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Gli elementi della premeditazione

Premessa in linea teorica la piena compatibilità tra la fattispecie astratta dell’omicidio preterintenzionale e l’aggravante della premeditazione, questa trova dimostrazione nella sussistenza di un lasso di tempo sufficiente a riconfermare la deliberazione criminosa già precedentemente assunta, approntando i mezzi necessari al perseguimento del risultato (reperimento dell’arma) ed avviandosi verso l’obiettivo senza recedere dalla decisione di “gambizzarlo” .
Requisiti teorici della premeditazione sono l’elemento cronologico, costituito da un apprezzabile lasso di tempo tra l’insorgenza e l’attuazione del proposito criminoso, intervallo sufficiente ad una riflessione sulla decisione presa, con possibilità di recesso per il prevalere dei motivi inibitori, e l’elemento ideologico, consistente nella ferma ed irrevocabile risoluzione criminosa perdurante senza soluzione di continuità nell’animo dell’agente.
Non può automaticamente negarsi che ricorra l’aggravante in discorso quante volte il delitto risulti maturato da un’occasione (apparentemente) fortuita, come la presenza dello vittima nel luogo dell’agguato. (Corte d’Assise di Bari, sentenza 25 ottobre 2007)



- Leggi la sentenza integrale -

Svolgimento del processo

Con decreto che dispone il giudizio in data 20/4/2007 giungeva al dibattimento il processo nei confronti di R. V., imputato (in concorso con D. A. V., la cui posizione è stata stralciata) per l’omicidio premeditato di S. L. e per la connessa violazione di detenzione e porto della pistola e delle munizioni usate per l’azione delittuosa.
Il processo aveva inizio nell’udienza del 14/6/2007, in cui il difensore del R. avanzava un’eccezione preliminare di nullità ai sensi dell’art. 178, lett. C) c.p.p., relativa alla compressione delle facoltà spettanti all’imputato a seguito della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
La Corte d’Assise rigettava l’eccezione con ordinanza letta a verbale.
Quindi il difensore e l’imputato personalmente avanzavano richiesta di definizione del processo con rito abbreviato condizionato all’audizione del testimone C. A.. Tale richiesta era stata già avanzata al GUP in sede di udienza preliminare e da questi era stata rigettata.
La Corte d’Assise, acquisito il parere del PM, ammetteva il rito speciale sulla scorta della sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 19-23/5/2003.
Aveva quindi luogo l’esame del testimone C. A., dapprima esaminato dalla difesa dell’imputato, quale parte che aveva richiesto la prova, e successivamente dalla pubblica accusa.
Nell’udienza del 20/9/2007, previa acquisizione del fascicolo delle indagini preliminari, il PM sollecitava la Corte d’Assise a ricorrere ai poteri istruttori ufficiosi ex art. 441, V comma, c.p.p. per sentire direttamente i due collaboratori di giustizia, D. M. S. e C. G., le cui dichiarazioni rese durante le indagini risultavano assai scarne. La Corte, ritenuta l’assoluta necessità di tale approfondimento istruttorio, disponeva l’esame dei citati collaboratori, che aveva luogo nell’udienza del 27/9/2007.
Infine, nell’udienza del 25/10/2007, le parti avanzavano le rispettive richieste conclusive, come risultanti in epigrafe, e la Corte si ritirava per la decisione, dando lettura del dispositivo in camera di consiglio.

