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Il reato di calunnia si configura anche quando si attribuisca a taluno un reato diverso e più grave di quello che l'incolpato si sa che abbia effettivamente commesso

Il reato di calunnia si configura anche quando si attribuisca a taluno un reato diverso e più grave di quello che l'incolpato si sa che abbia effettivamente commesso, perché comunque la falsità dell'accusa finisce per indirizzare le indagini degli organi preposti all'accertamento nella direzione sbagliata, con indubbio pregiudizio sia per il normale funzionamento della giustizia, sia, stante la natura plurioffensiva dell'illecito, anche per la persona ingiustamente accusata. In tale ipotesi, peraltro, il criterio da seguire, per verificare la sussistenza o no della calunnia, deve essere quello della «diversità essenziale» del fatto attribuito da quello commesso realmente dall'incolpato, ovverosia la divergenza deve riguardare gli «elementi fondamentali» dell'illecito e non già modalità secondarie di realizzazione del fatto, che non modificano l'aspetto strutturale del medesimo, non incidono sulla sua maggiore gravità ovvero sulla sua identificazione e non determinano un mutamento del titolo del reato. (Corte di Cassazione Sezione 6 Penale
Sentenza del 15 settembre 2008, n. 35339)



- Leggi la sentenza integrale -

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE ROBERTO Giovanni - Presidente

Dott. OLIVA Bruno - Consigliere

Dott. MANNINO Saverio - Consigliere

Dott. MILO Nicola - Consigliere

Dott. COLLA Giorgio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) AL. VI. N. IL (OMESSO);

2) CA. FR. N. IL (OMESSO);

3) ZO. FR. N. IL (OMESSO);

avverso SENTENZA del 11/04/2005 CORTE APPELLO di MESSINA;

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. MILO NICOLA;

udito il P.G. in persona del Dott. Cedrangolo O., che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza, perche' il fatto non sussiste;

udito il difensore avv. Losengo R., (per Al. e Zo.), che ha concluso per l'accoglimento del ricorso;

non e' comparso il difensore del Ca..

FATTO E DIRITTO

La Corte d'Appello di Messina, con sentenza 11/4/2005, confermava la decisione 14/6/2001 del locale Tribunale, che aveva condannato Al. Vi., Ca. Fr. e Zo. Fr., previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione ciascuno, con i benefici di legge, per il delitto di calunnia, perche', in concorso tra loro, i primi due, con distinte denunce-querele presentate alla Procura della Repubblica di Messina in data 4/5/1993, e la terza, in sede di sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria il giorno 20 successivo, avevano incolpato gli ufficiali ed agenti della Postato Pu. An., Me. Ro. e C. S., che sapevano innocenti, del reato di lesioni personali volontarie in danno dell Al. e del Ca..

Il Giudice distrettuale, dopo avere disatteso alcune eccezioni in rito sollevate dalla difesa degli imputati (regolare partecipazione del P.M. al procedimento e correlazione tra imputazione e sentenza), riteneva provato il reato oggetto di contestazione sulla base delle attendibili dichiarazioni rese dal personale della Polizia di Stato e delle evidenti contraddizioni che avevano caratterizzato l'opposto racconto dei prevenuti, sottolineando, in particolare, che costoro, avendo offerto - in denuncia - una versione dei fatti in termini piu' allarmanti e gravi rispetto alla realta', avevano comunque offeso gli interessi tutelati dalla norma incriminatrice di cui all'articolo 368 c.p.. Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati.

Tutti hanno lamentato l'erronea applicazione della legge penale (articolo 368 c.p.) e il vizio di motivazione in ordine al formulato giudizio di responsabilita', eccependo l'inutilizzabilita' delle testimonianze rese dalle persone offese; evocando la pronuncia 8/5/2001 di questa Suprema Corte, che aveva annullato senza rinvio la sentenza di condanna dell'Al. per il reato di resistenza a p.u. ed aveva stigmatizzato il comportamento violento tenuto, nella circostanza, dagli operanti della Polizia; evidenziando l' Al. e la Zo. le contraddizioni tra le due sentenze di merito in ordine alla ricostruzione dei fatti; precisando il Ca. che egli, con la denunzia-querela, aveva riferito di avere subito soltanto percosse e non lesioni; aggiungendo la Zo. che le dichiarazioni da lei rese al difensore, a conforto della versione dei fatti prospettata dagli altri due imputati, non rilevavano ai fini della calunnia e altrettanto doveva ritenersi per le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, essendo le stesse intervenute in epoca successiva al perfezionamento del reato di calunnia commesso dagli altri due imputati e non potendosi, percio', configurare un concorso successivo in tale illecito, che ha natura istantanea.

L' Al. e la Zo. hanno, inoltre, dedotto l'estinzione del reato per prescrizione, assumendo che doveva trovare operativita' il piu' favorevole termine introdotto dalla Legge n. 251 del 2005 e che l'ostacolo frapposto dalla previsione della norma transitoria di cui all'articolo 10, tale legge presentava profili di incostituzionalita'.

