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I beni di provenienza illecita possono essere confiscati anche se riconducibili al regime della comunione legale

La disciplina della comunione legale tra coniugi è animata dall'intento di tutelare la famiglia attraverso una specifica protezione della posizione dei coniugi che si manifesta, a norma dell'art. 177, primo comma, lettera a), cod. civ., nel regime dell'attribuzione comune degli acquisti compiuti durante il matrimonio. Tale finalità di protezione è del tutto assente nell'ipotesi in cui i beni acquistati - astrattamente riconducibili al regime della comunione legale - abbiano una provenienza illecita; pertanto, ove il giudice penale abbia sottoposto a confisca, ai sensi dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, beni di persona sottoposta a procedimento di prevenzione per sospetta appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, il coniuge non può invocare la disciplina della comunione legale per sottrarre determinati beni alla predetta misura, salvo che dimostri di aver contribuito all'acquisto con proprie disponibilità frutto di attività lecite.

Corte di Cassazione Sezione 2 Civile, Sentenza del 5 marzo 2010, n. 5424



- Leggi la sentenza integrale -

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo - Presidente

Dott. PICCIALLI Luigi - Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio - Consigliere

Dott. MAZZACANE Vincenzo - rel. Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria - Consigliere

ha pronunciato la seguente:



SENTENZA

sul ricorso proposto da:

BA. AN. (OMESSO), PA. AN. (OMESSO), elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati PASCA ALESSANDRO, GIOVINE ENRICO;

- ricorrenti -

contro

MINISTERO GIUSTIZIA in persona del Ministro pro tempore, MINISTERO ECONOMIA FINANZE in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA TERRITORIO in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

- controricorrenti -

avverso la sentenza n. 804/2003 della CORTE D'APPELLO di SALERNO, depositata il 19/11/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 19/01/2010 dal Consigliere Dott. MAZZACANE Vincenzo;

udito l'Avvocato PASCA Alessandro, difensore del ricorrente che ha chiesto di riportarsi alle conclusioni in atti depositati;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data 10 - 11/1/1985 il Tribunale Penale di Salerno emetteva nei confronti di Ma.Gi. e di Ma.Vi. un provvedimento di confisca avente ad oggetto tra l'altro le partecipazioni azionarie di loro proprieta' nella s.p.a. Im. "P. de. Qu. e nella s.p.a. Ac. Mi. Ca. .

Ba.An. ed Pa.An. , coniugi in regime di comunione legale dei predetti Ma. , proponevano dinanzi al suddetto giudice incidente di esecuzione facendo valere la loro qualita' di comproprietarie dei beni confiscati e deducendo l'inefficacia nei loro confronti della impugnata misura.

A seguito di cassazione con rinvio dell'opposto provvedimento reso il 10 - 11/1/1985 il Tribunale Penale di Salerno con ordinanza del 23/8/1988, ritenendo che la controversia dovesse essere, rimessa al giudice civile, sospendeva il procedimento penale.

Con atto di citazione notificato il 2/12/1988 la Ba. e la Pa. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Salerno il Ministero della Giustizia ed il Ministero delle Finanze chiedendo riconoscersi la loro comproprieta' sulle azioni confiscate e, conseguentemente, dichiararsi l'irrilevanza nei loro confronti del decreto di confisca.

I convenuti costituendosi in giudizio eccepivano l'improponibilita' della domanda proposta dalla Ba. in quanto le doglianze di quest'ultima avrebbero dovuto essere sollevate in sede penale; inoltre deducevano l'infondatezza delle domande attrici in quanto il diritto vantato dalle controparti - lungi dall'essere un diritto di proprieta' - era solo un diritto di credito, come tale non tutelabile dinanzi al provvedimento di confisca.

Il Tribunale adito con sentenza del 25/9/2000 rigettava la domanda attrice.

Proposto gravame da parte della Ba. e della Pa. cui resistevano le suddette Pubbliche Amministrazioni la Corte di Appello di Salerno con sentenza del 19/11/2003 ha rigettato l'impugnazione.

