Il negozio costitutivo del fondo patrimoniale, anche quando proviene da entrambi i coniugi, è atto a titolo gratuito, che può essere dichiarato inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria

Il negozio costitutivo del fondo patrimoniale, anche quando proviene da entrambi i coniugi, è atto a titolo gratuito, che può essere dichiarato inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria; ne consegue che, avendo l'"actio pauliana" la funzione di ricostituire la garanzia generica fornita dal patrimonio del debitore, a determinare l'"eventus damni" è sufficiente anche la mera variazione qualitativa del patrimonio del debitore integrata con la costituzione in fondo patrimoniale di bene immobile (nel caso l'unico) di proprietà dei coniugi, in tal caso determinandosi, in presenza di già prestata fideiussione in favore di terzi, il pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva, della cui insussistenza incombe al convenuto, che nell'azione esecutiva l'eccepisca, fornire la prova. Sotto il profilo dell'elemento soggettivo, trattandosi di ipotesi di costituzione in fondo patrimoniale successiva all'assunzione del debito (nel caso, l'obbligazione fideiussoria), è sufficiente la mera consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore ("scientia damni"), la cui prova può essere fornita anche tramite presunzioni, senza che assumano viceversa rilevanza l'intenzione del debitore medesimo di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore ("consilium fraudis") né la relativa conoscenza o partecipazione da parte del terzo.
(Corte di Cassazione Sezione 3 Civile, Sentenza del 17 gennaio 2007, n. 966)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Roberto PREDEN - Presidente

Dott. Mario FINOCCHIARO - Consigliere

Dott. Donato CALABRESE - Consigliere

Dott. Antonio SEGRETO - Consigliere

Dott. Luigi Alessandro SCARANO - Consigliere Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Ba.An., Me.Ro., Me.Al., Me.An., Me.Pa., elettivamente domiciliati in Ro. Via Sa. n. (...), presso lo studio dell'avvocato Gi.De., che li difende, giusta delega in atti;

ricorrenti

contro

Banca Ro. S.p.A., in persona degli avv. La.Bo. e Gi.Ma., elettivamente domiciliata in Ro. via De.Ba. n. (...), presso lo studio dell'avvocato Gu.Ca., che la difende con procura speciale del dott. No. An.Ma.Za. in Ro., del 1 3/11/93, Rep. 43131;

controricorrente

nonché contro

Ro. Banca S.p.A., ora Un. Banca S.p.A., in persona del suo procuratore speciale, Pi.Za., elettivamente domiciliata in Ro. via An. n. (...), presso lo studio dell'avvocato Gu.Ni., che la difende, giusta delega in atti;

controricorrente

nonché contro

Ca.Ri.Pr.Vi. S.p.A., In.Ge.Cr. S.p.A.;

intimati

avverso la sentenza n. 2275/02 della Corte d'Appello di Roma, seconda sezione civile, emessa l'8/04/02, depositata l'11/06/02, R.G. 1432/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/10/06 dal Consigliere Dott. Luigi Alessandro Scarano;uditi gli Avvocati Gu.Ca. e Gu.Ni.;

udito il P.M. - in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Federico Sorrentino, che ha concluso per la inammissibilità, in subordine il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato nel 1997 la società Ro. Banca S.p.A. conveniva avanti al Tribunale di Roma i sigg. ri An.Ba. e Ro.Me., in proprio e quali esercenti la potestà sul minore Pa., nonché Al. ed An.Me., per ivi sentir dichiarare l'inefficacia ex art. 2901 c.c. dell'atto di costituzione del fondo patrimoniale stipulato da An.Ba. in data 23/9/1992 ed avente ad oggetto l'appartamento sito in Sa.Se., via Ta. n. (...) .Deduceva al riguardo di essere creditrice dei convenuti per l'importo di £ 391.257.190, in ragione di fideiussione dai suddetti prestata in favore della sua correntista società Te., e che sussistevano nel caso i presupposti necessari per l'esperimento del richiesto mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, attesa la gratuità dell'atto e la consapevolezza che lo stesso arrecava alla garanzia del proprio credito, evidente essendo l'intento di sottrarre l'immobile in questione alle imminenti azioni dei creditori, in considerazione della gravissima esposizione debitoria della società Te. nei confronti di altri istituti bancari, che avevano tutti ottenuto ingiunzione di pagamento in loro favore.

