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Il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis cod.pen.) richiede il dolo generico

Il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis cod.pen.) richiede il dolo generico, consistente nella volontà cosciente dell'agente di procurarsi indebitamente immagini inerenti la "privacy" altrui. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezione 1 Penale, che con sentenza del 12 giugno 2003, n. 25666 ha ritenuto sussistente tale reato nel caso di installazione di una videocamera collocata in modo da riprendere la soglia di casa e l'ingresso della autorimessa della parte offesa.



- Leggi la sentenza integrale -

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Ricorre per cassazione AMADEI ALFREDO avverso la sentenza emessa il 21.5.2002 dalla Corte di Appello di Bologna che, in sede di rinvio, confermava la sentenza 25.10.1997 del Pretore di Forlì, con la quale il predetto Amadei era stato dichiarato responsabile del reato di cui all'art. 615 bis c.p. (contestatogli per essersi indebitamente procurato, tramite l'installazione di una videocamera, immagini relative allo svolgimento dell'attività lavorativa di Zavatti Ida, titolare di un garage di ricovero e custodia di autovetture, sito sull'altro lato della medesima via) ed era stato condannato, con le attenuanti generiche, alla pena di mesi 4 di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, ed al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

Lo Amadei aveva proposto ricorso avverso la sentenza 14.12.1999 della Corte di Appello di Bologna, confermativa della citata sentenza di primo grado, e la Quinta Sezione di questa Corte aveva annullato la predetta pronuncia, ritenendo carente la motivazione relativa alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.

Con la sentenza oggi impugnata la Corte territoriale, premesso che le intrusioni nella vita privata altrui mediante riprese video, punite dalla norma di cui all'art. 615 bis c.p., debbono essere realizzate in modo illecito -e quindi anche contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderle- ha osservato che nella specie L'imputato aveva voluto procurarsi un modo indebito immagini della vita privata della Zavatti, in quanto la telecamera da lui installata aveva come punto di riferimento principale l'ingresso dell'autorimessa, con possibilità di riprendere quanto si svolgeva nelle immediate vicinanze anche interne e, sia pure in parte, l'ingresso della abitazione privata della medesima Zavatti.

Ciò, per puro spirito di provocazione e allo scopo di arrecare fastidio alla parte offesa, come emergeva da particolari atteggiamenti e movimenti ostentati dall'imputato (gesti con le dita, rutti, risatine ecc.), sicché appariva provata la piena consapevolezza della mancanza di consenso da parte della Zavatti e della illiceità della propria condotta.

Lamenta il ricorrente, con un unico motivo, violazione di legge ed illogicità della motivazione sotto i seguenti profili:

1) la Corte territoriale non avrebbe seguito le indicazioni date da questa Corte con la sentenza di annullamento, che aveva rilevato come fosse insufficiente la motivazione relativa all'elemento intenzionale del reato contestato con specifico riguardo al limite spaziale previsto dal medesimo reato, omettendo di affrontare sia il tema della involontaria violazione della riservatezza della parte offesa, sia quello della irrilevanza penale delle riprese incentrate sulla pubblica via, non potendosi ricavare la volontà dell'agente di volersi indebitamente procurare immagini della vita privata della medesima parte lesa soltanto dal fatto che la videocamera installata dall'imputato inquadrasse, sia pure per poco, l'interno dell'autorimessa;

2) Non era stata disposta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, doverosa in relazione all'indagine che era stata demandata al giudice del rinvio, volta ad acquisire gli elementi necessari per stabilire se l'imputato avesse effettivamente l'intenzione di procurarsi immagini della vita privata della p.o., non potendosi ritenere a tal fine sufficiente il fatto che la videocamera avesse ripreso l'attività lavorativa che si svolgeva davanti all'ingresso dell'autorimessa, dal momento che la stessa avveniva comunque sulla pubblica via;

3) Analoghe considerazioni andavano svolte in ordine al fatto che il raggio d'azione della videocamera ricomprendeva una piccola parte dell'ingresso dell'abitazione privata della parte offesa, atteso il minimo grado di invasività delle riprese effettuabili sulla sfera di tale abitazione;

4) il giudice del rinvio aveva ripreso pedissequamente alcuni elementi a suo tempo esaminati dal giudice di prime cure, nonostante la affermata insufficienza e contraddittorietà degli stessi, come le dichiarazioni delle parti offese, già ritenute inattendibili in considerazione della inimicizia da tempo esistente fra i due nuclei familiari.

Successivamente il difensore del ricorrente ha presentato un motivo aggiunto, con il quale deduce la violazione del principio del ne bis in idem, essendo stato egli assolto dal medesimo reato di cui all'art. 615 bis c.p. con sentenza 22.11.2002 del Pretore di Forlì, già passata in giudicato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso va respinto.