Per la cassazione di tale sentenza la Ba. e la Pa. hanno proposto un ricorso articolato in tre motivi cui il Ministero dell'Economia e delle Finanze, il Ministero della Giustizia e l'Agenzia del Territorio hanno resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo le ricorrenti, deducendo violazione e falsa applicazione dell'articolo 384 c.p.c., della Legge 31 maggio 1965, n. 575 e della Legge 13 settembre 1982, n. 646, assumono che, mentre la Corte di Cassazione in sede penale - adita dalle esponenti con ricorso avverso l'ordinanza 2/6/1987 del Tribunale di Salerno che aveva a sua volta rigettato l'incidente di esecuzione sollevato sempre dalle predette in relazione al provvedimento di confisca sopra menzionato - aveva stabilito che le regole civilistiche disciplinanti la comunione legale dei coniugi dovessero essere dirimenti in ordine alla questione della titolarita' dei titoli azionari e che tale accertamento fosse di esclusiva competenza del giudice civile, la sentenza impugnata si era invece dichiarata competente a giudicare sulla operativita' o meno nella fattispecie delle suddette norme civili, ritenendo ad esse sostituibili opinabili valutazioni della normativa penale.

La censura e' infondata.

Premessa l'erroneita' del riferimento all'articolo 384 c.p.c., che invero disciplina l'enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di cassazione civile, mentre nella specie l'eventuale principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione penale poteva semmai vincolare il Tribunale penale di Salerno e non certo il giudice civile, e' agevole osservare che il ritenuto difetto della giurisdizione penale in favore di quella civile circa l'accertamento dei diritti vantati dalla Ba. e dalla Pa. in ordine ai beni oggetto del suddetto provvedimento di confisca non comportava certo un vincolo per il giudice civile riguardo alla normativa applicabile per risolvere la questione ad esso devoluta.

Con il secondo motivo le ricorrenti, denunciando violazione e falsa applicazione dell'articolo 177 c.p.c., comma 1, lettera a), e che la Corte territoriale, dopo aver aderito a tale assunto, ha escluso l'operativita' di tale normativa al caso in esame sulla base di un convincimento scaturito da un inspiegabile travisamento dei limiti del "petitum".

La censura e' infondata.

Il giudice di appello, dopo aver richiamato l'orientamento consolidato di questa Corte in ordine alla configurazione della azioni di societa' quali incrementi patrimoniali rientranti tra gli acquisti di cui all'articolo 177 c.c. e quindi ricompresi nell'oggetto della comunione legale tra i coniugi, ha escluso l'applicabilita' di tale normativa nella fattispecie, dove era emerso che il patrimonio oggetto della controversia era costituito da partecipazioni sociali in attivita' imprenditoriale intestata a Ma.Gi. e Ma.Vi. per le quali era stata ritenuta la provenienza illecita in quanto provento o reimpiego di proventi illeciti.

In proposito la sentenza impugnata ha rilevato che la confisca disposta ai sensi della Legge 21 maggio 1965, n. 575, articolo 2 bis e segg. come modificata dalla Legge 13 settembre 1982, n. 646 nell'ambito del procedimento penale riguardante il delitto di associazione di tipo mafioso ha natura ben diversa da quella ordinaria di cui all'articolo 177 c.c. e segg., che intendono garantire una solidarieta' familiare a tutela della reciproca assistenza e dei doveri di mantenimento dei coniugi verso i figli, ma che non possono costituire riparo per le attivita' criminali svolte anche in regime di imprenditorialita'.

La Corte territoriale ha quindi ritenuto che le appellanti, lungi dal limitarsi ad invocare a loro favore la normativa sulla comunione legale, avrebbero dovuto concretamente provare di aver contribuito ad acquistare le azioni societarie in questione con proprio denaro frutto di attivita' lecite, onere che invece non era stato assolto.

Il convincimento espresso dal giudice di appello e' condivisibile in quanto frutto di una corretta configurazione della finalita' perseguita dal legislatore con la sopra menzionata normativa antimafia concernente le misure patrimoniali, costituita dalla eliminazione dal circuito economico, collegato ad attivita' e soggetti criminosi, di beni dei quali non sia fornita dimostrazione di lecita acquisizione.

Come invero rilevato da questa Corte in sede penale, la Legge n. 575 del 1965, articolo 2 ter autorizza il sequestro e la confisca dei beni di cui la persona sottoposta a procedimento di prevenzione risulta poter disporre direttamente od indirettamente, fra i quali rientrano, per presunzione di legge sia pure relativa, i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi (soggetti nei cui confronti devono essere sempre disposte le indagini ai sensi di quanto previsto dalla stessa legge, articolo 2 bis, comma 3); il legislatore presuppone infatti che l'indiziato di appartenere ad associazioni di tipo mafioso faccia in modo che i beni illecitamente ottenuti appaiano formalmente nella disponibilita' giuridica delle persone di maggior fiducia, ossia i conviventi, sui quali grava pertanto l'onere di dimostrare l'esclusiva disponibilita' del bene per sottrarlo alla confisca (Cass. Pen. Ord. 7/12/2005 n. 2960 dep. 25/1/2006).