Motivi della decisione

Il fatto.
Emerge dagli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, integralmente utilizzabili in virtù dell’opzione per il rito abbreviato effettuata dall’imputato, che il giorno 6/11/1995, alle ore 19.15 circa, era pervenuta alla locale Questura una segnalazione secondo la quale nei pressi del Castello Svevo di Bari una persona era stata attinta da colpi di arma di fuoco. Immediatamente si recava in loco personale di polizia e verificava che l’agguato aveva riguardato tale L. S., nato a Bari il 23/10/1960 (identificato tramite i documenti rinvenuti sulla sua persona), pregiudicato per reati di contrabbando, associazione a delinquere ed altro, colpito mentre si trovava a bordo di un’autovettura Fiat Panda di colore bianco targata omissis. Il malcapitato veniva trasportato subito in ospedale, ma ivi giungeva cadavere.
Le prime indagini si indirizzavano verso due pregiudicati della città vecchia, D. A. V. e R. V., essendo intervenute notizie informali circa il loro coinvolgimento nell’omicidio.
Venivano quindi predisposte perquisizioni ex art. 41 TULPS nelle abitazioni di costoro, i quali però non erano reperiti. Nel corso di tali attività, alle ore 22.20 circa, l’isp. S. P. e l’ass. R. V. nel transitare in via Putignani all’altezza del ristorante omissis notavano un assembramento di persone antistante all’ingresso del locale e si fermavano a verificare la situazione (trattavasi degli invitati ad una cena di laurea che stavano uscendo dal ristorante).
Nell’uscire dal locale per avviarsi verso la macchina, l’ass. R. istintivamente si girava perché aveva udito l’accensione di un motorino, e notava due giovani che salivano frettolosamente a bordo di un ciclomotore parcheggiato sul marciapiede i quali, nonostante l’alt immediatamente loro intimato, imboccavano la via Melo in senso contrario a quello di marcia facendo perdere le proprie tracce.
Il poliziotto non riusciva a vedere in volto i due giovani, ma notava che il soggetto seduto dietro il guidatore aveva i capelli chiari, e somigliava a D. A. V.. Pertanto S. e R. si recavano in Questura per munirsi delle foto-segnaletiche del D. A. e del R. e tornavano immediatamente al ristorante omissis per interpellare il gestore circa la loro presenza in loco.
Il titolare, D. N. M., riconosceva i due individui affermando che essi erano giunti al ristorante verso le ore 21.00 e qui avevano aspettato a lungo che si liberasse un tavolo, infine avevano iniziato a cenare verso le ore 22.00, allontanandosi dal ristorante dopo una ventina di minuti, senza terminare il pasto ma regolarmente pagando il conto.
Tali informazioni sono state ricavate dall’annotazione di servizio in data 7/11/1995 redatta dall’Isp.Capo S. P. e dall’Ass. R. V. , nonché dalle sommarie informazioni rese in Questura da D. N. M. in data 29/1/1996, dichiarazioni sostanzialmente riprodotte dai citati testimoni nel dibattimento svoltosi dinanzi alla Corte d’Assise per il processo nei confronti di D. A. V., i cui verbali sono stati acquisiti agli atti sull’accordo delle parti.
Sempre il 29/1/1996, il D. N. effettuava una individuazione fotografica di D. A. V. e R. V., riconoscendoli con certezza nelle foto n. 2 e n. 5 di un album di nove fotografie sottopostogli in visione, come coloro che la sera del 6/11/1995 avevano cenato presso il suo ristorante.
Nell’immediatezza dell’agguato, e precisamente alle ore 00.40 del 7/11/1995, venivano verbalizzate le sommarie informazioni rese da C. A..
Questi dichiarava che alle ore 19.15 del 6/11/1995, mentre si trovava nei pressi del Castello Svevo, transitando a piedi sul marciapiedi prospiciente alla piazzetta dove posteggiano molte autovetture, vedeva una Fiat Panda in procinto di uscire dalla piazza per immettersi sulla strada. In quel mentre sopraggiungeva un ciclomotore Piaggio Zip di colore bordeaux con due uomini a bordo, che si arrestava a due metri dall’autovettura, all’incrocio tra la strada e la piazzetta. Tale ciclomotore proveniva da piazza Massari ed era in direzione di piazza Odegitria.
Il passeggero dello Zip scendeva dal veicolo e si avvicinava alla Panda dal lato del guidatore, introduceva un braccio dentro il finestrino della vettura, che era abbassato per metà, e sparava 5 o 6 colpi di arma da fuoco, mirando verso il basso.
Il C. affermava di avere avuto la sensazione che l’uomo avesse sparato al di sotto del bacino del guidatore dell’auto per il modo in cui gli aveva visto infilare il braccio nel finestrino e mirare. Quindi l’aggressore scappava verso il ciclomotore, risaliva, ed i due si dileguavano a forte velocità in direzione della Cattedrale.
L’informatore specificava che il guidatore era solo nell’auto, e non sembrava avere abbozzato alcuna reazione all’avvicinarsi del passeggero del ciclomotore.
Il C. forniva anche una descrizione degli individui viaggianti sullo Zip.
Il passeggero che aveva esploso i colpi di arma da fuoco aveva un berretto giallo di lana, dei blue jeans ed un giubbotto marrone scuro di pelle. Era un individuo magro, abbastanza alto e con i capelli lunghi e chiari. Sembrava avere meno di 30 anni.
Il conducente dello Zip era invece più basso e robusto, portava i capelli lunghi dietro, indossava un giubbotto nero in pelle.
Il C. aggiungeva dei particolari su altre persone presenti all’agguato, in posizione anche più ravvicinata della sua, che quantificava nella distanza di “circa dieci metri” dalla scena del crimine.
Aggiungeva di non sapere i nomi dei due aggressori, ma di conoscerli di vista essendogli capitato di vederli più volte nella città vecchia (dove all’epoca del fatto abitava il teste), pertanto era sicuro di poter effettuare un riconoscimento.
Seguiva immediatamente un’individuazione fotografica: al C. venivano sottoposte nove coppie di fotografie, raffiguranti altrettanti individui di fronte e di profilo, tra i quali l’informatore indicava l’uomo effigiato nella foto n. 3 come colui che era sceso dal ciclomotore ed aveva sparato e l’uomo effigiato nella foto n. 7 come colui che era alla guida dello Zip. Trattavasi rispettivamente di D. A. V. e di R. V..
Il 10/11/1995, dopo appena tre giorni dalla descritta verbalizzazione, C. A. si presentava in Procura per effettuare una precisazione. Pur confermando integralmente le sue prime dichiarazioni, l’informatore intendeva precisare che “l’identificazione delle persone che ho fatto, esaminando le fotografie è probabile, anzi molto probabile, ma non è certa al cento per cento”… “il mio riconoscimento rimane tale, ma si basa su di una valutazione di forte probabilità, non su di una valutazione di certezza assoluta”.

Le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia D. M. S. e C. G. presenti agli atti delle indagini preliminari.

