esame del giudice di merito. Nelle predette decisioni vengono, altresì, richiamate le sentenze della Corte di Giustizia Peterbroek (causa C-312/93) e Van Schijndel (cause riunite C-430 e 431/93), secondo cui i giudici nazionali hanno l'obbligo di verificare la compatibilità delle norme interne col diritto comunitario indipendentemente dal fatto che la parte le abbia invocate, a condizione che l'applicazione del diritto comunitario alla fattispecie sia ancora oggetto di discussione. 4. Motivi della decisione 4.1. Deve preliminarmente essere esaminata la questione di inammissibilità del ricorso svolta nel controricorso, per violazione degli artt. 10, comma 2, della L. n. 328 del 2001 e 7, commi 3 e 4, della L. n. 664 del 1987, non essendo stato il ricorso, trasmesso per telefax dall'Avvocatura dello Stato ad un ufficio dell'Amministrazione patrocinata, da un avvocato dello Stato ricevente. La questione non è fondata. Come ha esattamente rilevato la difesa dell'Amministrazione, una costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato che l'obbligo di sottoscrizione previsto dalle predette norme è soddisfatto anche con la firma del funzionario titolare dell'ufficio ricevente o di un suo sostituto, purché, come nella specie è avvenuto, dalla copia fotoriprodotta risultino l'indicazione e la sottoscrizione dell'estensore dell'atto originario. 4.2. Passando all'esame del ricorso, per risolvere il contrasto occorre premettere alcuni principi tratti dalla giurisprudenza comunitaria in tema di obbligo del giudice e delle autorità nazionali di applicare il diritto comunitario anche quando vi contrasti il diritto nazionale. Come si spiegherà in seguito, il problema non può essere risolto sic et simpliciter attraverso l'applicazione del principio jura novit curia, così come prospettato nel ricorso dell'Amministrazione finanziaria. Si deve premettere che il principio di effettiva applicazione del diritto comunitario trova la sua base testuale nell'art. 10 del Trattato CE, secondo il quale "Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato, ovvero determinati atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest'ultima nell'adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato". Per quanto attiene ai sistemi processuali interni, la loro conformazione in conseguenza della piena applicazione del diritto comunitario trova un precedente remoto nella sentenza della Corte di Lussemburgo 16 gennaio 1974, in causa 166/73, Rheinmúhlen Dússeldorf, nella quale era stato ritenuto che le preclusioni operanti nel giudizio di rinvio nel processo tedesco, nel quale il giudice di rinvio - similmente a quanto avviene in quello italiano - è vincolato alle valutazioni giuridiche contenute nella sentenza di rinvio di un giudice superiore, non impediscono al giudice di rinvio di adire la Corte di Giustizia perché, in caso contrario, "ne verrebbero pregiudicate la competenza di quest'ultima a pronunciarsi in via pregiudiziale e l'applicazione del diritto comunitario in ogni grado di giudizio dinanzi alle magistrature degli Stati membri". Nella stessa sentenza veniva espressamente affermato l'obbligo di applicazione del diritto comunitario, e di disapplicazione delle norme del diritto interno con esso contrastanti, anche indipendentemente da una espressa sollecitazione di parte (punto 3 della motivazione). Tale principio è stato costantemente affermato dalla giurisprudenza comunitaria. Da tale giurisprudenza si ricava, quindi, che la conformazione del diritto interno deve trovare piena attuazione anche con riguardo alle regole processuali o procedimentali che impediscono una piena applicazione del diritto comunitario. Una significativa ed organica applicazione di tali principi è stata fatta dalla Corte di Giustizia nella sentenza 14 dicembre 1995 in causa C-312/93, Peterbroek, Van Campenhout & Cie SCS. Nella controversia dinanzi al giudice di rinvio (una Corte d'appello belga), avente ad oggetto l'applicazione di un'imposta, veniva dedotta dalla società attrice la contrarietà al diritto comunitario di una norma fiscale che sottoponeva una società non nazionale a un trattamento discriminatorio. Il sistema belga prevedeva che avverso l'atto impositivo dovesse essere esperito un ricorso amministrativo contenzioso, e che la decisione relativa potesse essere impugnata dinanzi alla Corte d'appello