1. Con il primo motivo di gravame lamenta il ricorrente che la Corte territoriale non si sarebbe uniformata alle indicazioni date da questa Corte con la sentenza di annullamento, con specifico riguardo alla indagine sulla sussistenza dell'elemento intenzionale del reato contestato allo Amadei.

In particolare, ha osservato questa Corte che il giudice dell'impugnazione avrebbe dovuto dare congrua risposta, sul piano dell'intenzionalità del fatto contestato, all'assunto difensivo, secondo cui era intento dell'imputato perlustrare visivamente il tratto della pubblica via, immediatamente antistante l'ingresso dell'autorimessa della parte lesa, non per procurarsi indebitamente immagini inerenti la vita privata della medesima, ma per avere la possibilità di sorprendere eventuali soggetti sospettabili dei danneggiamenti delle autovetture ivi parcheggiate.

In altri termini, ai fini della ravvisabilità del reato del quale lo Amadei era stato chiamato a rispondere, occorreva la dimostrazione che la violazione della vita privata della titolare dell'autorimessa -obiettivamente rilevabile nel fatto che il campo di ripresa della videocamera impiantata dall'imputato comprendeva la soglia di casa della Zavatti e l'ingresso dell'autorimessa (con possibilità di inquadrare una piccola parte dell'interno), da ritenere "luoghi di privata dimora", tra i quali vanno ricompresi quelli destinati all'espletamento di attività lavorativa privata- non fosse involontaria, e che fosse da escludere che la sua intenzione precipua fosse quella di inquadrare immagini della pubblica via.

A tali osservazioni, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte di Appello di Bologna ha dato congrua risposta.

Ha rilevato a tal proposito la Corte suddetta che -avuto riguardo alle tensioni da tempo esistenti tra la famiglia dell'imputato e quella delle parti lese, al campo visivo inquadrato dalla videocamera, all'uso discontinuo e frammentario che di essa era stato fatto, alla circostanza che i danneggiamenti avevano interessato anche autovetture parcheggiate lontano dall'ingresso dell'autorimessa della Zavatti, agli atteggiamenti provocatori normalmente assunti dall'imputato, al fatto che egli si era guardato bene dal prendere contatti con i suoi vicini di casa per concordare una comune linea di azione finalizzata alla scoperta degli ignoti danneggiatori, ed al fatto che da tali riprese, durate per diversi mesi, non era mai stata rilevata alcuna immagine di persone sospettabili di avere danneggiato le suddette autovetture, nonostante i danneggiamenti fossero regolarmente continuati- doveva ribaltarsi la prospettiva avanzata dalla difesa e concludersi che l'imputato non aveva voluto esercitare una sorta di autodifesa per dimostrare la sua estraneità ai danneggiamenti delle macchine dei clienti, che erano state parcheggiate nelle vicinanze dell'autorimessa, ma che in realtà egli aveva semplicemente inteso arrecare fastidio alle parti offese, procurandosi indebitamente immagini della loro vita privata.

E la illiceità della condotta ascritta allo Amadei si ricavava, secondo i giudici di merito, dal fatto che le intrusioni nella vita privata dei suoi vicini di casa erano state realizzate ingannevolmente e contro la volontà esplicita di chi aveva il diritto di escluderle.

Trattasi di argomentazioni ineccepibili e convincenti, perfettamente aderenti alle risultanze processuali, che non prestano il fianco a critiche di sorta sul piano della congruità logico-giuridica, ed in ordine alle quali non sono ammissibili in questa sede doglianze miranti a dimostrarne la non aderenza ai fatti accertati.

Ed invero, posto che la disposizione di cui all'art. 615 bis c.p. tende a tutelare la sfera di riservatezza della vita individuale dalle interferenze illecite altrui, l'elemento psicologico richiesto per integrare tale reato consiste nel dolo generico, rappresentato dalla volontà cosciente dell'agente di procurarsi indebitamente immagini inerenti la vita privata altrui, condotta che la legge punisce come una modalità speciale di violazione della "privacy", tradizionalmente sanzionata dall'art. 614 c.p., che prevede come penalmente illecita la introduzione "fisica" nell'abitazione altrui, nei luoghi di privata dimora e nelle appartenenze di essi. Fra queste rientrano indubbiamente le cose che siano legate con l'abitazione o con altro luogo di privata dimora da stretto rapporto pertinenziale ai sensi dell'art. 817 Cod. Civ., come, ad esempio, gli ingressi, anche se prospicienti sulla pubblica via, non potendosi confondere, come giustamente posto in luce da questa Corte con la sentenza di annullamento, il diritto civilistico di veduta di cui all'art. 900 Cod. Civ., con la facoltà (soggetta a restrizioni penalmente garantite) di documentare fatti della vita privata altrui.