Durante le indagini relative ad altri procedimenti i citati collaboratori di giustizia indicarono, fra l’altro, moventi ed autori dell’agguato ai danni di S. L..
C. G., all’epoca del fatto latitante in Montenegro, offre solo brevi cenni dell’episodio in esame, affermando che lo S. fu sparato dai due V. che furono arrestati in Yugoslavia, V. soprannominato “B.” ed un altro di cui non ricordava il cognome.
Come movente dell’azione il C. indicava la “questione del fumo”.
Il collaboratore poi esponeva che egli aveva corrotto un giudice montenegrino per ottenere la liberazione dei due V. e di un tale soprannominato “il m.”, tutti accusati di un omicidio perpetrato in Montenegro. Era riuscito a far liberare soltanto V. B. ed il M., grazie al fatto che l’altro V. (R., n.d.r.) si era addossato la responsabilità dell’omicidio in via esclusiva.
D. M. S. offriva qualche maggiore elemento.
Il collaboratore indicava gli esecutori in R. V. e D. A. V., ed il movente dell’omicidio nella vendetta trasversale contro lo zio di S. L., il quale gestiva un circolo ricreativo nella città vecchia vicino a S. Teresa dei Maschi (rectius: delle Donne) e “se la cantava”, cioè faceva delazioni alla polizia per contrastare lo spaccio dell’hashish che R. e D. A. conducevano nei pressi di tale circolo. A seguito delle soffiate dello zio dello S., erano stati arrestati il cognato ed il nipote di R. V., e per questo motivo S. L. era già stato bersaglio di un agguato che fallì, perché fu colpita un’altra persona.
Specificava però il collaboratore che i due non lo volevano ammazzare, ma gli volevano soltanto dare una lezione, che andò male.
Il D. M. ricordava bene il giorno dell’agguato, nell’ottobre o novembre 1995: lui e F. C., entrambi latitanti, si trovavano in piazza Chiurlia insieme a D. A. e R.. Questi ultimi avvisarono i primi due di andarsene poiché a breve il posto si sarebbe riempito di polizia. A detta del collaboratore il C. raccomandò a D. A. e R. di dargli soltanto una lezione e di non ammazzarlo. Aggiungeva che, all’epoca, lo S. si riforniva di fumo per le proprie esigenze personali proprio da R. e D. A..

Le risultanze della consulenza autoptica.

Il cadavere di L. S. fu sottoposto ad autopsia il giorno 8/11/1995 ad opera del prof. F. V., dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Bari.
Dalla relazione di consulenza, in atti, si evince che la causa di morte fu uno stato di shock traumatico a larga componente emorragica, conseguito a gravi lesioni perforanti addominali con interessamento di un vaso di grosso calibro (arteria iliaca comune di sinistra) prodotte da un proiettile di arma da fuoco.
Lo S. fu attinto da tre proiettili, uno dei quali certamente di calibro 38 special o 357 Magnum, esploso da una rivoltella a distanza molto ravvicinata (entro i 10 cm). Il calibro era stato ricavato dal rinvenimento, nel corso dell’autopsia, di un proiettile - sia pure profondamente alterato nella forma originaria - del diametro di 9 mm e del peso di gr 8,175, semicamiciato e probabilmente di tipo espansivo.
In merito alla posizione reciproca fra vittima e sparatore, il consulente tecnico affermava che al momento dello sparo lo S. volgeva il fianco sinistro all’aggressore.
La particolare inclinazione dei tramiti dello sparo, che avevano determinato tre distinti complessi lesivi (superficie anteriore e mediale della coscia di sinistra al terzo medio e superiore; superficie antero-mediale e laterale della coscia destra al terzo inferiore; parete addominale a livello della porzione di sinistra e destra dello scavo pelvico, con attingimento dell’arteria iliaca comune di sinistra) era definita compatibile con il dato storico per il quale lo S. – mentre era seduto al posto di guida della propria autovettura - fu attinto da tre colpi di arma da fuoco esplosi da un agente che aveva introdotto il braccio armato nell’abitacolo attraverso il finestrino aperto di sinistra.

Le prove assunte nel presente giudizio abbreviato.