Radicatosi il contraddittorio; intervenuta volontariamente in giudizio la Banca di Ro., che proponeva analoga domanda di revoca del fondo patrimoniale in questione, deducendo di aver concesso alla società Te. s.r.l., affidamenti in conto corrente garantiti dai sigg. ri Ba. e Me.; disposta la riunione con altro procedimento nei confronti dei medesimi promosso dalla Ca. S.p.A., che del pari instava per la revoca del menzionato fondo patrimoniale a fronte di decreto ingiuntivo per £ 100.000.000 nei confronti dei suindicati coniugi ottenuto quali fideiussori della correntista società Te.; nella resistenza dei convenuti l'adito tribunale dichiarava l'inefficacia ex art. 2901 c.c. dell'atto di costituzione del fondo patrimoniale de quo, emettendo i provvedimenti conseguenti, e disponeva in ordine alla regolazione delle spese.

Con sentenza dell'11/6/2002 la Corte d'Appello di Roma successivamente respingeva il gravame avverso tale decisione interposto dagli originari convenuti Ba. e Me., osservando che all'epoca della costituzione del fondo patrimoniale essi erano già debitori solidali con la società garantita per un rilevante importo, andato aumentando nel tempo, la cui situazione debitoria doveva essere dai medesimi "verosimilmente" conosciuta anche in epoca anteriore, attesa la loro qualità di soci della Te. nonché considerato che il Me. aveva i poteri di firma per trattare per conto della detta società con la Ro.Ba., essendo i fideiussori altresì sottoscrittori delle lettere di apertura di conto corrente con detta società stipulati dalle banche partì del giudizio.

Sottolineava ulteriormente la sussistenza del necessario, e nel caso sufficiente, requisito della consapevolezza del debitore del pregiudizio arrecato con il rendere più difficile, mediante l'atto di disposizione del loro unico bene immobile di proprietà, il soddisfacimento delle ragioni creditorie delle banche in questione.

Avverso la suddetta sentenza della corte dì merito la Ba., Ro., Al., An. e Pa.Me. propongono ora ricorso per cassazione, affidato ad unico, complesso motivo, illustrato da memoria.

Resistono con controricorso Ca. S.p.A. (già Banca di Ro. S.p.A.) e Un. Banca S.p.A. (già Ro. Banca S.p.A.), che hanno anch'essi presentato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con unico, complesso motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 2901, 2697 e 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., in riferimento all'art.
360, 1° comma n. 3. c.p.c.; nonché omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

Lamentano l'assoluta insufficienza, erroneità ed incongruità degli elementi di giudizio acquisiti.

Si dolgono che manchi del tutto la motivazione in ordine alla consapevolezza del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie delle odierne controparti.

Deducono che tale consapevolezza deve ritenersi nel caso invero esclusa in ragione dell'assoluta «inconsistenza» del valore dell'immobile costituito in fondo patrimoniale rispetto «ai crediti per diversi miliardi vantati dai resistenti nei confronti del debitore principale (oltre 3 miliardi), ma anche ed ancor più rispetto al maggior ammontare degli importi garantiti dai fideiussori (circa 7 miliardi) ».

Censurano la corte di merito per essersi "limitata a prendere atto dell'avvenuta disposizione patrimoniale facendo discendere da ciò solo sia la presunzione di una maggiore difficoltà per gli Istituti di credito di trovare soddisfazione, sia la presunzione di conoscenza in capo ai fideiussori di tale pregiudizio".Lamentano che a tale stregua il giudice del gravame abbia fatto «malgoverno» delle risultanze processuali, le quali evidenziano «viceversa la totale mancanza dì questi elementi di prova posti a carico delle Banche attrici, tanto da omettere l'esame dì punti decisivi 6 della controversia che pure gli erano stati prospettati e che erano comunque rilevabili d'ufficio».

Deducono che incombeva alle contropartì, originarie attrici, l'onere di dare la dimostrazione della ricorrenza di un «obiettivo ed effettivo pregiudizio» loro arrecato dall'atto di disposizione, nonché della relativa «consapevolezza» in capo al «debitore».