L'evidenziata finalita' di natura pubblicistica ora rilevata spiega la ragione per la quale il giudice di appello ha ritenuto inapplicabile la normativa prevista in materia di comunione legale dall'articolo 177 c.c., lettera a), considerato del resto che tutta la disciplina dettata al riguardo e' finalizzata alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione ai quale la "ratio" della normativa e' quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi.

Atteso quindi che tale finalita' e' del tutto assente nell'ipotesi in cui i beni astrattamente riconducibili al regime della comunione legale hanno una provenienza illecita in quanto provento o reimpiego di illeciti proventi, ne consegue logicamente in questo caso l'inapplicabilita' di tale istituto, che non puo' costituire lo strumento giuridico per sottrarre determinati beni alle misure di prevenzione patrimoniale previste dalla menzionata normativa in materia di confisca nei confronti di soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso.

In tale contesto in cui in base a questa disciplina esiste una presunzione della provenienza illecita di tali beni comunque non assoluta, correttamente la Corte territoriale ha affermato che le appellanti avrebbero dovuto provare di essere divenute proprietarie delle azioni societarie suddette dimostrando di aver contribuito ad acquistarle con proprie disponibilita' frutto di attivita' lecite, ed ha rilevato che invece le stesse si erano astenute dall'offrire in proposito alcun elemento probatorio (statuizione quest'ultima non oggetto di censure in questa sede).

Con il terzo motivo le ricorrenti, deducendo violazione e falsa applicazione degli articoli 177 c.c. sia improprio e non conforme al diritto pur nella ipotesi, in quella sede esclusa, di operativita' piena del regime privatistico, considerato che dalle certificazioni notarili acquisite agli atti era emerso che l'intero capitale sociale delle s.p.a. Im. Pa. de. Qu. e Ac. Mi. Ca. facevano capo a Ma. Vi. e Ma.Gi. , i quali erano quindi imprenditori a tutti gli effetti, effettuando sostanzialmente tutte le scelte produttive ed assumendosi completamente i rischi di impresa; da tale premessa il giudice di appello ha dedotto che, poiche' tali beni servivano all'esercizio dell'impresa di cui i Ma. erano titolari, l'impresa stessa era di loro esclusiva spettanza, non essendovi prova di una compartecipazione effettiva ad essa da parte delle appellanti, onde un eventuale diritto di credito delle stesse avrebbe potuto essere fatto valere solo in quanto residuato al momento dello scioglimento della comunione.

Le ricorrenti rilevano che, attesa la "ratio" dell'articolo 178 c.c., da ravvisarsi secondo alcuni nell'esigenza di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nel rischio di impresa e, secondo altri, nella preoccupazione di garantire al coniuge imprenditore la piena disponibilita' dell'azienda di cui egli appare unico gestore, entrambe tali finalita' non ricorrono nell'ipotesi di acquisto di partecipazioni in societa' di capitali, avuto riguardo alla partecipazione solo indiretta ed impersonale del socio, alla limitazione della responsabilita' al solo conferimento ed alla non appartenenza istituzionale della amministrazione al socio, elementi tutti che inducono a ritenere infondata la tesi sostenuta dalla sentenza impugnata in ordine alla comunione solo "de residuo" a favore dei coniugi non intestatari delle azioni.

La censura e' infondata.

Preliminarmente occorre rilevare che la "ratio decidendi" della sentenza impugnata deve essere configurata in quella gia' evidenziata in sede di esame del secondo motivo di ricorso e ritenuta pienamente sufficiente a sostenere l'assunto della esclusione di ogni diritto della Ba. e della Pa. in ordine alla titolarita' delle azioni societarie per cui e' causa.

Soltanto quindi "ad abundantiam" la Corte territoriale ha negato in ogni caso l'operativita' dell'articolo 178 c.c. che le azioni in questione potevano costituire oggetto soltanto della "comunione de residuo".

Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE

Rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido al pagamento di euro 200,00 per spese e di euro 2500,00 per onorari di avvocato.

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