La testimonianza di C. A.
La difesa ha condizionato l’esperimento del rito speciale all’assunzione della testimonianza di C. A.. Egli è stato quindi sentito direttamente dalla Corte d’Assise nell’udienza del 14/6/2007.
Questi i contenuti principali della sua deposizione.
L’esame, condotto dalla difesa dell’imputato in quanto parte richiedente la prova, iniziava con l’affermazione del C. di essere stato un “teste volontario” presentatosi spontaneamente in Questura per offrire il suo contributo alle indagini.
Rievocando il giorno dell’agguato, che il teste ha situato nel tardo pomeriggio, il C. ha riferito che egli transitava sulla strada adiacente il Castello Svevo quando sentì degli spari e vide un ciclomotore con due persone a bordo che si allontanava nella direzione opposta a quella del teste, che stava dirigendosi verso piazza Massari e la Questura. Al rumore degli spari, quindi, il C. si girava e vedeva un motorino con due persone a bordo che si allontanava con manovre veloci.
A detta del teste, questa scena si svolgeva a “non meno di un centinaio di metri” da lui.
Con riguardo ai riconoscimenti fotografici effettuati dal C. nella sua prima audizione in Questura (nell’immediatezza del fatto: ore 0.40 del 7/11/1995), il teste specificava di essersi ripresentato dagli organi inquirenti, ed in particolare dal dott. C., perché aveva motivo di non essere certo delle persone originariamente indicate. Esponeva alla Corte che non avrebbe avuto modo di riconoscere qualcuno, poiché durante il tempo materiale di girarsi in direzione degli spari aveva potuto fissare la sua attenzione soltanto su dei particolari fugaci.
Nell’occasione, a detta del teste, egli vide delle sagome, ma non poté riconoscere dei volti, perché vide gli aggressori di spalle, in quanto stavano procedendo in direzione opposta alla sua. Il C. ribadiva di essersi trovato nell’occasione ad una distanza di cento metri, forse anche di più, peraltro in una zona non particolarmente illuminata.
Su domande della difesa, dirette a chiarire come mai in simili condizioni il teste avesse potuto effettuare un riconoscimento, questi rispondeva di non credere di avere fatto un vero e proprio riconoscimento, avendo soltanto parlato con la Polizia di una rosa di possibili persone. Dopo pochi giorni, peraltro, lo stesso C. si era presentato al PM dott. C. asserendo di non essere più certo del riconoscimento di quella rosa di nomi: “…io non ero sicuro che quelle sensazioni dovute certamente anche ad un particolare stato emotivo...”.
Nel controesame condotto dal PM, il teste ha specificato di aver udito dei colpi e di avere visto delle sagome a bordo di un ciclomotore.
Ricordava di avere descritto quelle persone in termini di corporatura robusta, ma non confermava le ulteriori indicazioni somatiche, l’abbigliamento, la lunghezza dei capelli, che aveva invece dato in sede di prima audizione in Questura.
A questo punto il PM procedeva ad una lunga contestazione sulla base della lettura quasi integrale del verbale di sommarie informazioni rese dal C. nella notte del 7/11/1995, essendo il contenuto di tale atto pressocchè completamente contrastante con le dichiarazioni rese dinanzi alla Corte d’Assise.
Il teste si trincerava nello stato d’animo di “grande emotività” in cui avrebbe reso le dichiarazioni della prima ora, che lo avrebbe indotto a fare delle affermazioni di cui non era certo. Ribadiva al PM di essersi trovato a non meno di cento metri dalla scena del crimine e contestava la distanza di dieci metri di cui alle prime dichiarazioni, pur riconoscendo di averla originariamente indicata.
A questo punto il Presidente della Corte d’Assise rivolgeva al testimone un formale ammonimento ai sensi dell’art. 207 c.p.p., facendogli rilevare il contrasto tra le dichiarazioni rese durante le indagini e quelle in corso.
Tuttavia il C. persisteva nell’atteggiamento negazionista, accampando che l’indicazione di una rosa di personalità – così continuando a definire le individuazioni fotografiche effettuate in Questura – era certamente dovuta al fatto che egli all’epoca viveva a Bari vecchia e poteva riconoscere fisicamente 5-10-15 persone che transitavano in quel quartiere. Anche per questo, a distanza di pochi giorni, il teste si era ripresentato dinanzi al PM dott. C. “perché tutto l’insieme dei particolari che io avevo asserito quella notte, mi resi conto che purtroppo era frutto delle mie deduzioni”, e per deduzioni il C. intendeva “delle ipotesi più istintive che date da una reale certezza”.
Riguardo il riconoscimento delle foto n. 3 e n. 7, raffiguranti rispettivamente D. A. e R., il teste negava di avere effettuato un riconoscimento di due persone, bensì affermava che all’epoca ebbe in visione diverse fotografie: da tale risposta il Presidente chiedeva a chiarimento se allora il C. parlò di più persone, non solo di due, al che il teste assentiva, precisando che proprio questo fu il motivo della sua repentina precisazione al PM di tre giorni dopo.
Sempre su domande finali del Presidente, il C. – tergiversando molto - dichiarava di avere conosciuto di vista D. A. e R. all’epoca in cui egli abitava a Bari vecchia, pur ignorandone i nomi e continuando a negare di avere indicato le foto n. 3 e 7. Richiesto allora di specificare perché si fosse presentato spontaneamente in Questura nell’immediatezza del fatto, il teste affermava che all’epoca aveva presentato una domanda per partecipare ad un concorso in Polizia, e data la giovane età sentiva una forte spinta emotiva, una forte motivazione nei confronti dell’istituzione.
In sede di conclusione dell’esame, il difensore dell’imputato chiedeva formal-mente al C. se dopo le prime dichiarazioni fu mai contattato da alcuno o subì pressioni, visto che abitava a Bari vecchia, al che il teste negava decisamente.
Affermava di essersi ripresentato spontaneamente dal PM inquirente dopo appena tre giorni dalle prime dichiarazioni “per avere fatto un’analisi serena di quella nottata e perché non ero assolutamente certo delle cose affermate in Questura”.

Le testimonianza dei collaboratori di giustizia D. M. S. e C. G.