Le banche avrebbero dovuto pertanto «provare che il valore del bene era tale da evitare loro di subire un effettivo pregiudizio e quindi che con l'esecuzione coattiva sul cespite avrebbero potuto soddisfare in maniera «non insignificante» le proprie ragioni, detratte ovviamente le ingenti spese legali e di giustizia necessarie al recupero e considerato la proporzionale chirografaria divisione del suo ricavato». Esse avrebbero dovuto cioè dimostrare «che l'immobile aveva un valore congruo rispetto ai crediti e che lo stesso era libero da ipoteche a favore di creditori privilegiati».

Lamentano che la corte di merito abbia erroneamente fondato la decisione su presunzioni semplici mancanti dei necessari requisiti della gravità, precisione e concordanza, valorizzandole addirittura «in mancanza del "fatto noto" che avrebbe dovuto essere rappresentato da un adeguato e proporzionale valore immobiliare che è stato così a sua volta presunto, in violazione del disposto di cui all'art. 2729 c.c. (praesumptum de praesumpto) ».

Lamentano, ancora, la «illogicità» dell'impugnata sentenza per non essere stata colta «l'assoluta sproporzione dei valori in causa, ove a fronte di crediti per oltre 3 miliardi maturati a carico della Te., e di una garanzia complessivamente prestata per circa 7 miliardi, il fideiussore aveva disposto di un immobile dell'allora valore commerciale di circa 80 milioni con una ipoteca già iscritta in precedenza a favore della Bn. per circa 400 milioni, ed in un momento in cui il debitore principale non era affatto in decozione bensì godeva di fiducia e di maggiori affidamenti», sicché l'onere probatorio sulle banche gravante è stato dato per assolto sulla base «di una presunzione sganciata dall'obiettivo ed indispensabile dato inerente il valore immobiliare, in quanto fondata sull'alienazione in sé e per sé considerata, ossia su un fatto solo astrattamente pregiudizievole, ma che in concreto non le pregiudicava in alcun modo».

Si dolgono ulteriormente, in ordine al requisito soggettivo, che nell'impugnata sentenza risulti omessa «ogni motivazione» sulla «scientia damni», la quale può «venire ad evidenza solo laddove sussista il pregiudizio, perché è solo in questo caso che può dirsi, o supporsi, che il debitore abbia agito con la consapevolezza di pregiudicare un altrui diritto».

Deducono infine che «lo smisurato aumento dell'esposizione debitoria ordinaria della Te.» era in realtà un «regolare indebitamento a fronte di concessi affidamenti», incompatibile con «l'attribuzione di una scientia damni in capo ai fideiussori», nonché evidenziante «l'abnorme sproporzione tra i valori in causa (ossia crediti successivamente azionati e valore del cespite confluito nel fondo patrimoniale) cresciuta in ragione della fiducia accordata al debitore principale»; sicché «mentre le Ba. accordavano maggior credito il valore del cespite immobiliare rimaneva sempre modesto fino a diventare ancor più insignificante rispetto alle esigenze di tutela dei resistenti, tant'è che la sua successiva disposizione non ha certo influenzato negativamente le ragioni creditorie delle resistenti, superiori di 50 volte il valore di realizzo del bene e di cento volte i limiti della prestata garanzia fideiussoria, anche a voler prescindere dalla dedotta esistenza del credito privilegiato in favore della Bn.».

Sostengono che lo «smisurato aumento dell'esposizione debitoria ordinaria della Te., nel senso di regolare indebitamento a fronte di concessi affidamenti, se da un lato si appalesa per le ragioni suddette incompatibile con l'attribuzione di una scientia damai in capo ai fideiussori, dall'altro lato evidenziava che l'abnorme sproporzione tra i valori in causa (ossia crediti successivamente azionati e valore del cespite confluito nel fondo patrimoniale), è via via cresciuta in ragione della fiducia accordata al debitore principale».

