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In tema di furto d'auto l'esistenza di un semplice coneno antifurto non esclude l'aggravante dell'esposizione della cosa alla pubblica fede nè la violenza sulle cose

Se e' vero che nel reato di furto, la circostanza aggravante della esposizione del bene alla pubblica fede non sussiste qualora la tutela dello stesso risulti garantita da congegni idonei ad assicurare una sorveglianza assidua e continuativa, e' tuttavia principio consolidato nella giurisprudenza di legittimita' quello secondo cui in tema di furto d'auto, la circostanza aggravante dell'esposizione alla pubblica fede e' compatibile con quella di violenza sulla cosa, quando a bordo del veicolo sia stato montato un (semplice) congegno antifurto, che non elimina il pubblico affidamento della res. (Corte di Cassazione Sezione 4 Penale, Sentenza del 24 aprile 2009, n. 17604)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANATO Graziana - Presidente

Dott. ROMIS Vincenz - rel. Consigliere

Dott. FOTI Giacomo - Consigliere

Dott. MAISANO Giulio - Consigliere

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) BI. GI. N. IL (OMESSO);

avverso SENTENZA del 05/10/2005 CORTE APPELLO di GENOVA;

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROMIS VINCENZO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Gialanella Antonio che ha concluso per l'inammissibilita' del ricorso.

OSSERVA

Il Tribunale di Chiavari condannava Bi. Gi. alla pena ritenuta di giustizia per furto aggravato di un'auto ai sensi dell'articolo 624 c.p., articolo 625 c.p., nn. 2 e 7. A seguito di gravame ritualmente proposto nell'interesse dell'imputato, la Corte d'Appello di Genova confermava l'impugnata decisione e, in particolare, disattendeva la tesi difensiva secondo cui il primo giudice aveva violato il principio di correlazione tra contestazione e sentenza, avendo ritenuto sussistente l'aggravante della violenza sulle cose, pur asseritamene non contestata, dopo aver escluso la configurabilita' dell'aggravante dell'uso di mezzo fraudolento; la Corte stessa rigettava altresi' la richiesta dell'appellante di esclusione dell'aggravante dell'esposizione della cosa alla pubblica fede: con i motivi di appello la difesa aveva prospettato la insussistenza dei presupposti per la configurabilita' dell'aggravante in argomento muovendo dal rilievo che l'auto era dotata di antifurto ed era stata parcheggiata nelle immediate vicinanze dell'abitazione della parte lesa che, pertanto, aveva la possibilita' di esercitare sulla stessa un costante e diretto controllo visivo.

Ricorre per Cassazione il Bi. reiterando le tesi difensive gia' sottoposte al vaglio della Corte territoriale quali sopra ricordate.

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito indicate.