Nuovamente sentiti ex art. 441, V comma, c.p.p. su sollecitazione del PM,i citati collaboratori di giustizia hanno aggiunto qualche particolare sul movente e la dinamica dell’agguato ai danni di S. L..
D. M. S. ha nuovamente indicato gli autori dell’omicidio in R. V. e D. A. V., entrambi appartenenti al clan Capriati operante nel borgo antico. I due erano sodali nello spaccio dell’hashish, attività che svolgevano nei pressi del circolo ricreativo gestito da tale V., zio dello S.. Per questo, lo zio aveva fatto delle “soffiate” alla polizia, soffiate che in un primo momento erano state addebitate alla zia di un poliziotto della zona, tale “P.”, il quale si era adoperato per scagionare la congiunta indicando appunto in V. l’autore delle delazioni. Si era quindi deciso di dare una lezione a V. per interposta persona, e già c’era stato un tentativo fallito che aveva determinato il ferimento di un tale S. N. ed un atto intimidatorio commesso dallo stesso D. M. insieme con D. A. e R., i quali in epoca natalizia avevano bersagliato di colpi di pistola la serranda dell’esercizio dello zio V..
Comunque il teste ha più volte puntualizzato che l’intenzione degli attentatori non era quella di uccidere S. L., ma soltanto quella di dargli una lezione; a suo dire la vittima sarebbe morta perché lasciata a lungo a terra senza soccorso.
Quanto alla dinamica dell’agguato, il D. M. ha dichiarato di avere visto in piazza Chiurlia, dove erano radunate molte persone del loro gruppo (tra cui F. C.), R. e D. A., i quali avevano avuto notizia che S. L. si trovava in piazza Castello ed erano intenzionati ad andare a colpirlo. All’uopo qualcuno, un ragazzino, fu mandato a prendere l’arma, una 357 – anche se il teste ha dichiarato di non avere visto chi ordinava al ragazzo di portare la pistola – e questa venne consegnata ai due, il D. M. non ricordava a chi dei due. La consegna dell’arma, però, l’aveva vista bene, trovandosi alla distanza di una decina di metri. Subito dopo R. e D. A. si mossero alla volta del castello a bordo di uno scooter MBK scuro, guidato forse dal R.. Dopo un certo lasso di tempo arrivò P. V. in Piazza S. Pietro, dove si erano rifugiati il C. ed il D. M., all’epoca ricercati, avvisando di non muoversi da lì perché c’era molta polizia in quanto V. “B.” e “V.”, cioè D. A. e R., avevano sparato “I.”, come era soprannominato S. L. (verb. sten., pag. 7 – 8).
Va precisato che nel controesame difensivo, il D. M. ha affermato che P. V. non fece proprio i nomi dei due, limitandosi a dare la notizia della morte di I. (verb. sten., pag. 17).
C. G., a sua volta, ha confermato le dichiarazioni rese nelle indagini sull’omicidio dello S., commesso ad opera di “V.” e “B.”. Tutte le notizie in merito, il teste le apprese dallo stesso B., cioè D. A., durante la comune latitanza in Montenegro. Il movente sarebbe stato una “questione di fumo, di hashish”, legata ad un’invasione di zone di spaccio a Bari vecchia.
Il teste però non ricordava altri particolari, se non che forse nell’agguato era stata utilizzata una pistola 38. Il C. non conosceva precedentemente i due V., ma conosceva B. F., arrestato insieme ai primi due in Montenegro per l’omicidio di tale A.. Pertanto il teste si era adoperato per fare scarcerare i connazionali, eccetto il R. che si era autoaccusato dell’omicidio, corrompendo un magistrato locale. Uscito dal carcere, il D. A. si affiliò al C. e rimase a lungo con lui, avendo risolto i suoi problemi con la giustizia montenegrina.
Tra i due si era instaurato un rapporto di fiducia, originato dall’interessamento del C. per le vicende giudiziarie del D. A. e sviluppatosi con l’affiliazione di quest’ultimo, il che aveva favorito le confidenze relative alle sue azioni delittuose. Anche per il R., pur se il teste non l’aveva mai conosciuto personalmente, vi era stato un intervento del C., nel senso di ottenere una condanna dimezzata rispetto a quella che avrebbe dovuto patire per l’omicidio di cui si era autoaccusato. Era una prassi quella di aiutarsi tra connazionali in latitanza: le varie squadre contrabbandiere effettuavano una colletta che serviva ad ammorbidire i meccanismi giudiziari locali.

La valutazione del materiale probatorio.