Il motivo è, nei suoi articolati profili di doglianza, infondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. (Cass., 7/3/2005, n. 4933; Cass., 2/8/2002, n. 11537; Cass., 21/5/1997, n. 4524; Cass., 2/9/1996, n. 8013; Cass., 18/3/1994, n. 2604), mezzo di tutela del creditore rispetto agli atti del debitore di disposizione del proprio patrimonio, senza alcun discrimine circa lo scopo ulteriore da quest'ultimo avuto di mira nel compimento dell'atto dispositivo (a tale stregua considerandosi soggetti all'azione revocatoria anche gli «atti aventi un profondo valore etico e morale», come ad es. il trasferimento della proprietà di un bene effettuato a seguito della separazione personale per adempiere al proprio obbligo di mantenimento nei confronti dei figli e del coniuge, in favore di quest'ultimo: in tali termini v. Cass., 26/7/2005, n. 15603).

La costituzione del fondo patrimoniale prevista dall'articolo 167 c.c., che va compresa tra le convenzioni matrimoniali, comporta invero, in presenza di figli minori, un limite di disponibilità di determinati beni, vincolati a soddisfare i bisogni della famiglia (v. Cass., 28/11/2002, n. 16864; Cass., 1/10/1999, n. 10859).

A tale stregua essa limita l'aggredibilità dei beni conferiti solamente alla ricorrenza di determinate condizioni (art. 170 c.c.), rendendo più incerta o difficile la soddisfazione del credito, conseguentemente riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti (v. Cass., 15/3/2006, n. 5684; Cass., 7/3/2005, n. 4933; Cass., 2/8/2002, n. 11537; Cass., 21/5/1997, n. 4524; Cass., 2/9/1996, n. 8013; Cass., 18/3/1994, n. 2604), in violazione del li art. 2740 c.c., che impone al debitore di rispondere con tutti i suoi beni dell'adempimento delle obbligazioni, a prescindere dalla relativa fonte. E quindi anche se le stesse derivino dalla legge (come ad es. in tema di mantenimento del coniuge e dei figli minori: v. Cass., 26/7/2005, n. 15603).

Le condizioni per l'esercizio dell'azione revocatoria ordinaria consistono nell'esistenza di un valido rapporto di credito tra il creditore che agisce in revocatoria e il debitore disponente; nell'effettività del danno, inteso come lesione della garanzia patrimoniale a seguito del compimento da parte del debitore dell'atto traslativo; nella ricorrenza, in capo al debitore, ed eventualmente in capo al terzo, della consapevolezza che, con l'atto di disposizione, venga a diminuire la consistenza delle garanzie spettanti ai creditori (v. con riferimento ad ipotesi di cessione di beni al coniuge, contestualmente al mutamento del regime patrimoniale di comunione legale in quello della separazione dei beni, Cass., 16/12/2005, n. 27718).

L'actio pauliana ha la funzione non solo di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, al fine di permettergli il soddisfacimento coattivo del suo credito (sicché la relativa sentenza ha efficacia retroattiva, in quanto l'atto dispositivo è viziato sin dall'origine: v. Cass., 23/9/2004, n. 19131), ma anche di assicurare uno stato di maggiore fruttuosità e speditezza dell'azione esecutiva diretta a far valere la detta garanzia (v. Cass., 9/3/2006, n. 5105).

In presenza di atto a titolo gratuito, qual e la costituzione di fondo patrimoniale -stante l'assenza di una corrisponedente attribuzione in favore dei disponenti (v. Cass., 23/3/2005, n. 6267; Cass., 20/6/2000, n. 8379), anche quando è posta in essere dagli stessi coniugi (v. Cass., 7/3/2005, n. 4933; Cass., 22/1/1999, n. 591; Cass., 18/3/1994, n. 2604; Cass., 15/1/1990, n. 107), non potendo considerarsi essa integrare invero l'adempimento di un dovere giuridico atteso che non è obbligatoria per legge, ai fini dell'esperimento della revocatoria ordinaria sono necessarie e sufficienti le condizioni di cui al n. 1 dell'art. 2901 c.c. (cfr. Cass., 17/6/1999, n. 6017).

Nell'ambito della nozione lata di "credito" quivi accolta, non limitata in termini di certezza, liquidità ed esigibilità bensì estesa fino a comprendere le legittime ragioni o aspettative di credito coerentemente con la funzione propria dell'azione (la quale non persegue scopi specificamente restitutori bensì mira - come detto - a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori, inclusi quelli meramente eventuali: v. Cass., 29/10/1999, n. 12144; Cass., 24/7/2003, n. 11471), è certamente da considerarsi ricompresa la fideiussione.