soltanto per i motivi dedotti in sede amministrativa. Nel caso di specie l'Amministrazione fiscale aveva, quindi, eccepito che la questione di contrasto col diritto comunitario non poteva essere per la prima volta dedotta in sede giurisdizionale. La Corte di Giustizia affermò che i principi di effettività e di non discriminazione ostavano "all'applicazione di una norma processuale nazionale che ... vieta al giudice nazionale, adito nell'ambito della sua competenza, di valutare d'ufficio la compatibilità di un provvedimento di diritto nazionale con una disposizione comunitaria, quando quest'ultima non sia stata invocata dal singolo entro un determinato termine". Richiamando la sentenza Rheinmühlen la Corte statuiva (punto 13) che "una norma di diritto nazionale la quale impedisce l'attivazione del procedimento ex art. 177 del Trattato deve essere disapplicata". La Corte osservava, inoltre (punto 12), richiamando la propria costante giurisprudenza, che, in mancanza di una disciplina comunitaria in materia, la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto compete agli ordinamenti degli Stati membri, i quali devono designare i giudici competenti e le modalità procedurali. "Tuttavia, dette modalità non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario". Identico principio veniva affermato nella sentenza resa nella stessa data dalla Corte nelle cause riunite C-430 e 431/93, Van Schijndel e a.c. Stichtingpensioenfonds voor Fysiotherapeuten. Sembra utile, infine, richiamare, in tema di preclusioni procedimentali, la sentenza 20 marzo 1997, C-24/95, Land Rheinland - Pfalz c. Alcan Deutschland GmbH, nella quale la Corte di Giustizia ha ritenuto contraria al diritto comunitario, e perciò soggetta a disapplicazione da parte delle autorità nazionali, una norma della legge tedesca sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz) che impediva la revoca di un atto amministrativo da cui derivano diritti per i privati, nella specie l'erogazione di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile ai sensi dell'art. 93 (ora 87) del Trattato CE. 4.3. Per quanto concerne l'ordinamento italiano, i predetti principi devono considerarsi espressamente recepiti (pur non essendovene necessità) dal nuovo testo dell'art. 117, comma 1, della Costituzione, il quale impone un espresso vincolo al diritto comunitario nell'esercizio della potestà legislativa statale e regionale. Quanto agli adattamenti che il sistema processuale nazionale - attraverso un'interpretazione conforme o una disapplicazione - deve subire per consentire un'effettiva tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza di norme comunitarie di diretta applicazione, può essere utilmente richiamata la sentenza della Corte di Giustizia del 27 febbraio 2003, C-327/00, Santex S.p.a., resa sul rinvio del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, nella quale è stata considerata contraria al principio di effettività una regola nazionale di diritto processuale che impedisce al giudice - in sede di giurisdizione di legittimità - di rilevare un vizio, traducentesi in violazione di norme comunitarie sulla concorrenza, ove non specificamente e tempestivamente impugnato. Si trattava, nella specie, di una norma di un bando di gara d'appalto, immediatamente lesiva e non impugnata, la cui contrarietà al diritto comunitario era stata fatta valere soltanto in sede di impugnazione del provvedimento di aggiudicazione. Si richiamano anche le sentenze della Corte di Giustizia 11 luglio 1989, C-170/88, Ford Espana SA; 4 giugno 1992, C-13 e 119/91, proc. penale contro Michel Debus; 13 marzo 1997, C-358/95, Modellato; 12 febbraio 1998, C-163/96, proc. penale contro Silvano Raso e a. La Corte ritiene che l'esistenza di una conforme ed articolata giurisprudenza comunitaria in materia consenta di rendere una decisione senza necessità di un rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE. Proprio il principio affermato nella sentenza Santex può essere opportunamente adattato al giudizio di cassazione, che, al pari di quello amministrativo di legittimità, ha un carattere chiuso in quanto, in via di principio, la cognizione del giudice non può avere ad oggetto questioni non specificamente dedotte dal ricorrente. Per quanto riguarda il giudizio di cassazione, a tale limite si aggiunge quello del divieto di introduzione di nuove questioni di fatto. 