I cardini probatori di questo procedimento risiedono nelle dichiarazioni rese da C. A. agli inquirenti nell’immediatezza del fatto, alle ore 0.40 del 7/11/1995.
Infatti, in sede di giudizio abbreviato, è utilizzabile ogni atto legittimamente acquisito al fascicolo delle indagini preliminari, sicché la valenza di quel verbale di sommarie informazioni – ampiamente utilizzato dal PM per le contestazioni svolte nell’esame testimoniale dinanzi alla Corte - non si arresta al giudizio di attendibilità del testimone, come prevede l’art. 500, II comma, c.p.p., ma costituisce un elemento di prova in sé e per sé.
Naturalmente anche per l’originario verbale di sommarie informazioni dovrà formularsi una stringente valutazione di attendibilità, in rapporto sia con le dichiarazioni immediatamente successive (10/11/1995), tese a ridimensionare il grado di probabilità dei riconoscimenti effettuati in prima battuta, sia con la deposizione resa nel presente giudizio abbreviato, orientata in senso assolutamente limitativo della valenza delle prime dichiarazioni.
In via di prima approssimazione, deve esaltarsi il dato della presentazione spontanea del C. negli uffici della Questura a poche ore dall’agguato ai danni di S. L.. Il testimone era molto giovane all’epoca dei fatti, poco più che ventenne, ma non era certo uno sprovveduto bensì una persona altamente responsabile tanto da rivestire anche la carica di consigliere circoscrizionale (cfr. sentenze della Corte d’Assise e della Corte d’Assise d’Appello depositate dal PM).
Deve pertanto ritenersi che l’impulso di presentarsi in Questura a rendere testimonianza sul grave fatto di sangue sia stato originato nel C. da un forte senso di responsabilità civile, in controtendenza rispetto all’usuale prassi omertosa che si registra in evenienze simili, e che si era verificata anche in quell’occasione (è infatti lo stesso C. a rimarcare che alla scena avevano assistito numerose persone, in posizione anche più favorevole della sua, implicando che nessuno si era però presentato ad offrire un contributo alle indagini).
Ne discende un giudizio di genuinità delle notizie offerte in prima battuta dal teste oculare, da null’altro animato se non da apprezzabile senso civico, oltre che di piena affidabilità per essersi trovato ad assistere alla scena dell’agguato da distanza molto ravvicinata e nel pieno delle proprie facoltà psico-percettive, trattandosi di una persona giovane e sana. Non è di secondaria importanza, a quest’ultimo riguardo, il dato che il C. all’epoca del fatto abitasse proprio nel borgo antico, perché ciò gli avrebbe consentito una maggiore precisione all’atto della ricognizione fotografica dei due individui indicati, anch’essi residenti nel medesimo quartiere.
Accadeva però che - dopo tre giorni soltanto dal rilascio delle prime dichiarazioni – C. A., in base ad una lunga riflessione interna, si ripresentava al PM per precisare che – ferme restando tutte le dichiarazioni precedentemente rese – egli non era più certo “al cento per cento” dell’identificazione delle persone individuate fotograficamente, ma che il suo riconoscimento si riduceva ad “una valutazione di forte probabilità”.
Pur essendo piuttosto verosimile, secondo l’id quod plerumque accidit, che in quei tre giorni sia stato fatto pervenire al C. qualche buon consiglio su come barcamenarsi con gli organi inquirenti, tuttavia va preso atto che non sono stati provati interventi di terzi che possano avere indotto o costretto l’informatore ad imboccare la via di una progressiva ritrattazione, ed anche in sede di testimonianza dinanzi a questa Corte d’Assise il teste ha escluso, a domanda della difesa, di essere stato in qualche modo oggetto di pressioni in tal senso.
Ebbene, nel giudizio su tale prima presa di distanza da parte del C. quest’organo giudicante non può prescindere dal considerare che essa non si pone in decisa contrapposizione rispetto alle dichiarazioni rese il 7/11/1995, bensì inserisce una sfumatura di incertezza esclusivamente sul punto dell’individuazione dei due soggetti responsabili dell’agguato, precedentemente indicati dall’informatore in termini secchi: “L’uomo ritratto nella foto n. 3 è quello che sceso dal motore ha sparato. L’uomo ritratto nella foto n. 7 è invece quello che è rimasto sul motore”.
Sotto il profilo probatorio la lacuna, in verità assai lieve, che si viene a creare in punto di riconoscimento è ampiamente colmata dalle dichiarazioni rese dai due collaboratori di giustizia, in particolar modo quelle di D. M. S., che non ha avuto esitazione ad indicare gli autori dell’agguato in D. A. V. e R. V..
Questo testimone, intraneo al gruppo malavitoso cui appartenevano il D. A. ed il R., era presente all’atto della partenza dei due da piazza Chiurlia, muniti della pistola all’uopo richiamata, e diretti alla volta del Castello Svevo dove era stata segnalata la presenza della vittima designata. Egli pertanto non può definirsi teste “de relato”, come vorrebbe la difesa dell’imputato, ma è senz’altro teste diretto (testimone puro e semplice, essendo risultato privo di ogni collegamento processual-mente rilevante con i fatti e le persone su cui ha deposto) di eventi accaduti sotto la sua immediata percezione. Inoltre nulla autorizza, nel presente procedimento, a dubitare dell’attendibilità delle sue dichiarazioni, che si caratterizzano per logicità e coerenza interna e compongono un quadro pienamente compatibile con le altre emergenze processuali (in particolare, il dato della pistola – indicata dal teste in una 357 – coincide con le valutazione operate dal perito settore sulla base del dato oggettivo del rinvenimento di un proiettile di quel calibro in sede di autopsia).
Il D. M. ha altresì indicato con precisione il movente dell’azione di fuoco, consistito nei ripetuti contrasti con lo zio dello S. che non intendeva lasciare campo libero a R. e D. A. nello spaccio dell’hashish dinanzi al proprio circolo ricreativo, e dissidi di tal genere erano quelli che più frequentemente sollevavano reazioni feroci nella città vecchia, tanto da avere nel caso di specie già dato luogo ad altri agguati falliti e ad azioni dimostrative come le pistolettate contro la serranda del citato circolo ricreativo.
Ad abundantiam, la testimonianza di C. G. – pur essendo de relato rispetto a quanto appreso dal D. A. - conferma questo quadro ricostruttivo, in particolar modo circa l’individuazione dei due V., D. A. e R., come gli autori dell’omicidio di S. L..
Va ancora aggiunto al quadro probatorio quanto rilevato dall’isp. S. P. e dall’ass. R. V., i quali avevano visto due giovani fuggire a bordo di un ciclomotore in occasione dell’intervento della polizia presso il ristorante omissis subito dopo l’omicidio dello S.. Al R. il giovane seduto dietro il ciclomotore era parso D. A. V., e l’ipotesi era stata confermata dal gestore del ristorante, D. N. M., al quale i poliziotti avevano immediatamente esibito le fotosegnaletiche di costui e del R.: il D. N. aveva riconosciuto i due giovani ed affermato la loro presenza al ristorante durante quella serata, nonché il loro repentino allontanamento pur dopo avere atteso a lungo un tavolo per cenare.
La circostanza che D. A. e R. fossero insieme quella sera, a non più di due ore dall’agguato, e che entrambi – alla vista di personale di polizia – si siano dati alla fuga non esitando a lanciare il ciclomotore contromano, denota una cattiva coscienza non rapportabile genericamente al loro status di pregiudicati, ma senz’altro ricollegabile alla recente commissione di qualcosa di grave.
Quanto alla valutazione della deposizione resa da C. A. dinanzi a questa Corte, è evidente che essa è risultata pregiudicata dall’intento del teste di sabotare completamente la valenza probatoria delle prime informazioni rese agli inquirenti. In tale goffo tentativo il C. ha reso delle dichiarazioni inverosimili, addirittura negando di avere effettuato un riconoscimento fotografico in Questura, e comunque incompatibili con il verbale del 7/11/1995, che gli è stato continuamente contestato dal PM praticamente in ogni sua parte.
Non a caso è dovuto intervenire il Presidente del collegio, invitando il teste a ponderare le sue risposte e diffidandolo a dire la verità. Purtroppo l’invito non ha sortito effetti sostanziali, sicchè appare necessaria la trasmissione degli atti relativi alla deposizione del C. al PM per le sue determinazioni ai sensi dell’art. 372 c.p.
Da quanto precede, risulta chiaro che la testimonianza resa dinanzi a questa Corte da C. A. è priva di ogni attendibilità, e non può sortire l’effetto di neutralizzare le ben più credibili dichiarazioni della prima ora.
Soccorre a tal fine la possibilità, pacificamente riconosciuta al giudice (vedi supra, nota n. 3), di scindere la testimonianza o le varie dichiarazioni rese da un testimone, in ragione della maggiore o minore credibilità di esse o di parti della stessa.