Avendo l'azione revocatoria ordinaria la funzione di ricostituzione della garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, e non anche della garanzia specifica, ne consegue che deve ritenersi sussistente l'interesse del creditore, da valutarsi ex ante - e non con riguardo al momento dell'effettiva realizzazione -, a far dichiarare inefficace un atto che renda maggiormente difficile e incerta l'esazione del suo credito, sicché per l'integrazione del profilo oggettivo dell'eventus damni non è necessario che l'atto di disposizione del debitore abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, determinando la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma è sufficiente che abbia determinato o aggravato il pericolo dell'incapienza dei beni del debitore, e cioè il pericolo dell'insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell'esazione coattiva del credito medesimo.

Ad integrare il pregiudizio alle ragioni del creditore (eventus damni) è a tale stregua sufficiente una variazione sia quantitativa che meramente qualitativa del patrimonio del debitore (v. Cass., 18/3/2005, n. 5972; Cass., 27/10/2004, n. 20813; Cass., 29/10/1999, n. 12144), e pertanto pure la mera trasformazione di un bene in altro meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, com'è tipico del danaro, in tal caso determinandosi il pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva (v. Cass., 1/6/2000, n. 7262).

Il riconoscimento dell'esistenza dell'eventus damni non presuppone peraltro una valutazione sul pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore istante, ma richiede soltanto la dimostrazione da parte di quest'ultimo della pericolosità dell'atto impugnato, in termini di una possibile, quanto eventuale, infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore (v. Cass., 9/3/2006, n. 5105).

Non essendo richiesta, a fondamento dell'azione di azione revocatoria ordinaria, la totale compromissione della consistenza patrimoniale del debitore, ma soltanto il compimento di un atto che renda più incerta o difficile la soddisfazione del credito, l'onere di provare l'insussistenza di tale rischio, in ragione di ampie residualità patrimoniali, incombe allora, secondo i principi generali, al convenuto nell'azione di revocazione che eccepisca l'insussistenza, sotto tale profilo, dell'eventus damni (v. Cass., 18/3/2005, n. 5972; Cass., 6/8/2004, n. 15257; Cass., 24/7/2003, n. 11471).

Quanto al requisito soggettivo, quando l'atto di disposizione è successivo al sorgere del credito è necessaria e sufficiente la consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (scientia damni), e cioè la semplice conoscenza - cui va equiparata la agevole conoscibilità - da parte del debitore (e, in ipotesi di atto a titolo oneroso, anche del terzo) di tale pregiudizio, a prescindere invero dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela viene esperita l'azione, e senza che assumano rilevanza l'intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore (consilivm fraudis) né la partecipazione o la conoscenza da parte del terzo in ordine alla intenzione fraudolenta del debitore (v. Cass., 1/6/2000, n. 7262. Con riferimento ad ipotesi di costituzione del fondo patrimoniale, peraltro anteriormente all'assunzione da parte di entrambi i coniugi di una fideiussione, cfr. Cass., 23/9/2004, n. 19131).

La prova della conoscenza del pregiudizio da parte del debitore ben può essere fornita, trattandosi di un atteggiamento soggettivo, anche tramite presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito, ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato ed immune da vizi logici e giuridici (v. Cass., 22/7/2005, n. 15389; Cass., 11/2/2005, n. 2748; Cass., 17/1/2002, n. 438; Cass., 22/2/2001, n. 2597; Cass., 5/6/2000, n. 7452; Cass., 18/12/1999, n. 14274; Cass., 3/5/1996, n. 4077; Cass., 1/12/1987, n. 8930; Cass., 17/1/1984, n. 402; Cass., 8/6/1983, n. 3937; Cass., 21/1/1982, n. 398; Cass., 12/12/1979, n. 6485; Cass., 16/7/1973, n. 2060; Cass., 15/6/1965, n. 1241).