I ricorsi sono fondati.

In punto di fatto, i giudici di merito hanno accertato che, il 25/4/1993, nel corso di un'operazione di polizia finalizzata a bloccare una corsa clandestina di cavalli che aveva determinato una situazione di emergenza in una strada di grande traffico di Messina, l' Al., il Ca. e la Zo., che transitavano a bordo dell'autovettura del primo in quella zona, erano stati fermati dalla Polizia, ne era seguita una discussione dai toni animati, sfociata anche in violenze fisiche, ammesse dagli stessi poliziotti e giustificate dall'esigenza di "ridurre alla ragione l'intemperante Al. "; su costui, come documentato dai referti in atti, erano state riscontrate, nell'immediatezza dei fatti, una contusione allo zigomo e la perforazione del timpano sinistro, lesione quest'ultima ritenuta dallo stesso.

Giudice distrettuale conseguenza "probabile" dello scontro fisico con i poliziotti; sul Ca. non erano stati rilevati segni obiettivi di lesioni; i tre denuncianti avevano descritto i fatti in maniera non corrispondente alla realta', avevano prospettato una dinamica degli stessi molto piu' grave ed allarmante ed avevano sottaciuto circostanze oggettive e soggettive che giustificavano, nel concreto contesto, l'uso della forza fisica da parte dei poliziotti.

Non puo' prescindersi, inoltre, nella valutazione della vicenda in esame, dall'incidenza che sulla stessa spiega la pronuncia 8/5/2001 di questa Suprema Corte, che, annullando senza rinvio, perche' il fatto non sussiste, la condanna dell'Al. in relazione al reato di resistenza a p.u., commesso nello stesso contesto, ha testualmente sottolineato che "la vicenda ebbe uno sviluppo inconcepibile, inqualificabile e non degno per appartenenti al Corpo di Polizia".

Cio' posto, osserva la Corte che, alla luce degli esposti dati fattuali, il reato di calunnia addebitato agli imputati non sussiste.

Ed invero, elemento normativo centrale della calunnia e' incolpare taluno, che si sa innocente, di un reato. L'incolpazione deve riferirsi ad uno specifico fatto criminoso, con l'effetto che il delitto di calunnia si configura anche quando si attribuisca un reato diverso e piu' grave di quello che lo stesso incolpato ha effettivamente commesso, conclusione questa che trova la sua ratio nella considerazione che la falsita' finisce per indirizzare le indagini degli organi preposti all'accertamento nella direzione sbagliata, con conseguente pericolo di inutile dispendio di energie investigative, di danno per il normale funzionamento della giustizia e di indubbio pregiudizio, stante la natura plurioffensiva dell'illecito, anche per la persona ingiustamente accusata di un fatto non commesso.

In tale ipotesi, pero', il criterio-guida dal quale farsi orientare, per verificare la sussistenza o meno della calunnia, deve essere quello della "diversita' essenziale" del fatto attribuito da quello commesso realmente dall'incolpato. In sostanza, la divergenza deve riguardare gli elementi fondamentali dell'illecito in questione e non gia' modalita' secondarie di realizzazione del fatto, che non modificano l'aspetto strutturale del medesimo, non incidono sulla sua maggiore gravita' ovvero sulla sua identificazione e non determinano un mutamento del titolo del reato.

Nel caso in esame, e' stato acclarato che, in occasione dell'operazione di polizia del 25/4/1993, nei confronti dell'Al. e del Ca. era stata usata violenza da parte degli agenti nominativamente indicati nel capo d'imputazione, il cui comportamento - peraltro - risulta essere stato severamente censurato nella sentenza, sopra richiamata, di questa Suprema Corte e non puo' trovare giustificazione in quanto, in maniera perplessa, affermato dalla Corte territoriale ("uso della forza fisica allo scopo di vincere la resistenza opposta dall'Al. "). Gli effetti di tale violenza trovano riscontro anche nella prova generica, integrata dalle lesioni lamentate, a brevissima distanza dai fatti, dall'Al. e documentate da certificazioni mediche (contusione allo zigomo e trauma timpanico). Il mancato riscontro di evidenti lesioni sul Ca. non esclude interventi violenti anche ai danni di costui.

L'accusa rivolta dai denuncianti ai poliziotti, pertanto, deve ritenersi, per quello che emerge dagli atti, sostanzialmente veritiera.

Il solo addebito che puo' muoversi ai denuncianti e' di avere enfatizzato la dinamica dei fatti, descrivendoli nelle loro modalita' esecutive in maniera particolarmente allarmante e forse in parte non corrispondente al vero, senza, pero', con cio' incidere sull'essenza degli illeciti denunciati e, in particolare, sulla loro identificazione e qualificazione giuridica, con l'effetto che deve escludersi la stessa materialita' della calunnia.

Il carattere assorbente e decisivo delle argomentazioni sin qui svolte esime dal prendere in considerazione le altre doglianze articolate nei ricorsi.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio con la formula corrispondente.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perche' il fatto non sussiste.

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