La qualificazione giuridica del fatto.

Appurata la paternità dell’azione in capo a R. V. e D. A. V., vi è la necessità di operare l’esatta qualificazione giuridica del reato.
Infatti, a fronte di un’imputazione di omicidio doloso aggravato dalla premeditazione, vi è la reiterata dichiarazione del collaboratore di giustizia D. M. S. che i due aggressori non volessero effettivamente uccidere lo S., ma soltanto “dargli una lezione”, intento non riuscito per eccesso.
A favore della tesi accusatoria milita il dato dell’arma utilizzata nell’azione, una pistola verosimilmente micidiale, tanto più se – come nel caso specifico - munizionata con proiettili espansivi (vedi relazione autoptica). Invero, difficilmente un’aggressione condotta con questo tipo di munizioni, per di più sparando da distanza ravvicinatissima, avrebbe potuto avere un esito men che letale.
Di contro devono valutarsi non soltanto le decise affermazioni del D. M. circa il più limitato intento perseguito dagli aggressori (dichiarazioni di per sé credibili poiché provenienti da un soggetto organico al clan malavitoso cui appartenevano D. A. e R., che a sua volta aveva partecipato ad un’azione dimostrativa contro lo zio dello S., per le medesime ragioni sottostanti al fatto oggi in esame), ma anche la seguente affermazione del C.: “Quello che era seduto dietro è sceso, si è avvicinato alla Panda dal lato del guidatore e quando gli è arrivato vicino ha messo il braccio dentro la macchina ed ha sparato mirando verso il basso… Ho avuto la sensazione che abbia sparato al di sotto del bacino per il modo in cui gli ho visto infilare il braccio nell’auto e mirare”.
Il teste oculare ha descritto una dinamica molto precisa, secondo cui sarebbe stato facilissimo per l’agente mirare a parti vitali quali la testa o il cuore della vittima ove avesse avuto davvero l’intenzione di uccidere. Se, nonostante l’estrema vicinanza all’obiettivo, lo sparatore (nella ricostruzione del C., il D. A.) mirò al bacino, deve dedursi che l’intenzione era quella di procurare allo S. soltanto delle lesioni, e che l’esito letale dell’agguato si sia determinato per un meccanismo casuale scaturito verosimilmente dai movimenti difensivi attuati dalla vittima nel tentativo di ripararsi dai colpi.
Isolatamente considerata, la scelta dell’arma non è sufficiente a fondare un giudizio di animus necandi, perché appare agevole l’obiezione secondo cui quella poteva essere l’unica pistola in dotazione ai due aggressori all’epoca dell’agguato.
Alla stregua di tali considerazioni, deve qualificarsi il fatto per cui è processo come omicidio preterintenzionale, poiché da un’originaria azione diretta ad infliggere lesioni è invece scaturita la morte della vittima (art. 584 c.p.).

L’aggravante della premeditazione.

Ritiene questa Corte d’Assise che l’azione delittuosa in esame sia stata sorretta dalla premeditazione.
Premessa in linea teorica la piena compatibilità tra la fattispecie astratta dell’omicidio preterintenzionale e tale aggravante, dovendosi al riguardo richiamare la disposizione dell’art. 585 c.p. (ove si determina l’aumento di 1/3 delle pene previste dagli artt. 582, 583 e 584 qualora ricorrano le aggravanti di cui all’art. 577), sul piano pratico deve osservarsi che l’agguato ai danni di S. L. è stato sicuramente premeditato. Infatti da lungo tempo i due V. erano sulle sue tracce, sia pure al limitato fine di “dargli una lezione”, tanto che un primo tentativo in tal senso era fallito per avere colpito la persona sbagliata (tale S. N.). In ogni caso R. e D. A. erano sempre all’erta, e - nel racconto del D. M. – una volta saputo che lo S. si trovava nei pressi del Castello Svevo, si erano organizzati mandando un ragazzino a prendere la pistola dal nascondiglio ed avviandosi in direzione della vittima a bordo del ciclomotore.
Essi hanno pertanto agito in un lasso di tempo sufficiente a riconfermare la deliberazione criminosa già precedentemente assunta, approntando i mezzi necessari al perseguimento del risultato (reperimento dell’arma) ed avviandosi verso l’obiettivo senza recedere dalla decisione di “gambizzare” lo S.
Ricorrono qui entrambi i requisiti teorici della premeditazione: l’elemento cronologico, costituito da un apprezzabile lasso di tempo tra l’insorgenza e l’attuazione del proposito criminoso, intervallo sufficiente ad una riflessione sulla decisione presa, con possibilità di recesso per il prevalere dei motivi inibitori, e l’elemento ideologico, consistente nella ferma ed irrevocabile risoluzione criminosa perdurante senza soluzione di continuità nell’animo dell’agente.
Né può negarsi che ricorra l’aggravante in discorso soltanto perché il delitto è maturato da un’occasione (apparentemente) fortuita, come la presenza dello S. in piazza Castello. Innanzitutto è verosimile pensare che il malcapitato si sia recato in quel luogo perché attiratovi da una telefonata (vedi al riguardo le sommarie informazioni rese da Tortorelli Antonio in data 7/11/1995). In ogni caso è tralatizia la massima giurisprudenziale per la quale “La premeditazione, la cui compiutezza deriva da una fusione di elementi cronologici ed ideologici, non è esclusa dal fatto che l’occasione di incontro con la vittima non sia preordinata, perché mentre l’agguato o la predisposizione non sono connotati indispensabili dell’aggravante, la ricerca della cennata occasione non è incompatibile con l’accertata sussistenza di un più intenso dolo riflessivo in cui si esprime il premeditato proposito di uccidere” (Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 664 del 14/6/1972, Maltese).