Orbene, di tali principi la corte di merito ha fatto invero puntuale e corretta applicazione nell'impugnata sentenza là dove, nel confermare l'accertamento al riguardo compiuto dal giudice di prime cure, ha posto in rilievo che nella specie trattasi di atto a titolo gratuito posto in essere in epoca successiva all'insorgere del credito nei confronti degli allora appellati ed odierni controricorrenti, ed ha al riguardo ravvisato il ricorrere dei requisiti dell'eventus damni e della scientia damni nel debitore costituente il fondo patrimoniale (nel caso la Ba.) argomentando dal rilievo che all'epoca della costituzione del fondo patrimoniale la medesima ed il di lei marito Ro.Me. erano fideiussori, e pertanto condebitori solidali (per un rilevante importo accresciutosi nel tempo) della società Te. s.r.l., di cui erano altresì soci, avendo per essa altresì sottoscritto le lettere di apertura di conto corrente da quest'ultima stipulate con le banche odierne controparti, il Me. avendo anche i poteri di firma per trattare per conto della medesima con la Ro. Banca; dalla circostanza che l'oggetto dell'atto di disposizione era l'unico immobile di proprietà dei coniugi, convertito nel volatile denaro, a tale stregua rendendo «più difficile» la soddisfazione coattiva del credito, in quanto meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, con conseguente ingenerarsi del pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva (cfr. Cass., 1/6/2000, n. 7262).

Inconferenti ed infondate si appalesano pertanto al riguardo le doglianze dei ricorrenti.

In particolare, là dove, in contrasto con il sopra richiamato insegnamento di questa corte essi sostengono l'imprescindibilita dell'effettività del danno in capo alle banche creditrici e la rilevanza della scientia damni «solo laddove sussista il pregiudizio», deducendo che solamente «in questo caso può dirsi, o supporsi, che il debitore abbia agito con la consapevolezza di pregiudicare un altrui diritto»; nonché sotto il profilo dell'onere probatorio, laddove nel pretesamente addossare alla banche controparti l'onere di provare di aver subito un effettivo pregiudizio in conseguenza della costituzione del fondo patrimoniale, essi palesano di disattendere, invertendola, la regola sulla ripartizione probatoria più sopra delineata.

Senza considerare che del tutto erroneamente si dolgono altresì della circostanza che i giudici di merito non abbiano asseritamente considerato che «la piena consapevolezza» in capo alle odierne controricorrenti ed allora appellate banche creditrici della "inesistenza dì un concreto pregiudizio alle loro ragioni" si «desumeva anche dalla intempestività delle loro azioni tutte proposte a ridosso del termine prescrizionale o addirittura dopo la scadenza di tale termine (Ca.) tanto che le loro iniziative erano sicuramente frutto degli obblighi istituzionali inerenti la gestione del credito cui devono attenersi gli operatori all'uopo autorizzati e non già quale effettiva esigenza di tutela delle proprie posizioni».

Per l'esperibilità della revocatoria ordinaria di un atto di disposizione come nella specie a titolo gratuito compiuto successivamente alla prestazione delle fideiussioni è infatti come detto irrilevante la consapevolezza da parte del terzo del pregiudizio (eventus damni) che il medesimo arreca o è idoneo ad arrecare alle ragioni del creditore, e cioè la consapevolezza di ledere la garanzia patrimoniale allo stesso accordata dall'art. 2740 c.c., trattandosi di presupposto richiesto solo per la diversa ipotesi degli atti dispositivi a titolo oneroso, mentre quelli a titolo gratuito sono revocabili a prescindere dallo stato di buona o mala fede del terzo (v. Cass., 12/4/2000, n. 4642; Cass., 18/12/1999, n. 14274; Cass., 21/10/1980, n. 5632).

Quanto al lamentato «malgoverno delle prove», posto da un canto in rilievo che, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360, 1° c. n. 5, c.p.c., dovendo emergere direttamente dalla lettura della sentenza e non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (v. Cass., 20/6/2006, n. 14267; Cass., 12/2/2004, n. 2707), va per altro verso osservato che, come questa Corte ha ripetutamente avuto modo di affermare e di ribadire (da ultimo v. Cass. n. 21245 del 2006), il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360, 1° c. n. 5, c.p.c. si configura solo quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedi- 20 mento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr, Cass., 25/2/2004, n. 3803).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già, come evidentemente suppongono gli odierni ricorrenti, il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Sicché alla cassazione della sentenza per vizi della motivazione può giungersi solo laddove tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico; e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322; v. Cass., 27/4/2005, n. 8718 del 2005; Cass., 25/2/2004, n. 2803; Cass. 21 marzo 2001, n. 4025; Cass. 8 agosto 2000, n. 10417; Cass. 8 agosto 2000 n. 10414; Cass., Sez. Un., 11 giugno 1998, n. 5802; Cass. 22 dicembre 1997, n. 12960).