Per quel che riguarda il primo motivo di ricorso, vero e' che la sola indicazione della norma violata, in assenza di una specifica descrizione della condotta illecita che si assume tenuta, puo' non valere ad integrare una compiuta contestazione dell'addebito. Nel caso di specie, tuttavia, con riferimento all'aggravante, indicata nel capo di imputazione, dell'articolo 625 c.p., n. 2 - prescrizione, questa, che ha riguardo sia all'uso del mezzo fraudolento, debitamente contestato in rubrica, che all'uso di violenza sulla cosa - e' stato esplicitamente precisato, nella motivazione della sentenza di appello, che nel corso del giudizio di primo grado, svoltosi nelle forme del rito abbreviato, si era preso atto dell'uso della violenza sulla cosa. La decisione impugnata, sia pure in modi molto succinti, ha fatto corretto impiego del reiterato insegnamento di questa Corte, anche a Sezioni Unite (Sent. N. 16, Di Francesco, del 22.10.1996), e quindi sempre ripetuto dalla giurisprudenza successiva in tema di difetto di correlazione, circa la differenza tra fatto ritenuto in sentenza e contestazione, e di valutazione della reale sussistenza di lesione del diritto di difesa; basti al riguardo citare, tra le tante, Sez. 3, n. 35225 del 28/06/2007 Ud. (dep. 21/09/2007) Rv. 237517 (Imputato: Dimartino) secondo cui "il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato quando nei fatti, rispettivamente descritti e ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, non in rapporto di continenza, ma di eterogeneita'. (Fattispecie in cui l'imputato, citato a giudizio per avere ammesso al lavoro un minore di anni quindici, era stato ritenuto responsabile, in assenza di modifica dell'imputazione, del reato di assunzione di adolescente di eta' superiore ai quindici anni, ma inferiore ai diciotto, che non aveva adempiuto all'obbligo scolastico)"; nello stesso senso si pone Sez. 5, n. 7583 del 11/06/1999 (Ud. 06/05/1999 n. 01019) Rv. 213645 (Imputato: Grossi L ed altri), che cosi' si e' espressa: "la mancata correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza si verifica solo quando si manifesti radicale difformita' tra i due dati, in modo che possa derivarne assoluta incertezza sull'oggetto della imputazione, con conseguente pregiudizio dei diritti della difesa. Pertanto, l'indagine volta ad accertare la eventuale sussistenza di tale violazione non puo' esaurirsi in un'analisi comparativa, meramente letterale, tra imputazione e sentenza, dal momento che il contrasto non sarebbe ravvisabile se l'imputato, attraverso l'iter del processo, fosse comunque venuto in concreto a trovarsi in condizione di difendersi in ordine all'oggetto della contestazione". Inoltre, va osservato che, nel caso di specie, l'imputazione e' stata, in sentenza, precisata o integrata, con il richiamo alle risultanze processuali note all'imputato; e tali integrazioni non hanno certo inciso sugli elementi costitutivi del reato formalmente contestato. Dunque: l'imputato e' venuto a trovarsi nella condizione di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione. Di tal che, non puo' certo argomentarsi che il principio di correlazione tra reato contestato e fatto ritenuto in sentenza risulti violato giacche' non e' a discutersi di assoluta incompatibilita' tra i due dati, di modo che la pronuncia del giudice di merito debba ritenersi relativa ad un fatto del tutto nuovo rispetto alla ipotesi di accusa: ad ogni buon conto, tra i diversi fatti di reato che il ricorrente ipotizza oggetto l'uno della imputazione, l'altro della sentenza di condanna, sussisterebbe comunque un rapporto di omogeneita' in nesso di specificazione.

Quanto, poi, al secondo motivo di ricorso, in punto di aggravante dell'esposizione a pubblica fede e dell'essere l'autovettura dotata di sistema antifurto, mette conto sottolineare che nei motivi di appello e nel ricorso si fa riferimento al fatto che il derubato avrebbe esercitato una vigilanza costante sul bene ed alla circostanza che si sarebbe trattato di veicolo dotato di un congegno di sicurezza non meglio descritto; situazione asseritamene desumibile dalla denuncia della quale, tuttavia, non v'e' indicazione di sorta in alcuna delle due sentenze (di primo e secondo grado). Orbene, la prima delle dette allegazioni e' gia' stata smentita in fatto dal Giudice a quo; la seconda, di contro, e' del tutto generica. Peraltro, se e' vero che nel reato di furto, la circostanza aggravante della esposizione del bene alla pubblica fede non sussiste qualora la tutela dello stesso risulti garantita da congegni idonei ad assicurare una sorveglianza assidua e continuativa, e' tuttavia principio consolidato nella giurisprudenza di legittimita' quello secondo cui in tema di furto d'auto, la circostanza aggravante dell'esposizione alla pubblica fede e' compatibile con quella di violenza sulla cosa, quando a bordo del veicolo sia stato montato un (semplice) congegno antifurto, che non elimina il pubblico affidamento della res: tale e' la situazione connotante il caso di specie.

Conclusivamente, le dedotte censure risultano manifestamente infondate. Alla declaratoria di inammissibilita' segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche' (trattandosi di causa di inammissibilita' riconducibile alla volonta', e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro 1000,00 (mille).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

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