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Il reato di minaccia resta integrato per il solo fatto che si minacci altri di un male ingiusto
Pubblicata il 02/10/2008
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Ricorre il difensore, deducendo violazione dell'art. 612 c. p., trattandosi di frase inidonea a concretizzare il reato contestato ed in quanto alcuna limitazione alla libertà morale del soggetto ne è derivata. Le pretese frasi minacciose erano state pronunziate non in presenza della PO, ma di terze persone, dunque non fu possibile per l'agente accompagnarle con espressioni o gesti che rendessero convincente la minaccia. Si sarebbe dunque trattato di una minaccia "mandata a dire", che mai fu portata a conoscenza del diretto interessato. D'altronde, il soggetto passivo era un appartenente alla polizia penitenziaria e, pertanto, persona abituata al contatto con soggetti ribelli. In realtà poi l'unico soggetto limitato nel suo operare era proprio il V., il quale, all'epoca, era, appunta, detenuto e dunque mai avrebbe potuto portare ad esecuzione la minaccia asseritamente formulata. Il male che si assume minacciato poi era generico ed inidoneo a far sorgere timore nel soggetto destinatario. Detto male comunque non è poi stato prospettato come alternativa ad un futuro comportamento, cosa che, viceversa, è elemento costitutivo del reato di minaccia. Infine, se minaccia c'è stata, si è trattato di una minaccia "aperta", la quale, tenuto conto delle qualità del soggetto passivo, per avere effettivo peso, avrebbe dovuto esser formulata da un soggetto, portatore di un'allarmante personalità (cosa che, nel caso in esame, certamente, non è).
Il ricorso è generico e manifestamente infondato e quindi inammissibile. Il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del grado ed al versamento di somma a favore della cassa ammende, somma che si stima equo determinare in euro 500.
A fronte della affermazione contenuta nella sentenza di primo grado circa la idoneità delle frasi pronunziate dal V. ad intimidire il destinatario, il ricorrente si limita ad affermare il contrario, semplicemente precisando che l'appartenenza della PO alla polizia penitenziaria, e dunque la sua consuetudine con soggetti violenti, la avrebbe resa immune ed insensibile alle minacce. Trattasi di una tesi quantomeno singolare, atteso che, viceversa, deve ritenersi (e così ha ritenuto il giudice di merito) che, proprio perché proveniente dall'interno dell'ambiente carcerario, la minaccia sia apparsa particolarmente "pesante".
Il fatto poi che le frasi non siano state percepite direttamente dal destinatario, ma a siano state a lui riportate da terzi, è del tutto irrilevante, dal momento che il reato de quo sussiste e si consuma quando l'espressione minacciosa sia portata a conoscenza del soggetto passivo (ASN 198508264 - RV 170482). Né è logico affermare che costui non ne è mai venuto a conoscenza, altrimenti, il presente procedimento non avrebbe mai avuto inizio.
Infine errato è sostenere che, poiché il male minacciato non era prospettato come alternativa ad un comportamento richiesto alla PO, non ricorra il delitto ex art. 612 c. p., il quale, viceversa, resta integrato per il solo fatto che si minacci altri di un male ingiusto. Se invece la minaccia costituisce strumento per ottenere dal destinatario un determinato comportamento, altri e più gravi, come è noto, sono i reati configurabili (es. artt. 610, 629 c. p. ecc.).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro cinquecento a favore della cassa delle ammende.