Il trattamento sanzionatorio.

Pur mutata la qualificazione giuridica del delitto sub A), ed in adesione alla teoria prevalente secondo cui l’omicidio preterintenzionale è costituito da una base dolosa - percosse o lesioni – e da un evento più grave imputabile per il mero rapporto di causalità materiale, deve affermarsi che nella specie la determinazione del trattamento sanzionatorio non può prescindere da una pregnante valutazione di tutti i criteri dettati dall’art. 133 c.p.
In ordine ai parametri attinenti alla gravità del reato, le modalità dell’azione ed il mezzo usato per integrarla, una pistola caricata con proiettili di tipo espansivo, depongono per una intensissima responsabilità preterintenzionale sia sotto il profilo dell’obiettivo prefissato (la “gambizzazione”, ferimento comunque gravissimo perché comportante un percorso di riabilitazione fisica della vittima intriso di sofferenza e dagli esiti non scontati quanto all’effettivo recupero funzionale), che sotto quello del più grave evento effettivamente determinatosi.
Quanto ai parametri imperniati sulla capacità a delinquere del colpevole, il nutrito certificato penale non offre certo un quadro lusinghiero dell’odierno imputato, già pregiudicato al momento del fatto in esame anche per reati concernenti le armi (il che avrebbe consentito la contestazione di una recidiva qualificata, che nella specie è mancata).
Né migliori addentellati emergono dalla sua condotta di vita contemporanea e seguente al reato. E’ noto che il R., insieme al D. A., si diede alla latitanza subito dopo la commissione del delitto per cui è processo, riparando in Montenegro.
Qui, lungi dal perseguire una condotta improntata alla legalità, riproponeva i medesimi modelli di comportamento rendendosi responsabile di altri omicidi per i quali rimediava lunghe condanne (nonostante i buoni uffici di C. G. con la magistratura di quel paese).
Pertanto R. V. non appare meritevole di attenuanti di sorta; l’unico beneficio in termini sanzionatori consegue dall’applicazione della disciplina della continuazione nel reato, poiché le due imputazioni di cui l’imputato deve riconoscersi responsabile, sono con ogni evidenza legate da un unico disegno criminoso, consistente nella deliberazione originaria di procedere ad un agguato a mano armata ai danni di S. L..
Appare a questa Corte d’Assise pena equa e rispettosa del dettato dell’art. 27 della Costituzione quella di anni 13 e mesi 4 di reclusione, secondo il seguente calcolo: pena base per il più grave delitto di omicidio preterintenzionale = anni 15 di reclusione; aggravante della premeditazione = anni 18; art. 81 c.p. = anni 20; diminuente per il rito abbreviato = pena indicata.
Alla condanna consegue l’obbligo del pagamento delle spese processuali.
A tali determinazioni sanzionatorie conseguono di diritto le pene accessorie previste dalla legge. Pertanto, l’imputato deve essere interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, e resterà in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena.
Poiché i delitti di cui R. V. è stato riconosciuto responsabile non sono esclusi dall’ultimo provvedimento di clemenza, né per il titolo dei reati né per la data di loro commissione, è d’uopo dichiarare condonata la pena testè irrogata nel massimo limite di tre anni di reclusione.

La complessità delle questioni trattate non consente l’immediata redazione della motivazione della sentenza in camera di consiglio.

PQM

La Corte d’Assise di Bari, visti gli artt. 442, 533 – 535 c.p.p., dichiara l’imputato
R. V. colpevole del reato di cui agli artt. 110, 584 e 577 n. 3 c.p., così qualificato il fatto di cui al capo A), nonché del reato di cui al capo B), unificati sotto il vincolo della continuazione, e lo condanna alla pena di anni tredici e mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, nonché di quelle di custodia cautelare in carcere.
Visti gli artt. 29 – 32 c.p., dichiara l’imputato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, nonché in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena.
Visto l’art. 1 Legge 31/7/2006 n. 241, dichiara condonata la pena di cui innanzi, nei limiti di anni tre di reclusione.
Dispone la trasmissione di copia degli atti al PM, per le determinazioni di competenza in ordine al reato di cui all’art. 372 c.p. ipotizzabile a carico di C. A..



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