2. Privo di consistenza appare anche il secondo motivo di gravame, con cui si censura la decisione di rigetto della richiesta di parziale rinnovazione dell'istruzione dibattimentale.

Infatti, al di la delle considerazioni strettamente attinenti al merito che connotano tale doglianza, va osservato che la possibilità di chiedere la rinnovazione del dibattimento in sede di rinvio va riferita alla disposizione, contenuta nel secondo comma dell'art 627 c.p.p., secondo cui l'assunzione di nuove prove è disposta solo quando le stesse siano "rilevanti per la decisione", norma che va comunque collegata a quella contenuta nel primo comma dell'art. 603, che prevede che il giudice dispone la rinnovazione del dibattimento se "ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti", quando cioè la reputi assolutamente necessaria ai fini del giudizio.

Come è stato più volte chiarito e ribadito da questa Corte, la rinnovazione del dibattimento in appello è un evento che, contrapponendosi alla presunzione di completezza della istruzione dibattimentale compiuta in primo grado, ha carattere assolutamente eccezionale, e l'esercizio del potere di disporla da parte del giudice è vincolato alla condizione che quest'ultimo ritenga che gli elementi probatori raccolti in primo grado non gli consentano di pervenire ad una decisione. Spetta dunque al giudice di merito la decisione in ordine alla assoluta necessità, ai fini della pronuncia, di procedere alla assunzione di nuove prove, oltre a quelle già acquisite nel corso del dibattimento di primo grado. (v. Cass., Sez. Un. Sent. n. 2780 del 24.1.1996, Panigoni; Sez. VI, 17.4.1996 n. 3986, Mazza; Sez. III, 23.2.1996 n. 2012, Quaranta ecc.).

In maniera più specifica si è chiarito che "Il giudice d'appello, in sede di rinvio, non è tenuto a disporre la rinnovazione del dibattimento ogni volta che le parti ne facciano richiesta; i suoi poteri anche in ordine alla rinnovazione predetta -sempre che il rinvio non sia stato disposto proprio a tal fine- risultano infatti sostanzialmente uguali a quelli che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, con l'ulteriore precisazione che la prova da assumersi nella eccezionale ipotesi di nuova istruttoria dibattimentale, oltre che indispensabile per la decisione ai sensi dell'art. 603 c.p.p., deve anche essere "rilevante", come prescritto dal secondo comma, ultima parte, dell'art. 627 c.p.p.- (Cass., Sez. II, sent. n. 9533 del 3-7-1995, D'Urzo).

Nel caso in esame la Corte territoriale ha dato atto che le circostanze utili ad accertare la responsabilità dell'imputato erano state compiutamente acquisite al processo, e che, essendovi sufficienti elementi, sia di natura generica che specifica, per pervenire alla decisione, un supplemento di istruzione non avrebbe potuto addurre alcun utile apporto al giudizio. Trattasi di valutazione strettamente riservata al giudice di merito, la cui congruenza non può essere censurata in sede di legittimità.

3. Palesemente priva di fondamento la censura contenuta nel quarto motivo di doglianza. Ed invero, avuto riguardo alle considerazioni già svolte nel par. 1, nessun rilievo, se non sotto il profilo della graduazione della pena, possono avere, ai fini della ravvisabilità degli estremi del reato in esame, il ridotto ambito spaziale delle riprese e la scarsa invasività delle stesse.

4. In ordine al quarto motivo di gravame, è sufficiente rilevare che il giudice del rinvio decide con gli stessi poteri che aveva il giudice della sentenza annullata, per modo che, pur essendo tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, egli può sempre utilizzare il residuo materiale probatorio e mantiene, nell'ambito del punto colpito dall'annullamento, piena autonomia di giudizio nella ricostruzione del fatto e nella valutazione dei dati, "nonché il potere di desumere, anche "aliunde" -e dunque eventualmente sulla base di elementi trascurati dal primo giudice- il proprio libero convincimento. colmando, in tal modo, i vuoti motivazionali segnalati ed eliminando le incongruenze rilevate." (v. Cass., Sez. V, sent. n. 4761 del 18-1-1999, Munari; e, negli stessi sensi, Sez. V, sent. n. 2136 del 5-1999, Lezzi).

5. Per quanto attiene, infine, alla doglianza, avanzata con i motivi aggiunti e relativa alla asserita preclusione per la presenza di giudicato -a parte la infondatezza della stessa, trattandosi di fatti avvenuti in un periodo successivo e, quindi, diverso- la stessa non può essere presa in considerazione in questa sede, trattandosi di motivo del tutto estraneo rispetto a quelli formulati con il ricorso principale (v. cass., Sez. Un., sent. n. 4683 del 25.2.1998, Bono).

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il ricorso va respinto, con conseguente condanna dello Amadei al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.










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