A tale stregua, ove come nella specie deduca l'omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione di alcune risultanze probatorie il ricorrente ha l'onere, in virtù del principio dì autosufficienza del ricorso per cassazione, di specificare, trascrivendole integralmente, le prove (anche documentali) non o male valutate, evidenziando, in relazione a tale contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito, le ragioni del carattere decisivo dello stesso e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa. Solo in tale ipotesi il giudice di legittimità può accertare, sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte nello stesso e senza la necessità di indagini integrative, l'incidenza causale del difetto di motivazione e la decisività delle prove erroneamente valutate, giacché il mancato esame di un'istanza istruttoria può dar luogo al vizio di omessa o insufficiente motivazione solo se le risultanze processuali non o mal valutate siano tali da invalidare l'efficacia probatoria delle altre sulle quali il convincimento si è formato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (v. Cass., 17/2/2004, n. 3004; Cass., 23/1/2004, n. 1170; Cass., Sez. 2, 14/3/2001, n. 3737).

Orbene, deducendo che «La Corte d'Appello si è limitata a prendere atto dell'avvenuta disposizione patrimoniale facendo discendere da ciò solo sia la presunzione di una maggiore difficoltà per gli Istituti di credito di trovare soddisfazione, sia la presunzione di conoscenza in capo ai fideiussori di tale pregiudizio», sicché il «Giudice a quo in tal modo ha senz'altro mal governato le risultanze processuali che evidenziavano viceversa la totale mancanza dì questi elementi di prova posti a carico delle Banche attrici, tanto da omettere l'esame di punti decisivi della controversia che pure gli erano stati prospettati e che erano comunque rilevabili d'ufficio»; e, ancora, che gli «elementi di giudizio posti all'attenzione del Giudice a quo erano dunque tali da escludere la sussistenza di tale proporzionalità pregiudizievole e con essa anche la scientia damni in capo ai fideiussori», laddove la «Corte di Appello sul punto ha viceversa omesso ogni motivazione, ancorché poi il quadro probatorio portava sicuramente ad escludere tale evenienza anche sotto tale profilo, dato che la Te. (debitore principale) al momento del rilascio delle fideiussioni, ed anche successivamente, era apparentemente tutt'altro che nello stato di decozione dedotto ex adverso, in quanto risultava effettivamente affidata sul sistema bancario per alcuni miliardi», i ricorrenti omettono invero di assolvere all'onere di specificare, trascrivendole integralmente, le prove asseritamente non o male valutate, evidenziando in relazione a tale contenuto il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito, le ragioni del carattere decisivo dello stesso e la diversa soluzione cui - in difetto di esso - sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa, non ponendo pertanto questa Corte nelle condizioni orientarsi e di apprezzarne la rilevanza e pertinenza ai fini del decidere (cfr. Cass., 12/7/2005, n. 14601; Cass., 22/10/2004, n. 20593; Cass., 28/7/2004, n. 14262; Cass., 13/7/2004, n. 12912; Cass., 13/9/1999, n. 9734).

Lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, gli odierni ricorrenti, oltre a formulare le proprie deduzioni secondo un modello difforme da quello delineato all'art. 366, 24 1° c. n. 4, c.p.c., propongono invero una censura che in realtà si risolve nella mera doglianza circa l'asseritamele erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle loro aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell'inammissibile pretesa di una lettura dell'asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai medesimi (cfr., da ultimo, Cass., 18/4/2006, n. 8932). In realtà sollecitando, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All'infondatezza del motivo consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 3.100, di cui 3.000 per onorari, in favore di Ca. s.p.a. e di Un. s.p.a., oltre a spese generali ed accessori come per legge.

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