4.4. Si pone ora il problema di verificare - alla stregua dei principi enunciati dalla giurisprudenza comunitaria - se e in quali casi, che possono essere - secondo l'indicazione della sentenza Peterbroek - considerati simili, il sistema processuale nazionale ammette una pronuncia del giudice di un processo chiuso (quale quello di legittimità) anche indipendentemente da una specifica domanda e anche se dedotto per la prima volta. In alcune decisioni della Corte è stato ritenuto che i casi analoghi in cui il giudice di legittimità può conoscere di questioni non specificamente dedotte sono la questione di legittimità costituzionale e lo jus superveniens. In entrambi i casi si pone, infatti, un problema di obbligo di applicazione (o di non applicazione) di un diverso regime normativo, sia per ragioni di rango prevalente, sia per ragioni temporali. La regola è stata elaborata in modo analitico dalla giurisprudenza di questa Corte per risolvere i problemi suscitati dalla sopravvenienza di una nuova disciplina sulla misura dell'indennità di espropriazione (l'art. 5-bis della L. n. 333/1992), la cui sopravvenienza nel giudizio di cassazione comportava che, se il dibattito sulla misura dell'indennità era ancora aperto, il giudice di legittimità deve applicare anche d'ufficio i nuovi criteri, decidendo nel merito se risultano accertati i presupposti di fatto (in particolare, le caratteristiche del terreno che danno luogo ad una decurtazione dell'indennità determinata secondo il valore venale), ovvero cessando e affidando al giudice di rinvio il compito di accertarli. Identica la soluzione seguita allorché sopravvenga nel giudizio di cassazione una pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma applicabile, nel qual caso la Corte di Cassazione deve applicare d'ufficio la normativa risultante dall'intervento demolitorio della Corte Costituzionale, cassando con rinvio se sono necessari nuovi accertamenti di fatto (sentenza 7 luglio 2005, n. 14314). 4.5. Gli evidenti canoni dell'ordinamento comunitario portano a privilegiare, fra le contrapposte soluzioni interpretative che hanno dato luogo al contrasto giurisprudenziale, quella con essi coerente. Si deve così affermare che, nella controversia in tema di imposta di registro su operazione di fusione di società mediante incorporazione, la contestazione da parte dell'ufficio dell'invocabilità dell'art. 4 della Direttiva n. 69/335/CEE (modificata dalle Direttive 85/303/CEE), indipendentemente dalle ragioni poste a base della relativa deduzione, vale a introdurre, anche in sede di legittimità, l'indagine sul presupposto per l'esenzione del tributo proporzionale contemplato da quella norma, cioè la sussistenza di un effettivo conferimento nel capitale dell'incorporata e, quindi, implica l'esclusione del beneficio nell'ipotesi in cui l'incorporante detenga già l'intero capitale dell'incorporata (Corte di Giustizia, sentenza 27 ottobre 1998, in causa C-192/97). Per quanto riguarda il problema dei nuovi presupposti di fatto il cui accertamento sarebbe imposto per l'applicazione del principio di effettività affermato dalla giurisprudenza comunitaria, nella specie non appare necessario rimettere al giudice di rinvio la relativa indagine, secondo i principi affermati da questa Corte in tema di jus superveniens e di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale. La detenzione da parte della società incorporante dell'intero capitale dell'incorporata costituisce, infatti, una circostanza assolutamente incontestata, dedotta dalla stessa società fin dal ricorso introduttivo. In definitiva, la decisione della Commissione tributaria regionale, che ha applicato il regime agevolativo in un caso in cui - secondo il diritto comunitario - lo stesso non può essere riconosciuto, deve essere cassata. Proprio la non necessità di nuove indagini di fatto consente alla Corte, nell'esercizio del potere di decisione nel merito di cui all'art. 384 del codice di procedura civile, di rigettare il ricorso introduttivo della P. S.r.l. Stante la complessità della questione e l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza deve adottarsi una pronuncia di compensazione delle spese dell'intero giudizio. P.Q.M. - la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della società; compensa le spese dell'intero giudizio